Per il sottosegretario alla Giustizia i tossicodipendenti devono andare in comunità, e non in carcere

«Tossicomani in comunità: così svuotiamo le carceri».

Il sottosegretario alla Giustizia di FdI, Andrea Delmastro delle Vedove, in un’intervista al Messaggero ha esposto la sua idea per combattere il sovraffollamento delle carceri.

Stando ai dati di febbraio, i detenuti sono attualmente 56.319, a fronte di una capienza totale di 51.285. Per Delmastro «dobbiamo comprendere che per un tossicodipendente che ha commesso reati legati all’approvvigionamento economico per procurarsi la droga il fine rieducativo della pena non sta nel fatto che conosca a memoria la Costituzione o abbia partecipato ad un ottimo corso di ceramica».

Per loro, «la priorità è la disintossicazione. Per questo sto lavorando ad un provvedimento che immagina di coinvolgere il terzo settore, quelle comunità chiuse in stile Muccioli (San Patrignano ndr), per costruire un percorso alternativo alla detenzione».

Con una sentenza, il giudice potrà affidarli alle comunità. In tal modo «svuotiamo le celle, facciamo risparmiare allo Stato e diamo loro un’altra possibilità. Se poi impieghi 8 mesi a disintossicarti, per il tempo restante la comunità ti aiuterà a formarti e a trovare lavoro». Tuttavia, «se commetti un reato e torni in carcere da tossicodipendente dopo aver scontato la pena in una struttura di questo tipo, devi affrontare l’iter normale».

Secondo Enrico Costa di Azione, «quando Delmastro, al di là del linguaggio, parla di questioni concrete, dice cose anche condivisibili». Anche FI è d’accordo con la proposta. Per il senatore Zanettin: «Noi come FI e come garantisti in generale siamo sempre d’accordo a misure alternative al carcere. Spesso il carcere non ottiene lo scopo rieducativo prefissato dalla Costituzione».

«Siamo quindi», continua Zanettin, «assolutamente favorevoli alla proposta del sottosegretario Delmastro. Vedremo poi praticamente come si potrà attuare la sua proposta, ma non essendo noi manettari e amanti del carcere appoggiamo l’iniziativa».

Per Morrone della Lega, queste «sono riflessioni da approfondire e su cui confrontarsi, sia quella che riguarda i detenuti tossicodipendenti sia quella che riguarda il sovraffollamento, problemi che necessariamente non sono interconnessi. A parte che non tutti gli istituti sono sovraffollati alla stessa maniera, credo che non sia solo la riduzione dei detenuti o la depenalizzazione di certi reati che risolve il problema del sovraffollamento ma con una pianificazione e una riorganizzazione concreta dell’edilizia penitenziaria».

Continua: «Così anche per quanto riguarda i detenuti tossicodipendenti c’è caso e caso. Certamente dobbiamo tenere in considerazione chi ha commesso reati non gravi, mostra una volontà concreta di disintossicarsi e di reinserirsi nella società. Ma c’è anche una gran parte che non dà le medesime garanzie. Il nostro obiettivo rimane quello di diminuire e contrastare quei fenomeni criminosi che turbano e spaventano i cittadini che stanno trasformando certe aree cittadine in luoghi invivibili».

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La proposta è stata bocciata, invece, dalla senatrice Rossomando del Pd. «Intanto informiamo il sottosegretario Delmastro che la riforma Cartabia già oggi prevede la possibilità per il giudice di disporre la detenzione domiciliare invece del carcere, a maggior ragione in presenza di percorsi di recupero».

«In ogni caso», continua, «non può passare il principio di affrontare la tossicodipendenza con la disintossicazione coatta. Oltreché sbagliato il principio, sarebbero percorsi destinati al fallimento. C’è invece bisogno di investire ulteriormente in percorsi di recupero personalizzati, prevedendo anche, ma non esclusivamente, l’ingresso in comunità».

Contrario anche Riccardo Magi di +Europa: «L’intenzione politica di Delmastro è basata su una visione distorta della realtà e degli effetti del Testo Unico sugli Stupefacenti. Il consumo di sostanze negli ultimi decenni è cambiato sensibilmente rispetto all’immaginario da disperazione da strada che ne ha Delmastro».

«La qualifica di tossicodipendente che viene usata nel sistema penitenziario», secondo Magi, «mette insieme situazioni molto diverse e il lavoro che le comunità aperte fanno oggi con risultati è basato principalmente su trattamenti brevi. In ogni caso, il problema del sovraffollamento si può affrontare davvero con efficacia solo con la depenalizzazione che eviti ad esempio di finire in carcere per fatti di lieve entità come abbiamo provato a fare nella scorsa legislatura e riproveremo in questa».

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Diritti di copia e obbligo di pagamento con PagoPA: indicazioni contrastanti dal Ministero

Ci sono indicazioni contrastanti riguardo il pagamento telematico dei diritti di copia con PagoPA. Se nel processo civile l’obbligo è qualcosa di pacifico, la situazione cambia in ambito penale.

Secondo il Dipartimento affari di Giustizia – Direzione Generale degli Affari Interni, utilizzare il sistema PagoPa nel penale rimane qualcosa di facoltativo, che per essere attivato necessita di una procedura specifica.

Ma per il Dipartimento della Transizione Digitale della Giustizia – Direzione sistemi informativi automatizzati, è qualcosa di obbligatorio.

È proprio su questa presa di posizione che il Movimento Forense si è espresso. Per i presidenti Elisa Demma e Alberto Vigani: «La recente nota del Ministero della Giustizia, ove si prevede che i diritti di copia sia nel procedimento civile che nel procedimento penale debbano essere obbligatoriamente acquisiti online tramite la piattaforma PagoPa, non garantisce la tutela del libero accesso alla giustizia ed addirittura ostacola la salvaguardia del diritto di difesa».

