Professioni, no alle riforme “a taglia unica”: serve un approccio su misura

Le riforme delle professioni non possono essere confezionate “in serie”. A lanciare un chiaro segnale in questa direzione sono i presidenti del Consiglio Nazionale Forense, Francesco Greco, e del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, Elbano de Nuccio, che si oppongono all’idea di un riordino complessivo degli ordinamenti professionali attraverso una legge quadro.

L’allarme nasce dalle indiscrezioni riportate da ItaliaOggi, secondo cui il Governo starebbe valutando di aggiornare il D.P.R. 137 del 2012, norma di riferimento per l’organizzazione e il funzionamento degli Ordini professionali, riaprendo così un confronto generale avviato informalmente già nel luglio 2024, durante un incontro a Palazzo Chigi promosso dal sottosegretario Alfredo Mantovano con la partecipazione del Ministro del Lavoro Marina Calderone.

Il nodo della riforma: unicità o specificità?

Secondo i due presidenti, una riforma uniforme rischia di compromettere l’identità e l’equilibrio delle singole professioni. «Ogni categoria – avverte de Nuccio – ha caratteristiche specifiche da preservare. Un progetto generale, anziché modernizzare, potrebbe penalizzare le differenze strutturali e funzionali che ciascun ordinamento ha sviluppato nel tempo».

Il presidente dei commercialisti ribadisce che una riforma “orizzontale” non è una priorità e non è condivisibile, soprattutto in un momento in cui molte professioni stanno autonomamente aggiornando i propri statuti e regolamenti, secondo processi già avviati e calibrati sulle singole realtà.

Il fronte dell’avvocatura: “Promessa del Guardasigilli”

Più netto ancora è il giudizio del presidente del CNF, Francesco Greco, che giudica “incredibile” l’ipotesi di rivedere oggi il D.P.R. 137/2012. «Significherebbe sconfessare le dichiarazioni pubbliche del ministro della Giustizia Carlo Nordio», afferma, ricordando come il testo di riforma dell’ordinamento forense sia già stato trasmesso al Ministero dell’Economia per la cosiddetta “bollinatura” e, nelle intenzioni, dovrebbe arrivare in Consiglio dei Ministri prima della pausa estiva.

Greco auspica che la riforma dell’avvocatura, contenuta in un disegno di legge delega, venga esaminata e approvata quanto prima. «È l’impegno preso dal Guardasigilli e confidiamo che venga mantenuto», ha dichiarato.

Le priorità: praticantato, giovani, accesso alla professione

Durante l’incontro del luglio 2024, il Ministro Calderone aveva comunque espresso l’esigenza di rivedere alcuni aspetti puntuali dell’attuale assetto ordinistico, come le regole del praticantato, per favorire un accesso più rapido e meno burocratico alla professione. Un intervento reso urgente anche dall’innalzamento dell’età media degli iscritti, che oggi si aggira intorno ai 50 anni.

Tuttavia, gli stessi presidenti delle categorie economico-giuridiche ribadiscono che tali interventi devono essere mirati, condivisi e specifici, non inseriti in un contenitore unico che rischia di appiattire esigenze profondamente diverse tra avvocati, commercialisti, ingegneri, architetti, medici e tutte le altre professioni ordinistiche.


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Minori nell’era digitale: verso una nuova cittadinanza protetta online

La tutela dei minori nello spazio digitale è diventata una delle grandi sfide giuridiche, politiche ed etiche del nostro tempo. In un contesto in cui bambini e adolescenti trascorrono sempre più tempo online – spesso in ambienti non pensati per loro – si impone l’urgenza di definire regole chiare, efficaci e rispettose dei diritti fondamentali. Un’esigenza ormai riconosciuta a livello internazionale e che attraversa più livelli normativi, dal diritto internazionale alle legislazioni nazionali, fino alla strategia digitale dell’Unione Europea.

