L’ombra delle “Scam Cities” si estende: le città della truffa conquistano nuovi continenti

Un fenomeno criminale inquietante, emerso con forza durante la pandemia, sta ridisegnando la mappa delle truffe globali: le “scam cities”. Si tratta di vere e proprie enclavi urbane, o pseudo-urbane, da cui partono la maggior parte delle frodi online che affliggono il mondo. Un recente rapporto delle Nazioni Unite ha lanciato l’allarme, evidenziando come queste città criminali, inizialmente concentrate nel Sud-Est asiatico, stiano ora proliferando anche in Africa, Sudamerica e Medio Oriente, approfittando della fragilità delle istituzioni locali.


Il contagio delle “città della truffa”: dal Sud-Est asiatico al mondo

Le “scam cities” sono centri in cui centinaia di migliaia di persone, spesso migranti attratti da false promesse di lavoro, vengono ridotte in condizioni di sfruttamento e semi-schiavitù. La loro “attività” principale è perpetrare ogni sorta di truffe online: dalle frodi affettive ai falsi investimenti, dai furti di criptovalute alle scommesse illegali. Il rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (UNODC) sottolinea come la loro crescita sia stata esponenziale a partire dall’emergenza sanitaria, con un epicentro iniziale in paesi come Thailandia, Myanmar, Filippine, Laos, Cambogia e Cina. Qui, i lavoratori venivano privati dei documenti e costretti a operare, spesso sotto minaccia e violenza, utilizzando sofisticate tecniche di social engineering. Nonostante alcuni collaborino volontariamente, la stragrande maggioranza è trattenuta contro la propria volontà, trasformando queste città in luoghi dove la schiavitù moderna incontra la criminalità informatica.


Nuovi orizzonti del crimine: Africa e Sudamerica nel mirino

Gli sforzi dei governi asiatici per smantellare queste “città della truffa” hanno avuto un effetto collaterale preoccupante: le organizzazioni criminali si sono spostate, cercando nuovi terreni fertili. L’UNODC ha rilevato una rapida espansione in regioni caratterizzate da forti fragilità istituzionali, come l’Africa (con la Nigeria in testa, seguita da Zambia e Angola), il Sudamerica (Brasile e Perù) e alcune isole remote dell’Oceano Pacifico.

In Nigeria, ad esempio, si sono registrati numerosi arresti tra la fine del 2024 e l’inizio del 2025, coinvolgendo anche individui provenienti dal Sud-Est asiatico. Simili operazioni in Zambia e Angola hanno mostrato la capacità di queste reti criminali di adattarsi e sfruttare i vuoti governativi. In Sudamerica, il Brasile è il paese con il maggior numero di queste realtà, seguito dal Perù, dove già a fine 2023 la polizia aveva liberato quaranta cittadini malesi, vittime di un’organizzazione criminale taiwanese specializzata in frodi informatiche, reclutati con la triste consuetudine di falsi annunci di lavoro.


La persistenza del modello: mafie asiatiche e gruppi locali

Nonostante i cambiamenti geografici, la gestione e il controllo delle “scam cities” rimangono saldamente nelle mani di organizzazioni criminali asiatiche. Tuttavia, si sta assistendo a un crescente coinvolgimento di gruppi criminali locali, che fungono da intermediari o garanti nei nuovi territori. Questa dinamica, già osservata in Asia, si sta replicando nei nuovi insediamenti, mantenendo invariato il modus operandi: sfruttamento, coercizione e frode su scala industriale. Le aree remote del mondo, dove le istituzioni statali sono deboli o assenti, offrono un habitat ideale per queste attività illecite.


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Indipendenza e apparenza: i giudici sotto la lente dell’imparzialità

La giustizia italiana torna al centro del dibattito sull’imparzialità dei giudici. L’Unione Nazionale Camere Penali ha criticato fermamente l’idea che la qualità di una decisione giudiziaria possa prescindere dalle condotte del magistrato, sottolineando l’importanza che l’indipendenza e l’imparzialità siano evidenti in ogni aspetto della vita di chi amministra la giustizia.

Secondo la Giunta delle Camere Penali, pretendere di ignorare l’importanza dell’apparenza di imparzialità, delegando l’intera responsabilità alla sola “qualità della decisione”, è un atteggiamento irrazionale. Questa postura, si legge nella nota, sembra motivata solo dalla volontà di mantenere un privilegio ingiustificabile in un sistema democratico basato su un equilibrio di valori costituzionali.