Continuano: «Nei settori processuali in cui i fascicoli non risultano digitalizzati, come in quello del Penale oppure in tutti i procedimenti civili e penali presso il GDP o presso la Suprema Corte di Cassazione, la forma di pagamento telematico comporta di per sé una serie di adempimenti ulteriori da parte dell’avvocato».

La presa di posizione della Dag arriva per rispondere ad un quesito posto dal Procuratore di Verona, che ha ricordato che la lettera dell’art. 196 del Dpr 115/2002, modificato da Marta Cartabia, stabilisce che: «Il diritto di copia, il diritto di certificato e le spese per le notificazioni a richiesta d’ufficio nel processo civile sono corrisposti tramite la piattaforma tecnologica di cui all’articolo 5, comma 2 del codice dell’amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n.82».

Leggiamo ancora: «A fronte di un così chiaro dettato normativo e tenuto conto della collocazione dell’art. 196 sopra richiamato all’interno del d.P.R. 115/2022, questa Direzione generale ritiene che la disposizione in esame sia riferita al processo civile con la conseguenza che a decorrere dal 28 febbraio 2023 il pagamento dei diritti di copia, del diritto di certificato e delle spese per le notificazioni a richiesta d’ufficio dovrà avvenire tramite la piattaforma PagoPA».

Ma per quanto riguarda il pagamento dei diritti di copia nel penale, «la Direzione affari interni rammenta che con nota prot. DOG 13550.U del 20.04.2020 la Direzione generale per i sistemi informativi automatizzati ha reso noto che in attuazione del Codice dell’Amministrazione Digitale il Ministero della Giustizia permette, tra gli altri servizi, il pagamento telematico dei diritti di copia», anche nel penale.

La posizione è condivisa anche dal Tribunale di Torino, grazie ad un provvedimento disposto lo scorso 10 marzo 2023 che ha stabilito che le cancellerie penali debbano accettare le marche cartacee. Il pagamento tramite PagoPa, dunque, resta qualcosa di facoltativo.

Invece, la posizione della Dgsia è diversa, per cui «i pagamenti del contributo unificato, del diritto di certificato, delle spese per le notificazioni a richiesta d’ufficio nel processo civile, nonché dei diritti di copia, sia nel procedimento civile sia nel procedimento penale, devono obbligatoriamente essere eseguiti tramite la piattaforma cosiddetta PagoPA».

Secondo il Movimento forense la scelta più corretta consisterebbe nella strada della facoltatività, sia per il penale che per il civile, «gestendo almeno una fase transitoria nell’attesa della digitalizzazione degli uffici».

L’avvocato, a titolo esemplificativo, prosegue il Movimento, è costretto ad accedere alla cancelleria al fine di controllare il numero delle copie da richiedere. Inoltre ci dovrà ritornare con la ricevuta PagoPa, al fine di effettuare la richiesta tornando anche per il ritiro delle copie in questione.

Qualche ufficio giudiziario «consente di interloquire con la cancelleria via Pec per conoscere il numero di pagine da richiedere e l’importo da pagare, ottenendo la spedizione delle copie richiesta via Pec o via servizio postale; tuttavia la Pec dovrà essere lavorata comunque da un operatore e, conseguentemente, la risposta da inoltrare all’avvocato o al cittadino istante non potrà mai essere immediata».

La previsione del pagamento telematico, inoltre, vanifica l’urgenza della richiesta della copia, poiché i vari adempimenti previsti comporteranno uno spreco di tempo che potrebbe invalidare il diritto di difesa. Le argomentazioni mosse per il diritto di copia valgono anche per le spese di notificazione e il diritto di certificato.

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Nordio ha consigliato ai magistrati di “lavorare di meno”

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«Il consiglio che do ai miei colleghi è lavorare di meno e selezionare in modo più accurato quello che è l’oggetto del contendere, soprattutto in diritto penale». Queste le parole del ministro della Giustizia Carlo Nordio durante un evento a Treviso.

Nordio non ha intenzione di attaccare i magistrati, ma di andare contro l’obbligatorietà dell’azione penale. «Da magistrato spesso critico verso i propri colleghi, dico che in quanto a preparazione e lavoro i nostri magistrati sono i primi in Europa. Estremamente produttivi e preparati».

«Purtroppo», continua, «si devono occupare anche di cose futili, in penale, perché l’azione è obbligatoria, in civile per burocrazie e complessità di procedure che rallentano il loro lavoro. In Italia si fanno tante cause inutili perché non si rischia nulla a parte la parcella dell’avvocato».

Per Nordio il problema è che non esiste «la lite temeraria, che c’è ma non è abbastanza dissuasiva, e la querela temeraria. Il pericolo che i nostri colleghi corrono è quello di non sapere decidere quando si è stanchi e dunque a rischio di commettere errori».

“Entro maggio saranno presentati vari disegni di legge”

Il guardasigilli ha dettato anche la deadline delle sue riforme, che sono state annunciate nel corso degli ultimi mesi. «Entro maggio saranno presentati vari disegni di legge con procedura d’urgenza riguardanti la procedura penale e che avranno un impatto molto rilevante», spiegando, inoltre, di avere pronta una riforma.

«Stiamo portando a compimento il Codice nazionale dei crimini contro l’umanità che presenteremo alla Conferenza di Londra che avrà luogo domenica prossima», dato che «noi siamo una delle ultime nazioni ad esserne sprovviste; si tratta della fissazione dei criteri dei crimini contro l’umanità fissati a suo tempo dal Processo di Norimberga».