Il principio dell’interesse superiore del minore: un faro nell’ambiente digitale

Già la Convenzione ONU sui Diritti del Fanciullo del 1989 pone al centro delle politiche pubbliche il principio dell’interesse superiore del minore, da applicare anche al contesto digitale. Il Comitato sui Diritti del Fanciullo ha colto per tempo i segnali di rischio connessi all’uso non regolamentato della rete, anticipando nel Commento Generale n. 15 (2013) e poi nel n. 25 (2021) i pericoli legati a dipendenze, abusi, esposizione a contenuti nocivi e problemi di salute mentale. Gli Stati, viene ribadito, devono adottare un approccio proattivo e preventivo, fondato su ricerca, regolazione e vigilanza.

Europa: nuove regole per un Internet a misura di minore

Con il Digital Services Act (Reg. UE 2022/2065), l’Unione Europea introduce un paradigma innovativo di responsabilità per le piattaforme digitali. Il Considerando 89 esplicita l’obbligo di proteggere i minori da contenuti che possano compromettere il loro sviluppo psicofisico. La strategia “BIK+” (Better Internet for Kids) della Commissione mira a garantire un accesso sicuro, contenuti adeguati e la partecipazione attiva dei minori nello spazio digitale.

Nel 2022, la Commissione ha definito l’obiettivo di sviluppare sistemi efficaci di verifica dell’età, oggi al centro del dibattito europeo. Alcuni Paesi, come Francia, Spagna e Grecia, propongono di introdurre una “maggior età digitale europea”, fissando soglie minime per l’accesso autonomo ai social network. La proposta più avanzata è quella della Francia: vietare l’uso dei social ai minori di 15 anni in assenza di consenso genitoriale.

Verso sistemi integrati di protezione

Accanto agli strumenti normativi, emergono nuove soluzioni tecnologiche. La Grecia ha sviluppato il Kids Wallet, un’identità digitale minorile integrata nei servizi pubblici per certificare l’età online e supportare il controllo genitoriale. La Spagna ha introdotto l’obbligo di verifica dell’età per accedere ai siti per adulti, mentre la Francia, con la legge SREN del 2024, ha attribuito all’ARCOM poteri sanzionatori contro i siti non conformi.

Il GDPR (Reg. UE 2016/679) già prevede che i minori sotto i 16 anni non possano autorizzare il trattamento dei dati senza il consenso dei genitori, ma consente agli Stati di abbassare questa soglia fino ai 13 anni. L’Italia, ad esempio, ha optato per i 14 anni, mentre altri Paesi hanno adottato età diverse, creando una frammentazione normativa che l’Europa oggi tenta di superare.

La sfida dell’architettura digitale

Il dibattito non si limita all’età, ma riguarda anche la progettazione delle interfacce. Sistemi di autoplay, notifiche incessanti, algoritmi di profilazione e contenuti “comparativi” (come filtri estetici o messaggi pro-anoressia) possono avere effetti deleteri sulla salute mentale e sull’autostima dei più giovani. Per questo, si propone l’adozione di un design “a misura di minore”, limitando tecniche persuasive e promuovendo strumenti di media literacy e pensiero critico.

Il caso spagnolo e francese: tutela differenziata e responsabilità proattiva

In Spagna, la Ley Orgánica 3/2018 e la Ley General de Comunicación Audiovisual del 2022 impongono obblighi precisi ai fornitori di contenuti digitali, distinguendo tra fasce d’età e imponendo verifiche efficaci, sistemi di rating e classificazioni indipendenti. In Francia, la legislazione si fonda su un approccio collaborativo e rispetta il principio della privacy-preserving verification, in coerenza con le raccomandazioni del Conseil d’État.

Verso un patto europeo per la protezione online dei minori

Alla luce delle diverse esperienze nazionali, si rafforza la richiesta di armonizzare a livello UE le soglie di accesso ai servizi digitali, introducendo obblighi vincolanti per le piattaforme, standard comuni di verifica e meccanismi interoperabili. In questo quadro, la Commissione Europea sta testando soluzioni come il “mini wallet”, un’applicazione per la verifica dell’età direttamente sui dispositivi.

Ma la tutela dei minori non può fermarsi alla tecnologia. Occorre anche educare, coinvolgere le famiglie, sostenere scuole e insegnanti, promuovere un uso consapevole e critico del digitale.


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Agibilità regolarizzata dopo la vendita: niente risarcimento per il compratore

La mancata consegna del certificato di abitabilità al momento della vendita non basta, da sola, a configurare un danno risarcibile per l’acquirente, se il documento viene regolarmente ottenuto in un secondo momento. È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, Seconda Sezione Civile, con l’ordinanza n. 19923, depositata oggi, che conferma un orientamento sempre più consolidato in materia di trasferimenti immobiliari.

