Ipm Treviso, Sangermano (Dgmc): “Denuncia dei Radicali non vera; sovraffollamento diminuito, istituto prossimo alla chiusura”

Roma, 12 maggio 2025 – Con riferimento alle notizie di stampa relative ad alcuni esponenti del Partito Radicale che, in esito alla visita effettuata presso l’Istituto penale per i minorenni di Treviso questa mattina, avrebbero annunciato di voler denunciare il Ministro della Giustizia Carlo Nordio ed il Sottosegretario Andrea Ostellari per le condizioni gravemente critiche in cui avrebbero trovato l’Ipm e tali da compromettere la dignità dei detenuti,  il Capo del Dipartimento per la Giustizia minorile e di Comunità, Antonio Sangermano, dichiara quanto segue:

“Presso l’Ipm di Treviso il Dipartimento per la giustizia minorile è intervenuto già da tempo con un sensibile sfollamento del numero dei detenuti, che oggi sono 20, purtuttavia ancora in esubero rispetto alla capienza (si è passati da 29 a 20 detenuti), e ciò in conseguenza del sovraffollamento del comparto detentivo minorile, causato dall’enorme aumento di minori stranieri non accompagnati detenuti (pari al 49 per cento della popolazione carceraria minorile).

La chiusura dell’Ipm di Treviso è stata già programmata per il mese di dicembre 2025, quando verrà aperto il nuovo Istituto di Rovigo, per il quale si sta accelerando al massimo la ultimazione dei lavori. Presso l’Ipm di Treviso è stato aumentato il numero dei funzionari pedagogici, sono stati nominati un nuovo direttore ed un nuovo comandante.

In Veneto, come in altre Regioni italiane, sono in corso avanzato le procedure per aprire nuove comunità socio-terapeutiche, vera priorità del Dipartimento, secondo gli indirizzi politici dati dal  Ministro Nordio e dal Sottosegretario Ostellari. La magistratura di sorveglianza visita regolarmente l’Ipm, avendo il compito istituzionale che la Legge le conferisce. La rappresentazione effettuata dal comunicato stampa dei Radicali non descrive pertanto la realtà dei fatti.

Va anche evidenziato come il Ministro ed il Sottosegretario non abbiano alcuna competenza sulla gestione dell’Ipm di Treviso, che spetta ai ruoli preposti ed al Dgmc. Il Guardasigilli e il Sottosegretario Ostellari hanno impartito chiare direttive politiche per chiudere al più presto l’Ipm di Treviso e per adottare ogni soluzione logistica a tutela della dignità delle persone detenute, circostanza della quale, come Capo Dipartimento, do personalmente atto.

I dati in possesso ed acquisiti dal Dipartimento in seguito alle presunte dichiarazioni degli esponenti Radicali smentiscono la situazione asseritamente descritta dagli stessi, al contempo non essendo stata data alcuna contezza delle soluzioni adottate per diminuire il sovraffollamento, implementare le attività trattamentali e coprire le vacanze dei ruoli di vertice, così come della chiusura dell’Ipm di Treviso entro dicembre 2025. Venendo meno la suddetta completa rappresentazione, si finisce per fornire all’ opinione pubblica un resoconto oggettivamente non corrispondente al vero.”


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Graduatorie e nuove assunzioni: il Consiglio di Stato chiarisce i limiti allo scorrimento

ROMA — Nuove regole di chiarezza per il reclutamento nella pubblica amministrazione. Con la sentenza n. 3140 dell’11 aprile 2025, il Consiglio di Stato ha fissato un principio che riguarda da vicino Comuni ed enti locali: le graduatorie dei concorsi pubblici non possono essere utilizzate per coprire posti istituiti o trasformati dopo la pubblicazione del bando che ha generato quella stessa graduatoria.

Il caso, nato in Sardegna, riguarda una dipendente comunale di categoria B3 che nel 2022 aveva superato un concorso per passare in categoria C1, lasciando vacante la propria posizione. Il Comune, però, anziché bandire un nuovo concorso per un posto B3 o attingere alle graduatorie esistenti, ha deciso di trasformare quel posto in un’altra posizione C1, modificando successivamente il piano triennale del personale per favorire la mobilità volontaria e solo in seconda battuta procedere con eventuali scorrimenti.