A detta di Nordio, «è un codice fatto molto bene, ci abbiamo lavorato quattro mesi ed è un fiore all’occhiello di questa prima parte della riforma penale, perché ci allinea con la gran parte dei Paesi europei. È un forte segnale di attenzione che questo Governo ha verso questa forma di criminalità per la tutela dell’umanità in generale».

Anche in questa occasione Nordio ha parlato di intercettazioni. «Le intercettazioni resteranno con reati gravissimi o quando siano ritenute necessarie, ma ogni ufficio giudiziario deve avere un budget da non sforare».

Continua sostenendo che «mafia e terrorismo non si toccano, ma ci sono state impressionanti spese per processi di altra natura che si sono risolti nel nulla. Spendiamo 200 milioni di euro per le intercettazioni, in una Procura italiana sono stati spesi soltanto 4 milioni per un’indagine di 5 anni a carico di amministratori finita nel nulla. Sono soldi sprecati, come quasi sempre nelle intercettazioni. Deve essere previsto un budget per le intercettazioni, così come per acquistare una fotocopiatrice. Su questo faremo una riforma».

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Sono stati recentemente pubblicati i dati aggiornati di un sondaggio che il CDC, il Center for Disease Control and Prevention, svolge periodicamente. I risultati hanno riaperto una discussione importante, ovvero quella che riguarda la salute mentale degli adolescenti.

Il sondaggio ha preso in considerazione le persone che hanno frequentato le scuole superiori tra il 2011 e il 2021, e ha confermato un peggioramento delle condizioni degli adolescenti. La discussione, tuttavia, riguarda principalmente la diffusione degli smartphone tra i giovani di tutto il mondo, assumendolo come fattore che più influisce nei casi di ansia, depressione e suicidio.

Il sondaggio svolto dal CDC ha testimoniato un aggravamento significativo riguardo i problemi di salute mentale degli adolescenti durante la pandemia, associato, presumibilmente, alle limitazioni alla socialità. Tuttavia, analisti ed esperti segnalano che certe tendenze si osservavano già prima della pandemia.

“Il mondo reale è un’evasione da Internet”

Circola molto un grafico della psicologa statunitense Jean Marie Twenge, che dimostra come l’incremento dei casi di ansia, depressione e suicidio tra i giovani si siano intensificati a partire dal 2012.

Nel suo studio, pubblicato nel 2020, Twenge approfondisce il legame tra salute mentale e utilizzo degli smartphone. Per Twenge, il fatto che la diffusione degli smartphone sia avvenuta prima tra i più giovani rispetto agli anziani, potrebbe corrispondere ad una prima fondamentale spiegazione di questo fenomeno.

In secondo luogo, come sottolinea l’economista Noah Smith, quando le persone controllavano i propri profili social soltanto tramite il computer, l’operazione avveniva in maniera intermittente. Mentre ora, dato che lo smartphone è sempre in tasca, aumenta automaticamente il tempo per il quale le persone utilizzano un’app. Scriveva Smith già nel 2017: «Quindici anni fa Internet era un’evasione dal mondo reale. Oggi il mondo reale è un’evasione da Internet».

Utilizzare gli smartphone, secondo queste interpretazioni, avrebbe portato inevitabilmente ad un maggior isolamento sociale, condizione associata all’aumento del rischio di ansia, depressione e suicidio.

Social Media e salute mentale

Una delle ipotesi più diffuse è che l’aumento dei casi di ansia, depressione e suicidio tra le ragazze a partire dai primi anni del Duemila dipenda dall’aumento dell’utilizzo dei social media. I social avrebbero sostituito le interazioni tra gli adolescenti, valutato il loro aspetto fisico con “Mi piace” e commenti, rendendo pubbliche le dimensioni della propria sfera sociale.

Per Smith, questa variabile è comunque condizionata dall’ampia diffusione degli smartphone: «Senza smartphone sei costretto a stare lontano da Instagram per gran parte della giornata, invece con uno smartphone in tasca il giudizio onnipresente della tua cerchia è sempre a portata di mano».

Tutto questo vale anche per la sovraesposizione alle notizie deprimenti e negative, che sono capaci di attirare di più l’attenzione degli utenti.

Alcuni esperimenti

Nel 2019 è stato pubblicato uno degli studi più famosi riguardo gli effetti dei social media sulla salute mentale. Condotto da alcuni ricercatori americani, “The Welfare Effects of Social Media” ha coinvolto un campione di 2743 persone, alcune delle quali sono state pagate per disattivare il proprio account Facebook durante il periodo precedente alle elezioni di metà mandato.

Le persone che avevano disattivato il social, rispetto a quelle che, invece, non l’avevano fatto, avevano aumentato le loro attività offline e ridotto il loro tempo online in generale. In alcuni casi non avevano nemmeno riattivato il loro account al termine dell’esperimento. I ricercatori hanno riscontrato in queste persone una diminuzione dell’esposizione alle notizie, della polarizzazione politica e un generale aumento di benessere soggettivo.

Nel 2022 è stato condotto un esperimento simile, nel quale si richiedeva a 154 persone, con età media di 29,6 anni, di non utilizzare social media, quali Instagram, Facebook, TikTok e Twitter. La sospensione dei social media, secondo i risultati dello studio, avrebbe determinato significativi miglioramenti della salute mentale dei partecipanti.

Nonostante il grande numero di studi sulla relazione tra salute mentale e utilizzo di social media, la letteratura scientifica è ancora lontana dal poter affermare che sia una relazione simile a quella, per esempio, del fumo e degli effetti cancerogeni.

Secondo Derek Thompson, un giornalista statunitense, i social media possono essere paragonati all’alcool, ovvero «una sostanza che, a piccole dosi, può essere divertente o addirittura utile per gli adulti, ma a dosi maggiori può causare problemi a certe persone».