La critica si rivolge anche a chi, pur non condividendo le posizioni del Ministro Nordio, sembra trascurare un insegnamento consolidato della Corte Costituzionale. Quest’ultima, in una sentenza fondamentale, aveva già chiarito che, sebbene i magistrati godano delle stesse libertà di ogni cittadino, le loro funzioni e la loro qualifica non sono indifferenti per l’ordinamento costituzionale. Di conseguenza, tutti i magistrati “devono essere imparziali e indipendenti e tali valori vanno tutelati non solo con specifico riferimento al concreto esercizio delle funzioni giurisdizionali ma anche come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza e imparzialità”. Un principio, evidentemente, ancora troppo spesso disatteso.

Oltre la sentenza: l’importanza della percezione pubblica

L’Unione ribadisce con forza che l’imparzialità non può essere una qualità limitata al verdetto, ma deve essere intrinseca alla figura del giudice, manifestandosi nella sua “pubblica postura”. Viene contestata l’affermazione contenuta nella mozione finale dell’ultimo Congresso dell’Associazione Nazionale Magistrati, secondo cui una critica non basata sulle motivazioni, ma su “dichiarazioni o meri comportamenti” del magistrato, sarebbe “dannosa per le istituzioni”.

Le Camere Penali sottolineano come una simile prospettiva non tenga conto della complessità della giurisdizione e del processo in una società democratica, dove ogni attore istituzionale deve rispondere responsabilmente del potere conferitogli. Non è accettabile, si argomenta, che non abbia importanza se un giudice abbia espresso posizioni in controversie politiche attinenti al suo giudizio, o se abbia manifestato avversione o apprezzamento su questioni che investono la materia del proprio processo.

Questa visione, secondo la nota, si basa sull’errato presupposto che la qualità del giudice non debba essere oggetto di una percezione positiva anticipata, cruciale per la legittimazione stessa del giudizio. L’imparzialità del giudice, così come la sua terzietà, deve essere radicata nella sua immagine e percepita all’esterno e a prescindere dall’esito del processo. La giurisdizione è un meccanismo sociale delicato e il giudice deve apparire imparziale anche prima dell’inizio del processo. Se tale apparenza viene meno, la correttezza e la legittimità della sua decisione potranno essere facilmente messe in discussione, minando la fiducia dei cittadini nella giustizia.


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Cassa forense: le nuove aree digitali per avvocati e famiglie

Prosegue il percorso di completa digitalizzazione dell’ente di previdenza dedicato agli avvocati, che ha annunciato l’implementazione di nuove funzionalità all’interno dell’area riservata del proprio portale web. Questi aggiornamenti sono progettati per offrire agli iscritti e ai loro familiari un’esperienza più agevole nella fruizione dei servizi e una gestione più efficace delle rispettive posizioni individuali.

Nuove Opportunità per i Familiari

Una delle novità più rilevanti, introdotta in linea con il Nuovo Regolamento dell’Assistenza 2024, è l’attivazione di un’Area riservata dedicata ai familiari dei legali iscritti. Questa sezione permette l’invio telematico di domande relative all’assistenza e ai bandi. Tra le funzionalità disponibili spiccano:

  • La consultazione dei cedolini per i titolari di pensioni indirette e di reversibilità.
  • L’accesso ai modelli di Certificazione Unica per i familiari beneficiari di prestazioni assistenziali o titolari di pensione indiretta e di reversibilità.

Strumenti Potenziati per i Professionisti

Anche l’area riservata destinata direttamente agli avvocati iscritti è stata arricchita con strumenti pensati per una gestione più completa e trasparente della propria posizione:

  • Nuovi box informativi nella homepage, che mostrano il saldo contabile aggiornato e la situazione dichiarativa.
  • Una riorganizzazione dell’estratto contributivo, ora presentato in modo più chiaro e ordinato.
  • La possibilità di inoltrare l’istanza alla Commissione Paritetica in caso di contenzioso con il fornitore della Polizza Sanitaria.
  • L’introduzione della rateizzazione delle sanzioni intere (oltre a quella già prevista per le sanzioni ridotte), con la facoltà di generare un avviso PAGOPA precompilato per il versamento di un acconto del 20%, come stabilito dal Nuovo Regolamento Previdenziale.