La vicenda trae origine dall’acquisto, avvenuto nel 2013, di un immobile privo al momento del rogito del certificato di agibilità. Nel 2016, l’acquirente si è rivolta al giudice, lamentando danni patrimoniali e non patrimoniali per la presunta perdita di valore commerciale del bene, oltre a chiedere una riduzione del prezzo. Tuttavia, il certificato era stato regolarmente ottenuto nel giugno 2014, dunque a meno di un anno dalla compravendita.

La decisione delle corti

Il Tribunale aveva inizialmente dichiarato improcedibile la domanda, per il mancato rispetto dei termini. In secondo grado, la Corte d’Appello aveva invece riconosciuto la procedibilità, ma rigettato nel merito la richiesta di risarcimento: la successiva regolarizzazione dell’agibilità aveva infatti sanato ogni irregolarità, escludendo qualsiasi danno da “non commerciabilità”.

La Cassazione conferma integralmente questo orientamento. La vendita, ha stabilito la Corte, non può essere qualificata come aliud pro alio, ovvero come trasferimento di un bene completamente diverso da quello pattuito, poiché non vi erano carenze strutturali o funzionali tali da impedire l’abitabilità effettiva dell’immobile.

Nessun automatismo nel risarcimento

La Suprema Corte ribadisce un principio fondamentale: l’assenza formale del certificato non è di per sé sufficiente a fondare una richiesta di danno. Per ottenere un risarcimento, l’acquirente deve dimostrare un pregiudizio concreto, come ad esempio:

  • la diminuzione del valore del bene;
  • l’impossibilità di utilizzo per la destinazione d’uso pattuita;
  • spese affrontate per ottenere l’agibilità in sanatoria.

Nel caso in esame, sottolinea la Corte, non è emersa alcuna prova concreta di danno subito dalla parte attrice, né elementi che giustificassero una riduzione del prezzo o un ristoro economico.

L’agibilità resta un requisito importante

Pur non assumendo valore assoluto ai fini della validità del contratto, il certificato di abitabilità continua a rivestire un ruolo essenziale nella commerciabilità giuridica e funzionale dell’immobile. Tuttavia, come chiarito dalla giurisprudenza, la sua assenza deve essere valutata caso per caso, tenendo conto di eventuali irregolarità sanabili e delle effettive conseguenze sull’utilizzo del bene.

Questa decisione rafforza il principio secondo cui l’equilibrio contrattuale e la tutela del compratore vanno ancorati a circostanze concrete e dimostrabili, evitando automatismi che rischiano di sovraccaricare di responsabilità il venditore per mere carenze documentali superabili.


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Suicidi in carcere, Nordio sul sovraffollamento: “È una forma di controllo, non la causa”

Non è il sovraffollamento a spingere i detenuti al suicidio, ma “la solitudine, la mancanza di speranza e l’incertezza del domani”. Così il Ministro della Giustizia Carlo Nordio, intervistato dal Corriere della Sera, interviene su uno dei temi più drammatici dell’emergenza penitenziaria italiana: l’aumento dei suicidi dietro le sbarre.

Una posizione destinata a far discutere. Per Nordio, anzi, la promiscuità delle celle sarebbe in certi casi un deterrente: “Alcuni tentativi di suicidio sono stati sventati proprio dai compagni di cella. Il sovraffollamento è una forma di controllo”, ha dichiarato. Una visione che rovescia la lettura dominante, secondo cui l’affollamento, l’assenza di privacy, le condizioni igienico-sanitarie precarie e l’insufficienza di personale aggravano il disagio psichico e alimentano il rischio di gesti estremi.

Nessuna amnistia o indulto all’orizzonte

Nordio esclude categoricamente qualsiasi provvedimento straordinario per ridurre la pressione carceraria: “Né indulto né liberazione anticipata. Misure di questo tipo rappresentano una resa dello Stato e, come dimostrano i dati del 2006, sono inefficaci”. Il riferimento è all’indulto concesso dal governo Prodi, che liberò oltre 20.000 detenuti. “Tre anni dopo eravamo punto e a capo, con un tasso di recidiva del 48%”.