In generale, l’opinione più condivisa in assoluto dagli esperti è che per una miglior comprensione del fenomeno si debbano attendere ulteriori studi, magari maggiormente rigorosi ed estesi. Secondo Smith non dovremmo attendere che la ricerca stabilisca con certezza che gli smartphone peggiorino la salute mentale, ma concentrarci sul creare una diversa consapevolezza di questo tipo di tecnologia.

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È possibile superare Spid per andare verso un’identità nazionale digitale unica? Certo, ed è un percorso che procede a tappe. Il governo, tramite Alessio Butti, il sottosegretario all’innovazione tecnologica, ha già provveduto ad assicurare ai fornitori, durante  il recente incontro del 1° marzo, il «rinnovo pluriennale del servizio».

Nel frattempo, è cominciato un lavoro «congiunto» al fine di definire entro il prossimo giugno «il percorso evolutivo dell’identità digitale, valorizzando gli importanti risultati conseguiti dal sistema Spid e dagli attori che vi stanno partecipando».

Intesa dice addio a Spid

Ma facciamo il punto della situazione. Negli ultimi giorni, infatti, è stato ridotto a dieci il numero dei gestori. Intesa avrebbe rinunciato allo Spid, e per questo, dal prossimo 23 aprile non farà più parte dei gestori di identità digitale abilitati da Agid.

In pista restano Namirial, Aruba, Register, Tim, Infocert, Sielte, Poste, TeamSystem, Etna e Lepida (che fanno parte dell’associazione AssoCertificatori). Gli attuali utenti di Intesa dovranno richiedere ad un altro gestore una nuova identità digitale – in ogni caso, si possono richiedere informazioni all’indirizzo info_spid@intesa.it.

Il rinnovo delle convenzioni

L’attuale esecutivo avrebbe avviato a inizio marzo, insieme ad AssoCertificatori, un tavolo per il rinnovo delle convenzioni. Anche se non c’è un accordo concreto, Butti ha comunque teso la mano ai vari provider, allo scopo di «individuare un sostegno che, dopo anni di richieste inascoltate da parte dei precedenti governi, possa garantire la sostenibilità economica dello Spid, a fronte dell’impegno richiesto».

La cifra che hanno sollecitato i vari fornitori per il sostenimento delle spese per la gestione delle identità digitali sembra viaggiare intorno ai 50 milioni di euro.

Digitalizzazione e Pnrr

Le azioni previste per l’adozione dell’identità digitale fanno parte di una delle misure degli investimenti del Pnrr previsti per la digitalizzazione della Pubblica Amministrazione. Per esempio, lo scorso settembre sono stati pubblicati degli avvisi per il rafforzamento delle piattaforme abilitanti, alle quali sono destinati 230 milioni di euro.

All’interno di questa cifra troviamo 30 milioni per implementare l’identità digitale, 130 milioni per il sistema PagoPA e 70 milioni di euro per l’app IO. Il Piano prevede che entro l’anno 2026 ci siano 42 milioni di cittadini italiani con un’identità digitale.

Identità Digitale Nazione

Resta comunque l’intenzione di superare Spid e farlo convergere con Cie e Cns all’interno di un’unica piattaforma destinata all’identità digitale nazionale, seguendo il modello del wallet europeo. L’obiettivo è quello di arrivare ad un portafoglio personale digitale in grado di consentire ai cittadini di identificarsi online attraverso la gestione e la conservazione dei dati della propria identità e di documenti come patente, prescrizioni mediche e titoli di studio in formato elettronico, ma anche di accedere a tutti i servizi digitali all’interno dell’Ue.

Sottolineano i direttori dell’Osservatorio Digital Identity del Politecnico di Milano Giorgia Dragoni, Valeria Portale e Luca Gastaldi: «La convergenza verso un unico sistema sarebbe la soluzione definita dal regolamento europeo Eidas, attualmente in fase di revisione, che prevede l’introduzione di un wallet di identità digitale che raccolga un ampio set di credenziali».

«Anticipare questa convergenza», continuano, «sebbene non sia in questo momento elemento prioritario per la strategia di digitalizzazione del Paese, potrebbe guidarci verso una sperimentazione anticipata del wallet».

Gli esperti avvertono, comunque, che diventa «essenziale definire in maniera chiara una strategia di evoluzione sull’identità digitale, che sia condivisa da tutte le parti coinvolte, pubbliche e private».

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Per i giudici, alcuni brani dei cantanti neomelodici, sono pienamente in contrasto con il sottostante principio rieducativo della pena, e per questo è legittimo negare ai detenuti al 41-bis la possibilità di ascoltare musica neomelodica.

Il Tribunale del Riesame giustifica la decisione di negare ad un detenuto l’ascolto di questa tipologia di musica poiché alcuni brani raccontano «di contesti malavitosi e di contrapposizione anche aperta ai poteri dello Stato».

Per la Cassazione, questo è un no assolutamente giustificato. È inammissibile, dunque, il ricorso di un detenuto al 41-bis per reati di camorra, che aveva richiesto di ascoltare questa tipologia di musica.

Il detenuto in questione aveva cercato di convincere i giudici che la musica neomelodica si basa sulla tradizione napoletana, rivendicando inoltre il suo diritto alla scelta del proprio percorso di rieducazione. Ma la Suprema Corte non era affatto d’accordo.

Esaminato il contenuto dei testi del CD di musica neomelodica che aveva intenzione di acquistare il detenuto, i giudici del Tribunale del Riesame hanno «rilevato che alcuni brani musicali del genere neomelodico veicolano messaggi di violenza ed esaltano l’adesione a stili di vita criminali sicché il loro ascolto si presenta del tutto incompatibile con il trattamento penitenziario che, tendendo alla risocializzazione del condannato, promuove valori e modelli di comportamento diametralmente opposti».