La dipendente esclusa ha fatto ricorso, sostenendo che il Comune avrebbe dovuto rispettare l’ordine delle graduatorie vigenti. Il TAR Sardegna le aveva dato ragione, ma il Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione, stabilendo che l’articolo 91, comma 4, del Testo Unico degli Enti Locali vieta espressamente l’uso di graduatorie per la copertura di posti creati dopo l’indizione di un concorso.

La motivazione è chiara: consentire il contrario significherebbe esporre le amministrazioni al rischio di manovre poco trasparenti, con la possibilità di modificare la pianta organica per agevolare candidati già noti, magari provenienti da graduatorie di altri enti. Una pratica che andrebbe a ledere i principi di imparzialità e trasparenza che devono guidare l’operato della Pubblica Amministrazione.

Il Consiglio di Stato ha anche ribadito che, nel processo di reclutamento, la pubblica amministrazione gode di ampia discrezionalità organizzativa nel decidere se coprire o meno un posto vacante, tenendo conto dei vincoli di bilancio e delle esigenze interne. Ma, una volta deciso di procedere, è obbligata a motivare puntualmente la scelta del metodo di assunzione, giustificando il mancato utilizzo di graduatorie vigenti quando previsto.


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Gratuito patrocinio, il CNF boccia il limite alle materie imposto dal COA

ROMA — Nessun limite numerico alle materie in cui un avvocato può patrocinare nell’ambito del gratuito patrocinio. Lo ha ribadito il Consiglio Nazionale Forense con la sentenza n. 380 del 21 ottobre 2024, intervenendo su un caso sollevato da un avvocato contro il proprio Consiglio dell’Ordine che, con una delibera del 2016, aveva imposto un massimo di tre materie per l’iscrizione alle liste dei difensori a spese dello Stato.

Il professionista contestava la delibera, sostenendo che tale restrizione non trova fondamento in alcuna norma nazionale né europea, e rappresenta una violazione del diritto di difesa, del principio di uguaglianza e delle regole sulla concorrenza e sul mercato. Il ricorrente chiedeva inoltre che fosse riconosciuto il diritto di ogni assistito a scegliersi liberamente il proprio avvocato di fiducia, senza limiti di sorta.

Il Consiglio Nazionale Forense ha riconosciuto il principio, chiarendo che, in effetti, l’articolo 81 del D.P.R. n. 115/2002 non prevede alcuna limitazione in tal senso e che imporre un tetto alle materie significherebbe incidere sul diritto inviolabile di difesa e sulla libertà di scelta dell’assistito. Tuttavia, il CNF ha dichiarato il ricorso inammissibile, sottolineando che non è nelle sue competenze ordinare direttamente modifiche o annullamenti di delibere discrezionali degli Ordini territoriali.

Secondo i giudici forensi, l’avvocato ricorrente non aveva infatti dimostrato un interesse concreto e attuale a far dichiarare l’invalidità della delibera, limitandosi a sollecitare un intervento del CNF su una questione di principio o per situazioni future ipotetiche. Inoltre, il Consiglio ha ribadito che non può sostituirsi alle decisioni autonome degli Ordini, che restano titolari di scelte discrezionali nell’ambito delle loro funzioni istituzionali.

Un punto, però, resta fermo: per il Consiglio Nazionale Forense nessuna norma consente di stabilire limiti alle materie per cui un avvocato può patrocinare a spese dello Stato. Ogni eventuale restrizione di questo tipo, senza una base normativa, sarebbe incompatibile con i principi costituzionali ed europei.


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Cassa Forense, bilancio record: avanzo di 1,85 miliardi e patrimonio in crescita del 10%

ROMA — Cassa Forense archivia il 2024 con un bilancio decisamente positivo. L’ente previdenziale degli avvocati italiani ha infatti registrato un avanzo d’esercizio di oltre 1,85 miliardi di euro, segnando un incremento del 32,1% rispetto all’anno precedente.

Un risultato che porta il patrimonio netto a sfiorare i 19,5 miliardi di euro, con un aumento del 10,6% rispetto al valore finale del 2023. Bene anche la performance finanziaria, che ha toccato il 9,3%, superando nettamente il benchmark di riferimento, fissato al 5,9%.

A trainare il risultato è stato un saldo previdenziale positivo di quasi un miliardo di euro, accompagnato da un significativo incremento della governance finanziaria: i proventi netti sono saliti di oltre 972 milioni, in crescita del 78% rispetto allo scorso esercizio.

Le entrate contributive hanno raggiunto quota 2,36 miliardi di euro, con un incremento di oltre 64 milioni rispetto al 2023.

