Un muro di indifferenza
La carcerazione non comporta la perdita dei diritti, anzi: una persona che si ritrova in tale contesto necessita di maggior tutela. In tale contesto, trovandosi sotto la completa responsabilità dello Stato, quest’ultimo dovrebbe garantire dignità, benessere e salute.
Il carcere dev’essere un luogo di rieducazione, per mettere in sicurezza la nostra società. Se ciò non avviene, quello che resta sono soltanto parole vuote e un muro di indifferenza, che non ci permette di osservare le cose da diversi punti di vista.
Giovani vs anziani
Ogni anno, in Italia, migliaia di persone tra i 18 e i 34 anni transitano negli Istituti Penitenziari. Una tale consistenza di giovani nelle carceri italiane dovrebbe indurci a riflettere attentamente alla strada da intraprendere per contrastare il fenomeno.
In molti hanno studiato gli effetti negativi dell’esperienza in carcere, come ansia, depressione e autolesionismo. Nelle carceri, inoltre, esiste un vero e proprio “trattamento penitenziario” attuato dai più anziani nei confronti dei giovani detenuti.
I giovani, infatti, entrano a contatto con questi soggetti criminali che sembrano dimostrarsi sensibili alle necessità psicologiche, personali e logistiche dei nuovi arrivati, anche se il loro fine è avere facile presa su personalità molto fragili, da sfruttare ai fini della delinquenza.
La detenzione prepara al reinserimento sociale
L’obiettivo, invece, dovrebbe essere trasformare l’esperienza della detenzione da luogo in cui studiare il crimine a momento di riflessione umana e di crescita personale.
Bisognerebbe evitare che i soggetti più giovani finiscano per restare intrappolati nel circuito della devianza, insieme a soggetti che continuano ad entrare e ad uscire dal carcere. Bisognerebbe disegnare differenti canali d’accoglienza, attivando circuiti di inserimento differenziati in base alla tipologia di reato commesso.
Un’applicazione sempre più ampia delle misure alternative di detenzione potrebbe contenere questi fenomeni, offrendo percorsi concreti di risocializzazione a migliaia di soggetti.
Gestione partecipata del carcere
Una cosa fondamentale è far comprendere ai detenuti più giovani che non ci si aspetta da loro soltanto una reintegrazione all’interno del sistema sociale, ma che ci sia anche una nuova base per costruire un miglior sistema sociale.
Un clima di serenità e fiducia favorisce la comunicazione e l’espressione spontanea di pensieri, idee e sentimenti. Bisogna concorrere all’acquisizione e al recupero della dimensione sociale del detenuto, delle sue possibilità, dei suoi diritti e della sua dignità.
Importante anche promuovere la partecipazione attiva dei soggetti detenuti, affinché giungano alla gestione partecipata del carcere. Non devono più essere soggetti passivi, ma protagonisti della vita che si svolge all’interno delle mura.
Fondamentale educare, informare, sensibilizzare, per modificare un comportamento individuale che si ritiene sia stato causa di condotta antisociale.
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La duplice funzione del carcere
Il carcere racchiude in sé un duplice mandato: quello della custodia e quello del trattamento. Deve essere orientato, dunque, verso l’interazione adeguata dei due aspetti, delineando una configurazione istituzionale tesa ad una gestione corretta dei problemi che riguardano i giovani reclusi.
Dovremmo incamminarci verso un carcere con una fisionomia trattamentale, non soltanto custodiale. Creare un luogo dove ogni operatore partecipa attivamente alla soddisfazione dei bisogni e delle necessità dei giovani detenuti, che dovranno diventare coscienti e consapevoli della propria soggettività, gestendo responsabilmente la propria detenzione e il rientro nella società.
Dovranno essere in grado di autodeterminarsi e riscoprire le proprie potenzialità, senza ricorrere a mezzi illeciti.
Guardare al futuro
Il carcere equivale alla società. Dunque, come può la società non sentirsi chiamata in causa? Come può non essere consapevole che il suo interesse è quello di occuparsi di quello che avviene o che non avviene all’interno del carcere?
Volenti o nolenti, esiste un dopo, che noi tutti auspichiamo che sia positivo. Ma tale positività dipende da un percorso costruttivo, solidale e non indifferente.
La ricostruzione dell’individuo nella sua relazione con la società è una scommessa di solidarietà sociale. Più vicini ci poniamo al condannato – che prima di tutto deve essere visto come essere umano – più efficacemente si potrà attivare il processo di valorizzazione della sua individualità.
La pena non deve infliggere tormento o vendetta per il male commesso dal condannato. Non deve guardare al passato, ma al futuro, in ottica di prevenzione, affinché la persona non commetta altri crimini.
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