Il piano carceri: più personale, più sorveglianza

Sul fronte delle soluzioni strutturali, il Ministro ha annunciato un interpello per 102 nuovi amministrativi destinati alla magistratura di sorveglianza, e un ampliamento della pianta organica di 58 magistrati, due per ciascun distretto. Inoltre, una quota significativa dei 6.000 addetti all’Ufficio per il processo sarà assegnata, a partire da settembre, al settore penitenziario.

Le misure rientrano in un piano più ampio che, secondo Nordio, inizierà a produrre effetti concreti a breve termine: “Interverremo su tre fronti: la carcerazione preventiva, che coinvolge oltre 15.000 detenuti; il trasferimento degli stranieri nei Paesi d’origine; e il trattamento dei tossicodipendenti, con 5 milioni di euro all’anno per programmi alternativi alla detenzione”.

Le reazioni: “Parole pericolose”

Le dichiarazioni del Ministro hanno immediatamente sollevato polemiche. Diverse sigle dell’avvocatura e dei garanti dei detenuti hanno definito “sconcertante” l’idea che il sovraffollamento possa essere considerato un fattore di contenimento. “In un Paese dove ogni anno decine di detenuti si tolgono la vita, parole simili rischiano di legittimare l’abbandono istituzionale e la negazione del disagio psichico”, commentano fonti del mondo penitenziario.

Secondo i dati aggiornati, nel solo 2024 si sono già registrati oltre 50 suicidi nelle carceri italiane, un tasso superiore alla media europea e in costante crescita.

L’altra faccia della giustizia

A chi lo accusa di insensibilità, Nordio risponde con i numeri e rivendica le sue scelte: “La custodia cautelare non deve essere uno strumento abusato, e la mia riforma ha evitato il carcere a Milano anche nel caso dell’inchiesta urbanistica. Le leggi non si fanno sull’onda dell’emotività”.


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“Innocenti”, viaggio nell’Italia degli errori giudiziari: 100 mila vite rovinate e un miliardo speso in risarcimenti

Cento mila. Tanti sono gli innocenti finiti in carcere ingiustamente in Italia dal 1992 a oggi. Un numero impressionante che equivale a riempire uno stadio per un derby o a formare una catena umana tra Roma e Napoli. A riportare alla luce questa tragedia collettiva è il libro-inchiesta Innocenti (Giappichelli editore), scritto dai giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, fondatori di errorigiudiziari.com, la più completa banca dati italiana sull’ingiusta detenzione e gli errori giudiziari.

Nel volume, appena uscito in libreria e disponibile sulle principali piattaforme online, gli autori danno voce a un’Italia invisibile: quella dei danneggiati dalla giustizia, colpevoli solo di essere stati nel posto sbagliato al momento sbagliato, o vittime di omonimie, indagini lacunose, errori procedurali e decisioni affrettate.

Una strage silenziosa

Secondo i dati raccolti, lo Stato italiano ha sborsato quasi un miliardo di euro in indennizzi negli ultimi trent’anni, ma solo un terzo degli aventi diritto riceve effettivamente un risarcimento. Molti, dopo anni di dolore e umiliazione, rinunciano persino a chiederlo: non vogliono più rivivere l’incubo o non possono permettersi le spese legali.

A pesare su questo scenario è anche l’abuso della custodia cautelare, che troppo spesso viene utilizzata non come extrema ratio, ma come strumento di pressione investigativa. “Pericolo di fuga, inquinamento probatorio e reiterazione del reato sono condizioni sovente presunte in automatico, senza un effettivo vaglio di necessità”, denuncia Gian Domenico Caiazza, avvocato ed ex presidente dell’Unione delle Camere Penali, nella prefazione al libro.

Custodia cautelare: da garanzia a scorciatoia

Il carcere preventivo, così come gli arresti domiciliari, dovrebbe essere disposto solo quando strettamente indispensabile, come misura eccezionale e temporanea. Invece, troppo spesso si trasforma in una scorciatoia giudiziaria, uno strumento per “spezzare” il presunto colpevole e accelerare l’indagine.