Sul fronte delle uscite, la spesa per prestazioni ha toccato 1,22 miliardi di euro, in aumento dell’8,7%. In particolare, le pensioni hanno assorbito circa 1,12 miliardi (+9%), mentre per le prestazioni assistenziali sono stati erogati 75 milioni di euro, segnando una crescita del 9,4%.

Positivo anche il dato sui costi di funzionamento dell’ente, che scendono dai 35,1 milioni del 2023 ai 34 milioni del 2024, con una riduzione del 2,8%.

Dal 1° gennaio 2025 è stato introdotto il sistema contributivo per il calcolo delle pensioni degli avvocati, una misura pensata per garantire sostenibilità e maggiore equità generazionale all’interno del sistema previdenziale.


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Regno Unito, il governo stringe sull’immigrazione: fine di un’epoca per i giovani europei

LONDRA — Cambiano le regole nel Regno Unito, e per tanti giovani europei — italiani in testa — potrebbe davvero chiudersi un capitolo. Il governo laburista di Keir Starmer ha annunciato una stretta senza precedenti sull’immigrazione. Ottenere un impiego sarà possibile solo per chi ha una laurea e parla inglese in modo fluente.

Una svolta netta, che segna la fine del periodo in cui a Londra si arrivava con pochi soldi e senza esperienza per fare qualsiasi lavoretto, imparare la lingua e magari lanciare la propria carriera.

Già oggi, dopo la Brexit, per lavorare nel Regno Unito serve un visto sponsorizzato, un salario minimo annuo di circa 35mila euro e una buona conoscenza dell’inglese. Ma ora sarà ancora più difficile.

Le nuove norme, presentate dalla ministra dell’Interno Yvette Cooper, prevedono il taglio di almeno 50mila arrivi di lavoratori non qualificati nel prossimo anno e limiti più rigidi ai ricongiungimenti familiari per lavoratori e studenti. Sarà inoltre necessario risiedere ininterrottamente per dieci anni nel Regno Unito prima di poter richiedere la residenza permanente.

Il governo punta così a ridurre il numero di migranti regolari, che due anni fa aveva sfiorato il milione di ingressi netti in soli dodici mesi. Un dato ritenuto insostenibile, soprattutto ora che il partito di estrema destra di Nigel Farage torna a crescere nei sondaggi.

Le nuove regole colpiranno anche settori tradizionalmente aperti agli stranieri, come sanità, assistenza e ristorazione, dove già oggi mancano oltre 100mila addetti. E chi arriverà, dovrà integrarsi e dimostrare di conoscere la lingua.

Secondo Starmer, è il momento di rimettere al lavoro i quasi 9 milioni di britannici economicamente inattivi, spesso esclusi dal mercato del lavoro anche a causa di un assistenzialismo diffuso.

Il governo annuncia inoltre sanzioni per le aziende che assumeranno stranieri senza prima aver cercato personale locale. Un cambiamento che potrebbe ridisegnare il volto cosmopolita di Londra e di molte città britanniche.

Il premier Starmer lo ha detto senza mezzi termini: «Le regole sull’immigrazione saranno molto più severe. Chi verrà qui dovrà integrarsi e contribuire. Diventare residenti sarà un privilegio, non un diritto».

E anche se a maggio, in un summit con l’UE, si discuterà di facilitare una limitata mobilità giovanile, sarà ben lontana dalla libertà di movimento di un tempo: permessi temporanei, limitati a uno o due anni.

La “Londra dei sogni” per tanti ragazzi europei sembra ormai un ricordo.


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Giustizia civile più lenta: si allontanano i target del PNRR

Nei tribunali italiani i tempi della giustizia civile tornano ad allungarsi. Dopo un triennio di progressivo miglioramento, il 2024 segna un’inversione di tendenza che rischia di compromettere il raggiungimento degli obiettivi fissati dal PNRR, che prevedono una riduzione del 40% della durata dei procedimenti entro il 30 giugno 2026.

Secondo gli ultimi dati del Ministero della Giustizia, infatti, il disposition time — l’indicatore che misura il tempo medio necessario per definire un procedimento — è passato da 486 giorni nel 2023 a 488 nel 2024, segnando un incremento dello 0,4%.