Un Albo Unico a Portata di Click

Tra gli aggiornamenti sul sito istituzionale, è stata resa disponibile una nuova funzione per la consultazione dell’Albo Unico degli Avvocati. Questo servizio consente ai cittadini di:

  • Ricercare professionisti iscritti all’Albo o ai registri dei Praticanti, utilizzando criteri di ricerca intuitivi.
  • Visualizzare informazioni aggiornate quali dati anagrafici, recapiti, contatti, ordine di appartenenza e specializzazione.

Questo importante strumento è il frutto dell’integrazione dei dati forniti da tutti gli Ordini Forensi d’Italia, resa possibile grazie alla recente apertura di un canale di comunicazione informatico tra il Consiglio Nazionale Forense e l’ente di previdenza.


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Eleggibilità nei Consigli forensi: chiarimenti sul mandato “saltato”

Il dibattito sull’eleggibilità dei componenti dei Consigli dell’Ordine degli Avvocati si arricchisce di un’importante interpretazione. Il divieto di un terzo mandato consecutivo impone, per una nuova eleggibilità, che intercorra un periodo di assenza dall’incarico pari alla durata effettiva del secondo mandato precedente. Questo significa che la permanenza “saltata” da un avvocato non può essere inferiore al tempo in cui ha ricoperto il suo secondo incarico, anche se tale periodo è stato esteso a causa di una proroga del Consiglio stesso.

La normativa, in particolare il comma 3 dell’articolo 3 della legge 113/2017, enfatizza il calcolo del tempo in modo “effettivo”. Questo è stato ribadito da una sentenza delle Sezioni Unite (n. 13376/2025), che ha chiarito come il parametro di uguaglianza tra la durata del secondo mandato e il periodo di “vacatio” fino alle nuove elezioni sia fondamentale. L’obiettivo è prevenire qualsiasi influenza sull’elettorato attivo e favorire un ricambio fisiologico all’interno degli organi rappresentativi.

La decisione in questione ha anche respinto una nuova richiesta di rinvio pregiudiziale alla Consulta, confermando la legittimità della precedente pronuncia del Consiglio Nazionale Forense in qualità di giudice speciale. La sentenza ha infine validato la decisione rescissoria del giudice del rinvio, che si era correttamente conformato ai principi di diritto stabiliti dalle Sezioni Unite in sede rescindente.


Il nodo cruciale: il “tempo effettivo”

La questione si è concretizzata in un caso specifico dove una consiliatura “saltata” dall’avvocato ricorrente (il cui terzo mandato è stato annullato) ha avuto una durata oggettivamente inferiore al quadriennio (tre anni e cinque mesi), a fronte di quella precedente prolungata oltre i quattro anni (quattro anni e sette mesi).

In questa situazione, la terza ricandidatura è stata ritenuta in violazione della prescrizione normativa, che richiede un intervallo di tempo pari a quello in cui si è svolto il precedente secondo mandato. La durata effettiva delle consiliature, quindi, diventa il parametro determinante, rendendo insufficiente il mero “fermo” di una consiliatura se il periodo di assenza non è equivalente alla durata del mandato precedente.


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Formazione e mobilità sociale: la sfida per una società della longevità sostenibile

Mentre l’Europa affronta le sfide dell’invecchiamento e della transizione digitale ed ecologica, l’Italia si trova in una posizione particolarmente delicata. Secondo le ultime proiezioni demografiche delle Nazioni Unite, entro il 2050 gran parte dei Paesi avanzati perderà una quota significativa di popolazione in età lavorativa, con il Giappone previsto a -20%, la Corea del Sud a -14% e l’Italia tra i Paesi più colpiti, con una riduzione superiore al 25% nella fascia tra i 25 e i 49 anni.

Un calo che, senza adeguate contromisure, rischia di compromettere non solo la sostenibilità del sistema pensionistico e sanitario, ma anche le capacità produttive e competitive del Paese. Ad aggravare la situazione, in Italia si sommano forti disuguaglianze sociali e territoriali che frenano la mobilità sociale e alimentano la fuga di giovani qualificati verso l’estero.