Secondo i giudici, quindi, i brani neomelodici che aveva intenzione di ascoltare il detenuto «non erano estranei a quelli contenenti i citati messaggi negativi».

Non è la prima volta che i giudici si occupano di musica neomelodica legata ai boss della camorra. Nel 1981, Giovanni Falcone chiamò come testimone in un’inchiesta il cantante neomelodico Mario Merola, che raccontò di aver cantato per ‘u Papa di Cosa Nostra, Michele Greco.

Più recentemente, alcuni pentiti hanno rilasciato importanti dichiarazioni, secondo cui la compagna di un importante boss, dopo il suo arresto, si sarebbe sostituita a lui, facendo incidere un brano contro i collaboratori di giustizia e facendolo cantare ad un interprete neomelodico parecchio noto.

Al tema è stato dedicato un convegno, Note di camorra, universo neomelodico e vite stonate, che ha visto la partecipazione di magistrati e cantanti, che si sono interrogati sul possibile rapporto tra camorra e musica neomelodica.

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La scorsa settimana Stati Uniti, Canada, ma anche alcune istituzioni europee hanno annunciato che i dipendenti pubblici dovranno eliminare l’app di TikTok dai propri smartphone di lavoro. Sono decisioni che riflettono il timore di alcuni governi che l’app, vista la natura autoritaria del governo cinese, venga utilizzata al fine di commettere atti di spionaggio e abusi. Per il momento, si tratta semplicemente di ipotesi.

La Commissione europea, per esempio, ha imposto a tutto il personale di eliminare l’app dai dispositivi utilizzati per il lavoro, al fine di «proteggere i dati della Commissione e aumentarne la sicurezza informatica».

Anche il governo degli USA ha chiesto ai dipendenti delle agenzie federali di cancellare l’app entro 30 giorni, dichiarandolo «un passo fondamentale per la gestione del rischio che l’app rappresenta per i dati sensibili del governo».

Il Canada, invece, ha imposto la rimozione dell’app dai dispositivi forniti dal governo e utilizzati per il lavoro, in quanto TikTok avrebbe «un livello di rischio inaccettabile per la privacy e per la sicurezza». L’azienda che possiede TikTok, ByteDance, ha dichiarato che non è mai stata avvertita o consultata prima di prendere tali decisioni.

Justin Trudeau, il primo ministro canadese, ha detto che «spera che il fatto che il governo abbia compiuto il passo significativo di dire a tutti i dipendenti federali di non usare più TikTok sui loro telefoni di valore porti molti canadesi, che si tratti di aziende o di privati, a riflettere sulla sicurezza dei propri dati e a fare le proprie scelte».

In India, invece, TikTok è vietato dal 2020, dato che l’app viene ritenuta, così come tutte le altre app cinesi, un «elemento ostile alla sicurezza nazionale e alla difesa dell’India». Australia e Regno Unito, invece, non hanno adottato alcuna misura di limitazione del social sui dispositivi governativi, dato che gli esperti in materia di cybersecurity non ritengono la cosa necessaria.

L’unica app cinese in Occidente

Da tre anni, TikTok è diventato uno dei principali social network in tutto il mondo. Attualmente ha un miliardo di utenti attivi, molti dei quali vivono negli Stati Uniti e in Europa. ByteDance offre intrattenimento ai propri utenti in maniera gratuita, attraverso brevi video mirati.

Negli ultimi anni, tuttavia, i governi hanno manifestato una preoccupazione particolare nei confronti delle modalità di raccolta dati e di protezione della privacy. Il motivo principale è che il social sembra essere l’unica piattaforma cinese largamente diffusa in Occidente.

La Cina viene vista dagli Stati Uniti (e in misura minore anche dall’Ue) come un paese poco affidabile. Qualcuno teme, infatti, che l’app di TikTok possa venire utilizzata dal governo al fine di spiare gli utenti, promuovendo i propri interessi politici ed economici.

Secondo gli analisti, i sospetti dei governi occidentali nei confronti di TikTok sono principalmente di natura politica, e non tecnologica. Preoccupa, in particolar modo, il fatto che, nonostante TikTok appartenga ad un’azienda privata, il governo cinese abbia comunque dei precedenti di interferenze, anche pesanti, nelle società particolarmente importanti e perciò strategiche.

Preoccupazioni concrete o mere ipotesi?

In un recente articolo, Joe Tidy, un giornalista della BBC ha deciso di analizzare le preoccupazioni principali, concludendo che per il momento si parla soltanto di ipotesi di rischio, che non hanno ancora trovato modo di concretizzarsi.

Nell’articolo, Tidy si chiede se TikTok possa essere un’app finalizzata allo spionaggio degli utenti, come ipotizzato da Donald Trump nel 2020. Per l’ex-presidente degli Stati Uniti, TikTok aiuta la Cina a «rintracciare le posizioni di dipendenti e appaltatori federali americani, a costruire dossier di informazioni personali per il ricatto e condurre spionaggio aziendale».

TikTok, tuttavia, ha affermato di essere assolutamente indipendente dal governo cinese. Zi Chew, il CEO dell’app, ha dichiarata al Washington Post che il governo non ha mai richiesto i dati degli utenti e «anche se lo facessero, riteniamo che non dovremmo darglieli perché se l’utente è statunitense i dati sono soggetti alla legge degli Stati Uniti».

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TikTok, inoltre, ha lavorato per lungo tempo ad un piano da 1 miliardo e mezzo di dollari insieme al Comitato sugli investimenti esteri degli Stati Uniti. Il progetto, noto come Project Texas, è nato per mettere a punto sistemi di salvaguardia della privacy, rassicurando il governo americano riguardo la sua assoluta indipendenza dal governo cinese.