Il rallentamento interessa soprattutto i tribunali di primo grado, mentre Corti d’appello e Cassazione hanno continuato a migliorare i propri tempi. Complessivamente, la riduzione del disposition time rispetto al 2019 è ora del 20,1%, ancora lontana dal traguardo previsto dal piano europeo.

A pesare sull’efficienza dei tribunali è il forte aumento dei nuovi fascicoli iscritti: +12,4% nel 2024 rispetto all’anno precedente. Le materie più critiche sono quelle legate alla cittadinanza e alla protezione internazionale, con una vera impennata di ricorsi in diversi distretti giudiziari.

Venezia è tra i tribunali più colpiti: i procedimenti in materia di cittadinanza sono cresciuti a tal punto da far salire i tempi medi del 58% in un solo anno. A incidere sono soprattutto le richieste provenienti da cittadini brasiliani discendenti di emigrati veneti tra Ottocento e Novecento.

Situazione critica anche a Trieste, dove il disposition time ha superato i 1.200 giorni (+28,4% rispetto al 2023), e all’Aquila, dove le nuove iscrizioni in materia di cittadinanza e immigrazione rappresentano oltre il 50% del contenzioso civile ordinario.

A complicare ulteriormente il quadro è stata la recente riforma Cartabia, che ha ridisegnato i tempi procedurali. La fase introduttiva dei processi si è allungata e, secondo molti presidenti di tribunale, i benefici della nuova organizzazione si vedranno solo tra qualche anno, quando ormai la scadenza del PNRR sarà alle spalle.

Per centrare gli obiettivi fissati dall’Europa, occorrerebbe una riduzione ulteriore dei tempi del 19,9% in appena due anni. Ma con carichi di lavoro in aumento, organici ridotti e flussi di ricorsi che non accennano a diminuire, il traguardo sembra oggi sempre più difficile da raggiungere.

Fonte: elaborazione del Sole 24 Ore del Lunedì su dati del ministero della Giustizia, direzione generale di Statistica.


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Nordio: “Prima l’avvocato in Costituzione, poi l’aggiornamento dell’ordinamento forense”

È la riforma costituzionale sul riconoscimento della figura dell’avvocato a rappresentare, oggi, la vera priorità nell’agenda del Ministro della Giustizia Carlo Nordio. Lo ha chiarito lui stesso intervenendo in videocollegamento al dibattito “La giustizia oggi. È giusta la legge? È giusto il processo?”, organizzato al Teatro Comunale di Siracusa dal Consiglio nazionale forense, dall’Unione dei fori siciliani e dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Siracusa.

Nel corso del confronto con la prima presidente della Corte di Cassazione Margherita Cassano e il presidente del CNF Francesco Greco, Nordio ha affrontato diversi nodi sul funzionamento della giustizia italiana, insistendo sulla necessità di un approccio manageriale che leghi risorse e obiettivi in modo razionale.

Ma al centro del suo intervento è arrivata la questione del ruolo dell’avvocatura: per il Guardasigilli, l’aggiornamento dell’ordinamento forense, pur importante, rimane subordinato alla riforma costituzionale. “Credo ci sia spazio in questa legislatura per introdurre l’avvocato in Costituzione, purché vi sia convergenza politica. Se questo avvenisse, tutto il resto procederebbe de plano”, ha sottolineato.

Un chiaro segnale di priorità: prima il riconoscimento costituzionale della funzione difensiva come pilastro del sistema giurisdizionale, poi l’adeguamento dell’ordinamento professionale. Una linea che il Ministro ha ribadito più volte, spiegando che il vero motore di cambiamento sarà il rafforzamento istituzionale della figura dell’avvocato all’interno della Carta.

Accanto a questo, Nordio ha evidenziato l’esigenza di definire criteri chiari per calibrare risorse e carichi di lavoro nella giustizia, promuovendo una gestione più efficiente e condivisa con tutte le componenti del sistema, avvocatura inclusa.