A fronte di queste dinamiche, il Rapporto ASviS 2025 e il recente Rapporto Giovani 2025 dell’Istituto Toniolo hanno ribadito con forza l’urgenza di una svolta nelle politiche educative e formative. Senza una strategia organica che investa sul capitale umano e sull’istruzione di qualità, il nostro Paese rischia di trovarsi impreparato di fronte ai profondi cambiamenti demografici e tecnologici in atto.

In Italia, infatti, persistono livelli di abbandono scolastico superiori alla media europea (10,5% contro il 9,5%) e solo un giovane su dieci tra coloro che hanno genitori con basso livello d’istruzione riesce a conseguire un titolo universitario. È evidente come il contesto familiare e territoriale condizioni ancora fortemente il percorso educativo e le opportunità future.

A preoccupare, inoltre, sono i dati dell’indagine internazionale PIAAC-OCSE sulle competenze degli adulti, che evidenziano per l’Italia livelli ancora bassi e poco migliorati rispetto alla precedente rilevazione del 2012, mentre molti altri Paesi hanno compiuto significativi passi avanti. Il rischio concreto è che senza interventi strutturali, i modesti progressi ottenuti dalle nuove generazioni possano andare dispersi.

Eppure qualche segnale positivo c’è: i giovani italiani tra i 16 e i 24 anni mostrano risultati più vicini alla media europea, in particolare nelle competenze numeriche. È la conferma che investire nelle fasi più precoci della vita può fare la differenza.

Fornire una solida formazione di base, ridurre i divari sociali e territoriali, promuovere il lifelong learning e rafforzare le competenze digitali e ambientali sono scelte non più rimandabili. Solo così si potrà costruire una società della longevità che non sia un freno, ma un’opportunità di sviluppo sostenibile e inclusivo.

La sfida, dunque, non riguarda solo la quantità della popolazione attiva, ma soprattutto la qualità delle persone che animeranno il Paese nei prossimi decenni. Un’Italia capace di valorizzare talento, competenze e innovazione, garantendo pari opportunità di crescita a tutte le fasce sociali e generazioni.


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Tribunale della Pedemontana, Nordio: “Imminente ddl”

Roma, 21 maggio 2025 – Si è concluso, presso la sede ministeriale di via Arenula, l’incontro tra il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e una delegazione composta dal Presidente della Provincia di Vicenza, Andrea Nardin, dal Sindaco di Bassano del Grappa, Nicola Ignazio Finco, dal Presidente del Comitato Tribunale della Pedemontana, Francesco Savio, dal Presidente del Raggruppamento Bassano di Confindustria Vicenza e rappresentante delle Categorie del territorio, Alessandro Bordignon, dal delegato della Provincia di Treviso e Presidente di IPA Terre di Asolo e Montegrappa, Claudio Sartor e dal Sindaco di Cittadella, Luca Pierobon.

Si è trattato di un confronto proficuo sullo stato dell’iter relativo al Tribunale della Pedemontana. Presenti all’incontro anche il Viceministro, Francesco Paolo Sisto, e i Sottosegretari Andrea Del Mastro Delle Vedove e Andrea Ostellari. Il Ministro ha comunicato l’approvazione del Tribunale di Bassano e ha assicurato l’imminente presentazione in Consiglio dei Ministri del disegno di legge relativo. Dal canto suo, la delegazione ha espresso “viva soddisfazione nei confronti del Ministro Nordio, dopo ben tredici anni di richieste disattese dalla politica verso le richieste dei nostri territori”.


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Il prestanome non è mai davvero al riparo. Con la sentenza n. 17283, depositata l’8 maggio 2025, la Terza sezione penale della Corte di Cassazione ha confermato un principio ormai consolidato in materia di reati tributari: l’amministratore di diritto di una società, anche se privo di effettivi poteri gestionali e operativo solo sulla carta, resta direttamente responsabile per i reati dichiarativi commessi in qualità di rappresentante legale.

La vicenda riguardava la condanna, già confermata in appello, di un amministratore formale di una società, chiamato a giudizio insieme a un amministratore di fatto (giudicato separatamente) per una dichiarazione fraudolenta. La difesa aveva tentato di far valere la qualifica di mero prestanome, sottolineando la sostanziale estraneità ai fatti e l’assenza dal territorio italiano durante le fasi gestionali decisive. Un’argomentazione che non ha convinto né i giudici di merito né la Suprema Corte.