Ma quando l’impianto accusatorio crolla, resta l’ingiustizia irreparabile: mesi o anni di libertà negata, famiglie distrutte, reputazioni annientate, esistenze spezzate. Il tutto, senza garanzie di reale risarcimento e con la macchina giudiziaria che raramente riconosce le proprie colpe.

Una lettura necessaria

Innocenti è più di un’inchiesta giornalistica: è un atto d’accusa documentato, una raccolta di storie vere che mettono in discussione il modo in cui si esercita la giustizia penale nel nostro Paese. È anche un invito a riflettere, con dati e testimonianze alla mano, su quanto sia fragile la presunzione d’innocenza e quanto possa essere drammatico un errore, quando ad esserne vittima è un essere umano.


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Il processo penale telematico compie un altro passo avanti. A partire dall’11 luglio 2025, infatti, il Portale per il deposito degli atti penali (PDP) consente l’invio digitale di una nuova e articolata serie di atti, fino a oggi non direttamente depositabili tramite il sistema online. Lo ha annunciato il Ministero della Giustizia con la circolare n. 7285 dell’8 luglio 2025, che illustra nel dettaglio tutte le novità introdotte con l’ultimo aggiornamento del portale, eseguito il 10 luglio.

Le nuove funzionalità, pensate per snellire il lavoro degli avvocati e migliorare la tracciabilità degli atti, prevedono l’ampliamento dell’elenco degli atti depositabili sia durante il procedimento in corso sia a seguito di definizione irrevocabile.

Più atti, meno carta: ecco le principali novità

Tra le innovazioni più rilevanti c’è la possibilità, ora operativa, di depositare direttamente online:

  • atti relativi alle indagini difensive,
  • comunicazioni di impedimento del difensore, comprese quelle per gravidanza,
  • istanze e memorie anche successive alla nomina del difensore,
  • documenti relativi a misure cautelari, appelli e rinunce,
  • atti di parte civile, querelante e responsabile civile,
  • richieste di accesso agli atti anche in fase dibattimentale,
  • revoca della costituzione di parte civile e riparazione per errore giudiziario,
  • memorie di replica, istanze di riunione, trattazione orale, o interrogatorio spontaneo,
  • rettifiche e non accettazioni del mandato.

Tutti questi atti si aggiungono a quelli già previsti dal portale, rendendo il fascicolo digitale uno strumento sempre più completo e operativo.

Anche per fascicoli definiti

Il nuovo aggiornamento consente anche il deposito telematico per procedimenti definiti con sentenza irrevocabile o con decreto penale. In questi casi è ora possibile inviare digitalmente:

  • richieste di restituzione nei termini,
  • domande di restituzione dei beni,
  • istanze di liquidazione dell’onorario,
  • opposizioni a decreto penale,
  • memorie difensive post-sentenza,
  • correzioni di errori materiali,
  • richieste di accesso agli atti,
  • esercizio del diritto all’oblio.

Obiettivo: semplificazione e uniformità

Un altro aggiornamento tecnico riguarda i controlli sui depositi, migliorati per assicurare che gli atti vengano automaticamente indirizzati all’ufficio competente presso cui è pendente il procedimento.

Il Ministero punta così a rendere il processo penale sempre più accessibile in via digitale, nel solco della progressiva modernizzazione della giustizia italiana. L’intervento, che coinvolge direttamente avvocati, parti private e operatori di cancelleria, si inserisce in un piano più ampio volto a semplificare le interazioni con il sistema giudiziario, riducendo tempi e burocrazia.

La circolare ministeriale n. 7285/2025 è consultabile presso il sito istituzionale del Ministero della Giustizia e rappresenta il riferimento normativo per l’applicazione operativa delle novità.


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Cyberminacce alla PA: nasce il manuale digitale per difendere 3,2 milioni di statali

La Pubblica Amministrazione corre ai ripari di fronte all’escalation di attacchi informatici che nel 2024 hanno messo nel mirino istituzioni, enti pubblici e infrastrutture strategiche. Il Dipartimento della Funzione Pubblica, guidato da Paolo Zangrillo, ha redatto un vademecum operativo per i 3,2 milioni di dipendenti pubblici italiani, contenente le principali regole di “igiene digitale” per prevenire intrusioni, furti di dati e danni ai sistemi informatici.