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Al Nord si lavora in media 255 giorni l’anno, al Sud appena 228

Al Nord si lavora in media 255 giorni all’anno, al Sud appena 228. In altre parole, gli occupati del Nord ogni 12 mesi timbrano il cartellino 27 giorni in più rispetto ai colleghi del Sud. E come si spiega questa differenza? Non certo perché al Nord impiegati e operai siano degli instancabili eroi, mentre al Sud ci sia una diffusa presenza di  “scansafatiche” che evitano uffici e fabbriche. Assolutamente no, la chiave di lettura non può essere fondata su questi luoghi comuni. Secondo l’analisi condotta dall’Ufficio studi della CGIA, invece, al Sud si lavora meno per almeno due ragioni strettamente correlate. La prima. E’ dovuta a un’economia sommersa molto diffusa che nelle regioni meridionali ha una dimensione non riscontrabile nel resto del Paese che, statisticamente, non consente di conteggiare le ore lavorate irregolarmente. La seconda.  E’ imputabile a un mercato del lavoro che nel Mezzogiorno è caratterizzato da tanta precarietà, da una diffusa presenza di part time involontario, soprattutto nei servizi, da tanti stagionali occupati nel settore ricettivo e dell’agricoltura che abbassano di molto la media delle ore lavorate.

·        Gli stacanovisti sono a Lecco, Biella e Vicenza

Gli operai e gli impiegati con il maggior numero medio di giornate lavorate durante il 2023 sono stati quelli occupati nella provincia di Lecco (264,9 giorni). Seguono i dipendenti privati di Biella (264,3), Vicenza (263,5), Lodi, (263,3), Padova (263,1), Monza-Brianza (263), Treviso (262,7) e Bergamo (262,6). Le province, infine, dove i lavoratori sono stati “meno” in ufficio o in fabbrica durante il 2023 sono quelli di Foggia (213,5 giorni), Trapani (213,3), Rimini (212,5), Nuoro (205,2) e Vibo Valentia (193,3). La media italiana è stata pari a 246,1 giorni.

·        Dove si lavora di più, le retribuzioni sono più alte

Ovviamente, nelle aree geografiche del Paese dove le ore lavorate sono più elevate, anche la produttività è maggiore e conseguentemente gli stipendi e i salari sono più pesanti. Se, come riporta la CGIA, al Nord la retribuzione media giornaliera nel 2023 era di 104 euro lordi, al Sud si è fermata a 77 euro (pari a un differenziale del 35 per cento). Per quanto concerne la produttività[1], invece, al Nord era superiore del 34 per cento rispetto a quella presente nel Sud (vedi Tab. 2). Va segnalato che le differenze salariali presenti in Italia nel settore privato sono un problema che ci trasciniamo almeno dagli inizi del secolo scorso. Purtroppo, in questi ultimi decenni il gap è sicuramente aumentato, perché le multinazionali, le utilities, le imprese medio-grandi, le società finanziarie/assicurative/bancarie che – tendenzialmente riconoscono ai propri dipendenti stipendi molto più elevati della media – sono ubicate prevalentemente nelle aree metropolitane del Nord. Non solo. Va evidenziato che queste realtà dispongono di una quota di personale con qualifiche apicali sul totale occupati molto alta (manager, dirigenti, quadri, tecnici, etc.), addetti che per contratto vanno corrisposti stipendi importanti.

·        Gli stipendi più alti sono pagati a Milano, Monza e lungo la via Emilia

Dall’analisi provinciale delle retribuzioni medie lorde pagate ai lavoratori dipendenti del settore privato emerge che, nel 2023, Milano è stata la realtà dove gli imprenditori hanno erogato gli stipendi medi più elevati: 34.343 euro. Seguono Monza-Brianza con 28.833 euro, Parma con 27.869 euro, Modena con 27.671 euro, Bologna con 27.603 euro e Reggio Emilia con 26.937 euro. In tutte queste realtà emiliane, la forte concentrazione di settori ad alta produttività e a elevato valore aggiunto – come la produzione di auto di lusso, la meccanica, l’automotive, la meccatronica, il biomedicale e l’agroalimentare – ha “garantito” agli addetti di questi territori buste paga molto pesanti. I lavoratori dipendenti più “poveri”, invece, si trovano a Trapani dove percepiscono una retribuzione media lorda annua pari a 14.854 euro, a Cosenza con 14.817 euro, a Nuoro con 14.676 euro. I più “sfortunati”, infine, lavorano a Vibo Valentia dove in un anno di lavoro hanno portato a casa solo 13.388 euro. La media italiana, infine, ammontava a 23.662 euro.