Secondo la Cassazione, infatti, il ruolo di amministratore di diritto comporta precisi obblighi di legge, tra cui quello di firmare le dichiarazioni fiscali della società. E poco importa che l’effettiva gestione sia stata nelle mani di un altro soggetto: a meno che il rappresentante legale non dimostri di essersi diligentemente informato sulla reale conduzione della società e sull’attendibilità delle scritture contabili, resta pienamente responsabile per gli illeciti tributari.

Un orientamento, quello ribadito nella pronuncia, in linea con precedenti sentenze che avevano già chiarito come, in materia di dichiarazioni fiscali infedeli o fraudolente, il firmatario dell’atto fiscale sia considerato autore principale, e non responsabile per mera omissione di vigilanza.

Nel caso specifico, il Procuratore Generale aveva evidenziato come fosse stato proprio il ricorrente a sottoscrivere la dichiarazione fraudolenta, e che la sua presunta assenza dall’Italia e mancata partecipazione all’assemblea di approvazione del bilancio non potessero valere come scusanti. La Cassazione ha condiviso questa impostazione, aggiungendo che il ricorrente non aveva neppure fornito la prova di aver vigilato sull’attività societaria o di essersi accertato della veridicità delle fatturazioni dichiarate, alcune delle quali relative a operazioni inesistenti.

Il messaggio è chiaro: rivestire formalmente un incarico societario comporta oneri specifici e non consente di sottrarsi alle conseguenze penali invocando un ruolo di pura facciata. Anche nella complessa realtà delle società gestite di fatto da terzi, la legge attribuisce precise responsabilità all’amministratore di diritto, che resta tenuto a rispondere dei reati dichiarativi, salvo che non dimostri di avere assunto, con diligenza, tutte le informazioni necessarie per garantire la regolarità fiscale della gestione.


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Quando una parola pesa: se l’indagato diventa imputato scatta la diffamazione a mezzo stampa

ROMA — Un errore di terminologia nella cronaca giudiziaria può costare caro. Lo hanno ribadito le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 13200/2025, che ha definitivamente chiarito come attribuire pubblicamente a una persona la qualifica di “imputato” quando è ancora solo “indagata” configuri diffamazione a mezzo stampa. Stesso discorso se si attribuisce un reato “consumato” invece di uno “tentato”.

Il verdetto mette fine a un contrasto giurisprudenziale tra le sezioni civili e penali della Cassazione, che in passato avevano assunto orientamenti differenti sull’applicabilità del diritto di cronaca giudiziaria in casi simili.

Il caso: titolo e contenuto scorretti

Al centro della vicenda, un articolo online dal titolo “Truffa del superfinanziere”, in cui una persona veniva indicata come imputata per truffa, quando in realtà era solo indagata — e per un fatto meno grave, ovvero tentata truffa. In primo grado il Tribunale di Roma aveva escluso il carattere diffamatorio della notizia, ritenendo che gli errori non intaccassero la veridicità complessiva della ricostruzione. Diversa la valutazione in appello, dove si era sottolineata la gravità della falsità, anche in considerazione del prestigioso ruolo ricoperto dalla persona coinvolta.

Le Sezioni Unite: il diritto di cronaca ha limiti precisi

La Corte ha stabilito che l’esimente del diritto di cronaca giudiziaria non può essere invocata quando si attribuisce a qualcuno uno status giudiziario diverso da quello reale o si alterano gli elementi essenziali dei fatti, aggravandone la portata offensiva. A maggior ragione se a commettere l’errore è un giornalista esperto in cronaca giudiziaria, che dovrebbe conoscere la differenza tra “indagato” e “imputato” e tra reato tentato e consumato.

Particolarmente significativo il riferimento al contesto digitale. La Corte ha infatti osservato che il lettore online, spesso frettoloso e abituato a informarsi solo attraverso titoli e occhielli, può essere facilmente tratto in inganno da qualifiche improprie, con conseguenze pesanti sulla reputazione dei soggetti coinvolti.

Conclusioni: precisione e responsabilità nella cronaca giudiziaria

La Suprema Corte ha quindi richiamato i principi fondamentali in materia di diffamazione: imprecisioni di dettaglio possono essere tollerate se non alterano il senso della narrazione, ma travisamenti che aggravano la posizione di una persona sono lesivi e penalmente rilevanti. E anche il contesto — stampa cartacea o informazione digitale — incide nella valutazione dell’offensività.