Il progetto era stato avviato dopo il tentativo dell’amministrazione Trump di vietare TikTok nel 2020. Recentemente, il piano è stato messo in pausa, dato che l’amministrazione Biden ha deciso di non partecipare più alle trattative.

I sospetti nei confronti di TikTok si insinuano in una preoccupazione più ampia nei confronti di qualsiasi azienda che ha base in Cina. Per Rebecca Arcesati, ricercatrice che si occupa di politiche digitali e tecnologiche, «le preoccupazioni, soprattutto negli Stati Uniti e ora in Europa, ruotano attorno al tema della legislazione cinese, la quale sottopone le aziende a determinati vincoli in termini di cooperazione con l’intelligence e protezione della sicurezza del partito-stato, e obbliga aziende e cittadini privati a condividere i dati raccolti qualora venisse chiesto loro di farlo».

«Si tratta», continua, «di obblighi di natura sia politica che regolamentare che tutte le aziende cinesi devono rispettare, benché tale vulnerabilità all’ingerenza di Pechino ovviamente danneggi la loro reputazione a livello internazionale».

Tutto questo creerebbe «delle frizioni non da poco tra i vincoli legislativi e politici di queste aziende in Cina e i requisiti che devono rispettare quando operano in altri mercati: non è solo il caso di TikTok, vale per tutte le aziende coinvolte nella raccolta e gestione di dati tramite la fornitura di tecnologie e servizi digitali».

Si aggiunga «il fatto che il Partito Comunista Cinese sta cercando di avere un maggiore controllo dei giganti tecnologici cinesi: per esempio nel 2019 una quota di ByteDance, circa l’1%, è andata ad un’azienda di Stato cinese: una quota molto piccola, ma che dà comunque accesso ad un seggio nel consiglio di amministrazione dell’azienda e potere di veto su alcune decisioni».

Casi di censura

Per la BBC, dunque, la possibilità che il governo cinese utilizzi TikTok allo scopo dello spionaggio rimane «un rischio solo teorico». Ma c’è una terza preoccupazione, ovvero, che il governo cinese manipoli l’algoritmo di TikTok al fine di mostrare agli utenti occidentali dei contenuti specifici per fare propaganda, «facendo loro il lavaggio del cervello».

Scrive Tidy: «All’inizio dell’ascesa di TikTok ci sono stati casi di censura di alto profilo sull’app: a un utente negli Stati Uniti è stato sospeso l’account per aver discusso del trattamento riservato dal regime cinese ai musulmani nello Xinjiang; dopo una grossa reazione pubblica, TikTok si è scusato e ha ripristinato l’account. Da allora ci sono stati pochi casi di censura, se si escludono le controverse decisioni di moderazione che tutte le piattaforme devono affrontare».

Vittima o carnefice?

Secondo un portavoce del social «è deludente vedere che enti e istituzioni governative stanno vietando TikTok sui dispositivi dei dipendenti senza discussioni né prove». Mao Ning, il portavoce del governo cinese negli States, ha accusato invece il governo americano «di aver allargato esageratamente il concetto di sicurezza nazionale e abusato del potere stradale per reprimere aziende straniere».

«Quanto insicuri possono essere gli Stati Uniti», continua il portavoce, «massima superpotenza mondiale, per temere a tal punto l’app preferita dai giovani?». La Cina, d’altro canto, non consente l’utilizzo ai suoi cittadini di quasi tutte le app americane, come Facebook, WhatsApp, Instagram, YouTube, Twitter, Tinder e Tumblr.

La ricercatrice Ludovica Meacci sostiene che «per ragioni legate alla sicurezza dei dati e alla moderazione dei contenuti, TikTok è diventata una vittima dello scontro Stati Uniti-Cina che non si esaurisce nell’ambito tecnologico».

«Dalle dispute territoriali nell’Indo-Pacifico e nuove alleanze militari», conclude, «alla disinformazione e guerra ibrida, passando per dazi commerciali e controlli sulle esportazioni e investimenti diretti, questa competizione tra le due potenze si articola su più piani e sta diventando il principio organizzativo dominante delle dinamiche internazionali».

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Entro il 2030, i giovani di oggi faranno un lavoro che per il momento ancora non esiste, poiché «l’85% dei posti di lavoro che esisteranno nel 2030 non è stato ancora inventato».

Lo metteva nero su bianco, nel 2017, un gruppo di ricerca, l’Institute for the Future (IFTF), quando ancora non era scoppiata la pandemia, ed il mondo di oggi era completamente diverso da come lo conosciamo.

Sei anni fa si scriveva: «Il ritmo del cambiamento sarà così rapido che le persone impareranno “sul momento”, utilizzando nuove tecnologie come la realtà aumentata e la realtà virtuale. La capacità di acquisire nuove conoscenze sarà più preziosa della conoscenza stessa. Allentando i legami tra lavoro e geografia, sarà possibile eliminare il disallineamento dei talenti globali che esiste oggi».

I lavori del 2030

Il progresso tecnologico, dunque, creerà dei nuovissimi posti di lavoro, nei quali uomo e macchina dovranno collaborare. Le nuove tecnologie emergenti, come l’Intelligenza Artificiale, sono molto attraenti, se teniamo conto del grosso potenziale nell’aiutare a fronteggiare le sfide principali del mercato.

Qualche anno fa ci chiedevamo quanto fosse effettivamente realistico pensare ad una rapida diffusione delle nuove tecnologie, ed ora abbiamo una risposta. Tuttavia, dopo i cambiamenti ai quali abbiamo assistito, e che sono attualmente in atto, possiamo affermare con certezza che la maggior parte dei lavori che ci saranno nel 2030 non esistono ancora?