·        Più soldi con la contrattazione decentrata

Come ha avuto modo di segnalare anche il CNEL[2], il problema dei lavoratori poveri non parrebbe riconducibile ai minimi tabellari troppo bassi, ma al fatto che durante l’anno queste persone lavorano “poco”. Pertanto, più che a istituire un minimo salariale per legge andrebbe contrastato l’abuso di alcuni contratti a tempo ridotto. Altresì, dalla CGIA fanno sapere che per innalzare gli stipendi dei lavoratori dipendenti, in particolar modo di quelli con qualifiche professionali minori, bisognerebbe continuare nel taglio dell’Irpef e diffondere maggiormente la contrattazione decentrata. Avendo una quota di lavoratori coperto dalla contrattazione collettiva nazionale tra le più alte d’Europa (quasi il 99 per cento del totale dei lavoratori dipendenti del settore privato), dovremmo “spingere” per diffondere ulteriormente anche la contrattazione di secondo livello, premiando, in particolar modo, la decontribuzione e il raggiungimento di obbiettivi di produttività, anche ricorrendo ad accordi diretti tra gli imprenditori e i propri dipendenti. Così facendo, daremmo soprattutto una risposta alle maestranze del Nord e in particolar modo delle aree più urbanizzate del Paese che, a seguito del boom dell’inflazione, in questi ultimi anni hanno subito, molto più degli altri, una decisa perdita del potere d’acquisto.

·        Contratti di secondo livello: coinvolti solo 5,5 milioni di dipendenti

Nell’analisi statistica sulla contrattazione decentrata realizzata dall’ISTAT, emerge che il 23,1 per cento delle imprese con almeno 10 dipendenti del settore privato extra agricolo applica un contratto decentrato. Si stima che i lavoratori coinvolti sarebbero il 55 per cento dei dipendenti totali delle imprese con almeno 10 addetti, pari, in termini assoluti, a circa 5,5 milioni di lavoratori[3]. L’ISTAT, comunque, precisa che questi lavoratori non possono essere considerati come la platea esatta dei dipendenti coperti dalla contrattazione decentrata, in quanto, non tutti gli addetti potrebbero essere interessati dall’applicazione di questa misura.

[1] Valore aggiunto per ora lavorata

[2] Osservazioni e proposte, Elementi di riflessione sul salario minimo in Italia, Assemblea 12 ottobre 2023

[3] CNEL, XXVI Rapporto, Mercato del lavoro e contrattazione collettiva, Anno 2025


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Abbastanza da spingere il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma, Paolo Nesta, a scrivere al Ministro della Giustizia Nordio per richiedere interventi urgenti per potenziare gli organici.

Una lettera,  scrive Nesta, che “consegue allo sconcerto creatosi a seguito del provvedimento, recentemente emesso dal Giudice di Pace di Busto Arsizio, con il quale è stata fissata l’udienza di discussione al 7 luglio 2032. Non si tratta di un errore materiale, bensì della drammatica testimonianza di una Giustizia che non è più in grado di garantire risposte ai cittadini in tempi ragionevoli, come garantito dall’art. 111 della Costituzione”.

“Il Giudice di Pace – prosegue Nesta  – rappresenta l’accesso primario alla giurisdizione per il cittadino e svolge un ruolo funzionale nella deflazione del contenzioso ordinario. Tuttavia la cronica assenza di mezzi e di risorse rende la previsione normativa una finzione giuridica, in contrasto con i principi del giusto processo e dell’efficienza dell’amministrazione della giustizia”.

A Roma, come in altri uffici giudiziari italiani, si registrano quotidianamente ritardi cronici nella fissazione delle udienze,  improvvise sospensioni delle stesse per mancanza di giudici,  ruoli congelati,  rinvii delle udienze superiori a 18 mesi e gravi disfunzioni del sistema informatico.

I dati del monitoraggio nazionale confermano una scopertura degli organici dei Giudici di Pace del 63%, con punte che nelle grandi città raggiungono l’80%. A Roma, nonostante il recente insediamento di 16 nuovi Giudici Onorari di Pace, la situazione resta critica, con un arretrato che non consente una gestione ordinata dei ruoli.

“I progressi registrati in merito alla scopertura del personale amministrativo, passata dal 40% al 32%, rappresentano un segnale positivo ma decisamente insufficiente a fronteggiare l’emergenza – conclude Nesta  – Pertanto, a nome dell’Avvocatura romana,  chiedo, con l’urgenza del caso, l’adozione di misure straordinarie per il reclutamento di Giudici di Pace, un piano di assunzioni straordinarie del personale amministrativo, il potenziamento dell’infrastruttura informatica”. Il rischio è di creare “un vulnus inaccettabile al diritto di difesa e far venire meno la fiducia del cittadino nelle Istituzioni e nello Stato di Diritto”.


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