In definitiva, come ha concluso la Corte di appello, l’errore compiuto in questo caso era “evidente e inescusabile” e superava i limiti della verità ragionevolmente putativa, privando la pubblicazione della protezione del diritto di cronaca.


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Errore sul contributo unificato? La Cassazione apre alla compensazione delle spese

ROMA — Un errore nella determinazione del contributo unificato può avere conseguenze inattese sul piano delle spese processuali. Lo ha stabilito oggi la Terza sezione civile della Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 13145/2025, precisando che, sebbene tale dichiarazione non incida sul valore della domanda giudiziale, può comunque costituire una ragione eccezionale per compensare integralmente le spese del giudizio di legittimità.

Il caso riguardava una controversia in cui la parte ricorrente aveva erroneamente indicato, nell’atto di appello, un valore di 1.200 euro ai fini del contributo unificato, dichiarando successivamente che quella cifra riguardava solo il tributo e non il valore effettivo della causa. La ricorrente aveva dunque chiesto una rideterminazione delle spese di lite, contestando la somma liquidata dal giudice d’appello, ritenuta calcolata su uno scaglione errato.

Il principio ribadito dalla Cassazione

La Corte ha ricordato che il valore della causa, ai fini della liquidazione delle spese, va calcolato esclusivamente sulla somma oggetto di impugnazione e non su quella indicata per il contributo unificato, che è destinata al solo funzionario di cancelleria e non incide sulla determinazione del valore giudiziale. Tuttavia, proprio quell’indicazione errata può aver indotto il giudice ad applicare uno scaglione superiore per la liquidazione dei compensi.

Di qui la decisione della Cassazione di cassare la sentenza limitatamente al capo sulle spese del grado di appello, rideterminando i compensi a 332 euro oltre accessori, ma compensando integralmente le spese del giudizio di legittimità.

Quando l’errore processuale incide sulle spese

Secondo l’ordinanza, anche se l’errore non modifica la domanda né incide sulla competenza, resta comunque astrattamente idoneo a determinare un provvedimento conclusivo errato sulle spese. Ed è perciò equo, ha stabilito la Corte, che i costi dell’impugnazione resa necessaria da quell’errore non gravino sulla parte vittoriosa, soprattutto se questa non ha nemmeno resistito in giudizio.


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Avvocati, il CNF ribadisce: la buona fede non cancella l’illecito disciplinare

ROMA — Non basta dichiararsi in buona fede per evitare una sanzione disciplinare. A ribadirlo è il Consiglio Nazionale Forense, che con la sentenza n. 393/2024, pubblicata il 14 maggio 2025, ha confermato un principio cardine del diritto disciplinare forense: l’illecito deontologico si configura sulla base della volontarietà della condotta e non viene escluso dalle intenzioni dichiarate o dalle condizioni psicofisiche dell’avvocato.

Il caso all’origine del procedimento riguardava un professionista che aveva cercato di difendersi sostenendo di aver agito senza dolo e in buona fede, adducendo anche un’alterazione del proprio stato di salute al momento dei fatti contestati. Una linea difensiva che però non ha convinto il Collegio, il quale ha respinto integralmente il ricorso, mantenendo ferma la sanzione decisa in primo grado.

Conta solo la volontarietà, non l’intenzione

Nelle motivazioni, il CNF ha chiarito che il sistema disciplinare forense non richiede né il dolo né la consapevolezza dell’antigiuridicità della condotta: è sufficiente che l’atto violativo sia stato compiuto volontariamente, cioè con coscienza e volontà. La buona fede personale o eventuali stati soggettivi — come disturbi psicofisici — possono essere presi in considerazione soltanto nella fase di determinazione della sanzione, non per escludere la responsabilità disciplinare.

Una posizione coerente con l’impostazione dell’art. 3 del Codice Deontologico Forense, che stabilisce l’obbligo per l’avvocato di conoscere le regole deontologiche e non consente di invocare ignoranza o errore come esimenti.

Tutela della professione prima di tutto

Il Consiglio ha infine ricordato come la funzione del procedimento disciplinare non sia quella di punire il singolo in base al suo stato soggettivo, ma di salvaguardare il decoro e la reputazione della professione forense. La responsabilità disciplinare assume così una finalità preventiva e reputazionale, volta a garantire la fiducia dei cittadini nell’attività degli avvocati.


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