Se questo è vero, quello che oggi stanno imparando gli studenti a scuola, sarà inutile nel futuro?

I robot ci sostituiranno?

Nella discussione del futuro del mondo del lavoro e delle nuove tecnologie, non è raro incontrare delle previsioni pessimistiche, che arrivano sempre ad una possibile sostituzione dell’uomo da parte delle macchine e dai processi tecnologici sempre più avanzati.

Ma cosa dovremmo dire, allora, di quelle professioni che sono nate negli ultimi anni, proprio a causa della diffusione del digitale? Al posto di fare cupe previsioni in merito alla tecnologia e al lavoro nel futuro, concentriamoci invece sulle nuove entusiasmanti opportunità che potrebbero presentarsi.

Nessun robot potrà sostituire l’uomo, dato che tutte le professioni si baseranno, sempre e comunque, su capacità umane, come il riconoscimento dei modelli, l’analisi avanzata, il pensiero strategico e l’interpretazione delle informazioni.

Le attività ripetitive e di routine sono quelle più suscettibili all’automazione. Le abilità intrinsecamente umane, invece, saranno quelle più richieste nel futuro, e sono collegate ad abilità sociali, analitiche, emotive, e alle competenze trasversali.

Per sfruttare le varie opportunità di lavoro che stanno emergendo, restando occupabili nel nuovo mondo del lavoro, dobbiamo diventare adattabili. In questo modo ci saranno più possibilità di ricoprire ruoli creativi, diversificati e appaganti.

Per abbandonare l’idea che “i robot ci ruberanno il lavoro” possiamo dare un’occhiata alle offerte di lavoro che vengono postate online: la tecnologia già oggi ha creato delle nuove opportunità, creando lavori che fino a poco tempo fa non esistevano.

Per esempio: vent’anni fa avremmo mai pensato che sarebbe stato possibile guadagnare attraverso i social? Ebbene, tra vent’anni sarà possibile guadagnare attraverso lavori ad oggi inimmaginabili!

Non è ancora possibile stabilire che cosa ci riserverà il domani, certo, ma sono già state fatte alcune previsioni sul futuro del lavoro, tenendo in considerazione delle tendenze attuali che potrebbero svilupparsi nel corso del tempo.

I lavori del futuro

Nel futuro, la promozione dell’efficienza sarà fondamentale. Dunque, la figura del project manager sarà importante per qualsiasi tipo di azienda, e dovrà avere tanta capacità di analisi dei dati quanta leadership.

In ambito formativo, invece, potrebbero rivelarsi sempre più necessari specialisti in materia di integrazione uomo-tecnologia. Persone, dunque, capaci di insegnare agli altri come utilizzare e sfruttare l’ampia gamma di tecnologia per migliorare la propria esistenza, utilizzando un approccio olistico per analizzare le tecnologie e capire come ottenere il massimo della resa.

Secondo Statista, la realtà virtuale, la realtà aumentata e l’intelligenza artificiale si riveleranno assolutamente fondamentali per la maggior parte dei lavori del futuro. Per esempio, già nei 2023 si stimano i seguenti valori di mercato: 51 miliardi e mezzo per la realtà virtuale, 197 miliardi e mezzo per le realtà aumentata e 1,8 trilioni di dollari per l’intelligenza artificiale.

Infatti, sempre più aziende si rivolgono all’Intelligenza Artificiale, oppure alle tecnologie emergenti al fine di raggiungere obiettivi di crescita, sviluppo e sostenibilità. Sicurezza informatica, robotica, blockchain, big data e l’Internet delle cose hanno un grandissimo potenziale, al fine di rendere servizi e prodotti accessibili a tutti grazie a professionisti specializzati.

È molto probabile che scompaiano i posti di lavoro manuali, ma il mercato del lavoro si aprirà finalmente ad un’ampia gamma di nuove opportunità, con posti di lavoro guidati dalle tecnologie.

La tecnologia continuerà ad accelerare esponenzialmente il ritmo del cambiamento e dell’innovazione. Noi, per rendere la nostra carriera e la nostra vita a prova di futuro, dobbiamo mantenere una mente curiosa e migliorare continuamente competenze e conoscenze.

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Una rivoluzione in tema di diffamazione. Alberto Baldoni, presidente della commissione Affari costituzionali, firma una nuova proposta di legge per modificare il reato di diffamazione: niente più carcere, solo sanzioni economiche

Oltre alla carta stampata, vengono presi in considerazione tutti i media, come tv, radio e il mondo del web. Chi scrive, dunque, non rischierà più il carcere, poiché verrà assicurata «una celere tutela» nei confronti delle persone che si ritengano offese da ogni mezzo di diffusione, tenendo sempre ben saldo «il diritto di cronaca e il segreto professionale dei giornalisti sulla fonte delle notizie».

Il fine è l’approvazione di una legge che tenga conto di ogni sfaccettatura del reato di diffamazione e la creazione di una nuova legge che non si rivolga soltanto ai giornalisti, ma anche a professionisti, politici, e ad ogni persona che incappi nel reato di diffamazione.

Spiega Balboni: «Abbiamo presentato questo ddl per rimettere mano alla disciplina della diffamazione, in particolare alla diffamazione a mezzo stampa. C’è da recepire alcuni orientamenti della giurisprudenza europea e anche di quella della Suprema Corte. La parte più rilevante del progetto di legge sta nella previsione della non punibilità dell’autore della presunta diffamazione ogni qual volta viene pubblicata una smentita».