Il documento, nato su impulso del sottosegretario Alfredo Mantovano e frutto della collaborazione con il Mef, l’Agenzia per la cybersicurezza nazionale (Acn) e l’intelligence interna (Aisi), sarà presto esaminato dal Consiglio dei Ministri e reso disponibile sulla piattaforma NoiPA, il portale utilizzato dagli statali per la gestione degli stipendi.

Tra le indicazioni contenute nella guida:

  • creare password complesse, evitando nomi familiari o date facilmente intuibili;
  • cambiare periodicamente le credenziali di accesso;
  • non accedere alla posta istituzionale da dispositivi personali, come smartphone e tablet non autorizzati.

Si tratta di raccomandazioni, non di obblighi sanzionabili, ma il governo punta a diffondere una maggiore consapevolezza tra i lavoratori pubblici, sempre più esposti a tentativi di phishing, ransomware e attacchi DDoS.

A preoccupare sono soprattutto i numeri. L’Agenzia per la cybersicurezza nazionale ha registrato un aumento del 40% degli attacchi rispetto al 2023 e un quasi raddoppio degli incidenti, con episodi sempre più frequenti di divulgazione non autorizzata di dati sensibili sottratti da sistemi vulnerabili.

Il vademecum, che sarà affiancato da una campagna informativa a cura della Presidenza del Consiglio, rappresenta un passo concreto per alzare le difese del settore pubblico in un contesto in cui la sicurezza informatica è diventata una priorità strategica nazionale.


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Una grave falla nei server locali di Microsoft SharePoint è stata sfruttata da un gruppo di hacker per condurre un’ampia campagna di cyberattacchi che ha colpito istituzioni pubbliche e aziende in tutto il mondo. Secondo quanto riportato dal Washington Post, tra gli obiettivi compromessi figurano almeno due agenzie federali degli Stati Uniti, il parlamento di uno Stato americano, alcune università, compagnie del settore energetico e una società di telecomunicazioni con sede in Asia.

Gli attacchi hanno interessato la versione “on-premise” di SharePoint Server, piattaforma di collaborazione sviluppata da Microsoft e impiegata per la gestione interna dei documenti, distinta dalla più sicura versione cloud “SharePoint Online”. La vulnerabilità, spiegano gli esperti, ha permesso agli hacker di infiltrarsi nei sistemi prima che l’azienda rilasciasse aggiornamenti correttivi.

A destare particolare preoccupazione è l’ampiezza dell’attacco: migliaia di server SharePoint in tutto il mondo sarebbero potenzialmente esposti, mentre i governi di Stati Uniti, Canada e Australia hanno avviato indagini congiunte per fare luce sull’origine e sulle finalità dell’operazione.

Secondo una società di cybersecurity che collabora con il Dipartimento della Sicurezza Interna statunitense, anche server localizzati in Cina e ambienti parlamentari statali americani risultano compromessi. Microsoft, nel frattempo, non avrebbe ancora diffuso una patch definitiva per chiudere la nuova vulnerabilità emersa, lasciando molte strutture informatiche vulnerabili e alla ricerca urgente di contromisure.

Non è ancora chiaro chi si celi dietro l’attacco né quale sia il reale obiettivo, ma il caso evidenzia ancora una volta i rischi legati all’uso di infrastrutture software non aggiornate e alla crescente esposizione delle istituzioni pubbliche a minacce informatiche su scala globale.


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 “Niente impugnazione contro le sentenze di assoluzione, come in tutti i paesi civili. Altrimenti finiamo a ciò che è avvenuto col caso Garlasco. Al di là delle implicazioni politiche di questa scelta inusuale, si pone il problema tecnico. Come potrebbe un domani intervenire una sentenza di condanna al di là di ogni ragionevole dubbio, quando dopo tre anni di udienza un giudice ha dubitato e ha assolto? La lentezza della nostra giustizia dipende anche dall’incapacità di molti magistrati di opporsi all’evidenza. Rimedieremo”.

Così il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, a margine del convegno di FDI “Parlate di mafia”, in relazione all’impugnazione della sentenza di assoluzione sulla vicenda Open Arms nei confronti di Matteo Salvini, allora Ministro dell’Interno.