Continua: «Se chi ha pubblicato una notizia diffamatoria della reputazione altrui si rende conto di aver sbagliato è giusto che abbia la possibilità di riparare». Invece, se «chi sbaglia vuole perseverare nell’errore è giusto che vada a processo. Si tratta di uno stimolo che la politica vuole offrire per una informazione sempre più corretta. Una forma di autodisciplina».

L’intenzione è quella di mettere nero su bianco un orientamento che, in realtà, fa già parte del nostro ordinamento giuridico, «perché le regole sono state già ampliate anche in occasione della Riforma Cartabia. Oggi, per tutti i reati perseguibili a querela, se l’autore del reato risarcisce il danno, il giudice, se ritiene il risarcimento commisurato al danno, proscioglie e dichiara estinto il reato per avvenuta riparazione del reato. È un caso in cui si può applicare la giustizia riparativa».

La proposta di legge parla di nuove procedure riguardo ai tempi ma anche ai meccanismi di Rettifica dell’interessato, sulle procedure di conciliazione e sulle sanzioni nei casi di inadempienza.

In caso di condanna e di processo, il ddl prevede  delle pene pecuniarie che partono da 5.000 e arrivano a 10.000 euro. In caso di attribuzione di uno specifico fatto che il giornalista sapeva di essere falso, le pene aumentano da 10.000 a 50.000 euro. La pena accessoria, invece, corrisponde nella pubblicazione della sentenza sul giornale.

Dinamiche complesse

Il tema, in realtà, è molto più complesso, e in particolare riguarda le querele temerarie rivolte contro i giornalisti. Gli osservatori del mondo dei media, da anni segnalano che la libertà di stampa viene messa in discussione proprio a causa di querele infondate, quelle che persone con potere presentano a costo zero contro i giornalisti che pubblicano delle inchieste, al fine di intimidirli e ma anche di prosciugarne le risorse economiche.

Un freelance, se rileva una querela che ritiene infondata, non è in grado di fronteggiare personalmente un eventuale condanna, soprattutto per quanto riguarda i costi. Per questo, di solito si preferisce pubblicare una rettifica, evitando in tal modo di incorrere in lunghi e costosi iter giudiziari.

Troviamo un passaggio nel ddl che introduce una proposta di punizione per le querele temerarie. Il giudice, infatti, potrebbe «condannare il querelante al pagamento di una somma da 2.000 a 10.000 euro a favore della cassa delle ammende», nei casi di dolo o di colpa grave.

La Commissione Europea, infatti, lo scorso aprile, ha presentato una raccomandazione al fine di incoraggiare tutti i Paesi Ue all’allineamento delle norme per la tutela dei giornalisti contro cause infondate, nei procedimenti civili e in quelli penali.

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Abrogato il rito Fornero con la sua doppia fase in primo grado, sostituendolo con un nuovo tipo di procedimento

Dal 28 febbraio, con l’introduzione della Riforma del Processo Civile, è stato abrogato il rito Fornero a favore di un procedimento più veloce e snello. Il nuovo procedimento verrà applicato a tutte le controversie nelle quali, attraverso l’impugnazione del provvedimento, viene proposta la domanda di reintegrazione.

Il rito Fornero è stato introdotto con la Legge 92/2012, al fine di rispondere alla necessità di assicurare maggior rapidità alla risoluzione delle controversie, che mettono in gioco alcuni diritti fondamentali come, per esempio, quello della conservazione del proprio posto di lavoro.

Il rito Fornero implicava che la domanda potesse riguardare solo la legittimità del licenziamento, e nulla di più. Il procedimento, inoltre, prevedeva lo svolgimento di due fasi in primo grado dinanzi ad un giudice del lavoro.

Il rito, nato dichiaratamente al fine di garantire maggior velocità durante i procedimenti in materia, togliendo carico di lavoro ai magistrati, in realtà ha portato ad un peggioramento della situazione. Infatti, non potevano essere introdotte ulteriori questioni se non inerenti alla legittimità del licenziamento.

Per discutere riguardo le differenze salariali, irregolarità dei pagamenti, errori di inquadramento, differenze nell’orario o sull’inadeguatezza dello stipendio, bisognava cominciare un procedimento diverso ma sempre dinanzi al giudice del lavoro.

Dunque, dinanzi ad un fascicolo e ad un procedimento, il giudice del lavoro spesso si trovava a trattare anche fino a tre procedimenti. Nelle sedi più piccole chi si occupava dei tre procedimenti era il magistrato stesso – circostanza che, seppur non illegittima, non era nemmeno ottima secondo l’oggettiva terzietà dell’organo giudicante in tutte le sue fasi.

Già nel 2015 si era discusso dell’evidente scarsa efficacia del rito Fornero, escludendo l’applicazione di tale rito nei confronti dei licenziamenti soggetti al regime delle tutele crescenti per i rapporti di lavoro instaurati dopo il 7 marzo 2015.

Ma è con la recente riforma del processo civile che cambiano le regole. Dal 28 febbraio è infatti abrogato il rito Fornero a favore di un procedimento più snello e veloce, privo del suo carattere bifasico e della sua rigidità.

Il nuovo procedimento per le controversie dei licenziamenti, ai sensi del nuovo art. 441-bis, si applica ad ogni controversia secondo la quale l’impugnazione del provvedimento espulsivo propone domanda di reintegrazione, anche nel caso in cui debbano essere risolte questioni che riguardano la qualificazione del rapporto.

Sarà il giudice a dettare i tempi del processo, con un solo vincolo, ovvero, che tra la notificazione del ricorso e la prima udienza devono passare almeno 20 giorni. Durante la fase di udienza, il giudice potrà disporre la trattazione congiunta delle domande presentate attraverso l’impugnamento del licenziamento, concentrando la fase istruttoria e quella decisoria.

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