“Se la fiducia nella giustizia è crollata – prosegue il Guardasigilli – è anche perché alcuni magistrati trascinano processi eterni senza pensare alle conseguenze devastanti che provocano nella vita delle persone. Solo quando il macigno ti cade addosso, come nel caso del sindaco Sala, ci si rende conto delle criticità del nostro sistema. Per questo lo cambieremo”.

“Esprimiamo sdegno e viva preoccupazione per le dichiarazioni rese dal ministro della Giustizia Carlo Nordio in occasione della manifestazione ‘Parlate di mafia’. Che il titolare del dicastero della Giustizia possa ritenere che l’espressione pubblica del pensiero di un magistrato in servizio meriti l’intervento degli “infermieri” o diventi oggetto di valutazione disciplinare rappresenta un fatto grave, incompatibile con i principi fondamentali di uno Stato di diritto. La libertà di manifestazione del pensiero è garantita dalla Costituzione. Purtroppo, da parte del ministro, si registra un uso ricorrente della minaccia disciplinare, evocata come uno strumento di pressione e intimidazione nei confronti di decisioni sgradite o legittime critiche”. Così la Giunta esecutiva centrale dell’Associazione nazionale magistrati in una nota.

“Criticare non significa offendere, e dissentire non equivale a mancare di rispetto. La libertà di espressione non può essere compressa né svilita attraverso prospettive di riforma che assumono il volto della ritorsione o attraverso un improprio ricorso agli strumenti disciplinari. La critica, anche aspra, alle decisioni ministeriali non può essere scambiata per lesa maestà. Le parole del ministro confermano, purtroppo, ciò che l’ANM denuncia da tempo: il vero obiettivo della riforma sembra essere quello di intimidire, indebolire e infine ridurre al silenzio la magistratura. Siamo stati, e restiamo, disponibili al confronto. Ma non possiamo accettare che ci venga imposto il silenzio”, conclude la Giunta.

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Dazi: senza accordo Bruxelles sanzioni le big tech USA

Con l’avvicinarsi della scadenza del primo agosto, è necessario che Bruxelles continui a negoziare con Washington fino all’ultimo momento disponibile. Tuttavia, qualora non riuscisse a ottenere un accordo “ragionevole”, dovrà redigere un pacchetto di controdazi a cui aggiungere delle misure sanzionatorie nei confronti delle grandi aziende tecnologiche statunitensi.

Visto che anche in Europa realizzano utili da capogiro, è inaccettabile che queste realtà continuino a pagare le tasse nei paesi a fiscalità di vantaggio. Questa condotta, oltre a essere eticamente riprovevole, continua ad essere un cavallo di battaglia politico dell’Amministrazione Trump. A tal punto che nel G7 di Kananaskis (Canada) dello scorso mese di giugno, gli USA hanno imposto un accordo che esenta le proprie multinazionali dall’applicazione della Global minimum tax (Gmt).  Una tassazione mondiale al 15 per cento in capo ai colossi con un fatturato superiore ai 750 milioni di euro all’anno che, invece, rimarrà applicata solo alle grandi holding dei paesi Ocse. Questa riflessione giunge dall’Ufficio studi della CGIA.

  • Con dazi al 30%, un costo fino a 35 miliardi l’anno

I dazi doganali al 30 per cento pretesi dall’Amministrazione Trump potrebbero innescare una serie di effetti diretti sulle nostre esportazioni a cui andrebbero sommati anche quelli indiretti – come l’ulteriore svalutazione del dollaro sull’euro[1], un aumento dell’incertezza dei mercati finanziari e un probabile incremento del costo di molte materie prime – in grado di provocare un danno economico al nostro sistema produttivo fino a 35 miliardi di euro all’anno. Praticamente la dimensione di una finanziaria. La stima è stata realizzata dall’Ufficio studi della CGIA.

  • Alcuni dati sui colossi del web

I primi 20 colossi tecnologici statunitensi[2] hanno prodotto a livello mondiale un fatturato aggregato che nel 2022 ammontava a 1.345 miliardi di euro. Un importo, quest’ultimo, che in quell’anno ha sfiorato il 70 per cento del Pil italiano; mentre le principali multinazionali del web presenti in Italia[3], sempre tre anni fa hanno realizzato nel nostro Paese un fatturato di 9,3 miliardi di euro, versando al fisco italiano “solo” 206 milioni di euro[4].

  • Il confronto tra piccoli e WebSoft

Se le nostre piccole e micro imprese nel 2022 hanno pagato 27,2 miliardi di tasse[5], i 16 gruppi (che controllano 47 società) di big tech presenti in Italia[6] ne hanno versate molte meno: come dicevamo più sopra, solo 206 milioni di euro[7]. Certo, le dimensioni economiche di queste due realtà sono molto diverse, ma, dal punto di vista della CGIA, il risultato che emerge è sconsolante. Se le piccole aziende italiane prese in esame producono un fatturato annuo 98,5 volte superiore a quello riconducibile alle big tech, in termini di imposte, invece, le prime ne pagano ben 132 volte più delle seconde[8]. Insomma, possiamo affermare con buona approssimazione che la distanza in termini di fatturato non giustifica quella relativa al gettito, così svantaggiosa per le Pmi. Certo, quella appena richiamata è una comparazione che presenta una serie di limiti metodologici e non ha alcun rigore scientifico. Tuttavia, il ricorso sistematico all’elusione praticato negli anni ha incrementato questo gap, mettendo in evidenza in misura inequivocabile che, in Italia, alle multinazionali, in questo caso tecnologiche, continua a essere riservato un trattamento fiscale di grande “favore”.

  • Solo in Molise le big pagano più tasse delle imprese locali

Se a differenza di quello che abbiamo appena illustrato, allarghiamo il confronto a tutte le imprese presenti in ciascuna delle 20 regioni italiane e i colossi del web che operano nel nostro Paese[9], l’Ufficio studi della CGIA rileva che solo le attività economiche del Molise pagano meno tasse delle big tech presenti nel nostro Paese. I 206 milioni di imposte versate dai giganti del WebSoft non hanno nulla a che vedere con quanto pagano le imprese lombarde che, invece, danno all’erario 144,6 volte in più, quelle laziali 60,4 volte in più e quelle venete 42,3 volte in più.

[1] Ricordiamo che dall’inizio del 2025 fino a oggi, il dollaro si è svalutato del 13,5 per cento rispetto all’euro.

[2] Amazon.com, Alphabet, Microsoft, Meta Platforms, International Business Machines, Oracle, Uber Technologies, Salesforce.com, Adobe, Booking Holdings, Automatic Data Processing, Vmware, Waifair, Qurate Retail, Expedia, Chewy, Ebay, Airbnb e Actvision Blizzard

[3] Adobe, ADP, Alibaba, Alphabet, Amazon (10 società con sede in Italia), Booking, IBM, JD.com, Meta, Microsoft, Oracle, Otto, SAP, Salesforce, Uber e Vipshop.

[4] Area Studi Mediobanca, Software & Web companies (2019-2023), Milano, 14 dicembre 2023.

[5] Stiamo parlando di 2,9 milioni di imprese con un fatturato annuo inferiore a 5 milioni di euro. Non sono inclusi i lavoratori autonomi in regime forfettario. Le imposte calcolate sono Irpef, Ires e Irap.

[6] Adobe, ADP, Alibaba, Alphabet, Amazon, Booking, IBM, JD.com, Meta, Microsoft, Oracle, Otto, SAP, Salesforce, Uber e Vipshop.

[7] L’importo di 206 milioni di euro include anche la Digital Service Tax. Quest’ultima è un’imposta pari al 3% dei ricavi generati nel periodo di imposta derivanti dalla fornitura di servizi digitali, applicata alle imprese che, individualmente o a livello di gruppo, hanno realizzato un ammontare di ricavi pari o superiori a 750 milioni di euro e ricavi derivanti da servizi digitali realizzati nello Stato italiano non inferiori a 5,5 milioni di euro.

[8] Il fatturato delle piccole imprese italiane nel 2022 è stato pari a 916,3 miliardi di euro. Sempre nello stesso anno quello delle principali big tech presenti nel nostro Paese ha toccato i 9,3 miliardi di euro.

[9] Secondo l’Area Studi di Mediobanca la quasi totalità opera a Milano e provincia.


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