prescrizione nordio

La prescrizione cambia un’altra volta

Martedì 16 gennaio 2024 alla Camera è stata ricevuta la prima approvazione relativa alla proposta di legge che reintroduce la prescrizione. Si tratta della quarta riforma nel corso di sette anni.

Nel 2022 era stata abolita dall’allora ministro della Giustizia Andrea Bonafede; ora il Governo ha deciso di reintrodurla, anche dopo il primo grado, con lo scopo di ridurre i tempi del processo e per fornire maggiori garanzie agli imputati.

La Riforma è stata approvata alla Camera con 173 sì e con 79 no. La proposta di legge, ora dovrà essere discussa e votata in Senato, anche se non sembra che ci saranno particolari problemi nella sua approvazione.

Con la nuova riforma il Governo ha deciso di reintrodurre i limiti in seguito alla sentenza di primo grado eliminati da Bonafede, tornando, dunque, alle regole della precedente riforma, introdotta nel 2017 dal ministro Orlando.

Dunque, il corso della prescrizione resterà sospeso non oltre i due anni in seguito alla sentenza di condanna di primo grado, e non oltre un anno in seguito alla sentenza di appello di conferma della condanna di primo grado.

Nel caso in cui la sentenza di impugnazione non interverrà entro le tempistiche previste, la prescrizione riprenderà e il periodo di sospensione verrà conteggiato nella prescrizione; se verrà successivamente sciolta o annullata la condanna in Cassazione o in appello, si dovrà comunque conteggiare il periodo di sospensione.

L’ANM aveva richiesto al Parlamento l’introduzione di una norma transitoria, ovvero una serie di regole che evitassero l’applicazione della riforma ai processi in corso.

Di certo l’applicazione della prescrizione andrebbe a smaltire i processi troppo lunghi, ma per la magistratura questo potrebbe creare eccessiva confusione, che andrebbe ad inceppare il sistema, impedendo il dimezzamento dei tempi del processo e lo smaltimento dei processi arretrati.


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OpenAI, azienda produttrice di ChatGPT, la scorsa settimana ha cancellato una frase presente nelle sue politiche di utilizzo, ovvero quella che vietava l’utilizzo della tecnologia a scopo bellico. Sino al 10 gennaio, OpenAI proibiva le «attività che presentano un alto rischio di danni fisici, tra cui lo sviluppo di armi», e l’utilizzo dello strumento di IA a fini «militari e di guerra».

Tuttavia, oggi OpenAI ha deciso di eliminare questa specifica, vietando comunque l’utilizzo del «servizio per danneggiare sé stessi o altri». Il cambiamento, per quanto silenzioso, non è passato inosservato agli esperti del settore.

Infatti, tutto questo arriva in un momento storico importante, caratterizzato da un sempre maggior interesse delle agenzie militari per quanto riguarda l’utilizzo dell’intelligenza artificiale.

Nonostante tutto, OpenAI non sembra possedere una tecnologia progettata per uccidere, anche se non si possono escludere attività in cui l’IA potrebbe pianificare e portare a termine l’omicidio di una o più persone.

La società non è all’oscuro di questo particolare, ed è per questo che ha aggiornato le politiche di utilizzo, allo scopo di renderle comprensibili e leggibili per tutti. Chiarisce il portavoce di OpenAI, Niko Felix: «Un principio come “non danneggiare gli altri” è ampio ma facilmente comprensibile e rilevante in numerosi contesti. Qualsiasi uso della nostra tecnologia, incluso da parte dei militari per [sviluppare] o [usare] armi, [ferire] gli altri, [distruggere] proprietà, o [impegnarsi] in attività non autorizzate che violano la sicurezza di qualsiasi servizio o sistema, non è consentito».

Dunque, sembra che ChatGPT non verrà utilizzato per sviluppare armi letali, ma la tecnologia potrà essere utilizzata per i «casi d’uso legati alla sicurezza nazionale» allineati alla mission della compagnia.

Recentemente, OpenAI ha lavorato con la sezione del Dipartimento della Difesa degli USA che sviluppa nuove tecnologie a scopo militare, il DARPA. Lo scopo è la creazione di «nuovi strumenti di sicurezza informatica» che proteggano i software open source sui quali si basano le infrastrutture critiche.

Anche se siamo in ambito militare, non si pensa dunque alla produzione di armi. Sempre secondo Felix «non era chiaro se questi casi d’uso vantaggiosi sarebbero stati consentiti ai sensi “militari” nelle nostre politiche precedenti. Pertanto, l’obiettivo del nostro aggiornamento delle politiche è fornire maggiore chiarezza e rendere possibili queste discussioni».


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L’intelligenza artificiale impatterà sul 60% dei posti di lavoro

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Una recente ricerca del Fondo monetario internazionale ha indagato il potenziale impatto dell’IA sul mercato del lavoro globale, raggiungendo dei risultati a suo dire “impressionanti”.

Lo studio, come riportato dal Sole 24 Ore, mette in evidenza come l’intelligenza artificiale interesserà circa due posti di lavoro su cinque; nelle economie avanzate il numero sale a tre.

Circa la metà delle professioni potrebbe trarre vantaggio nell’integrazione di tale tecnologia per quanto riguarda la produttività, al contrario dell’altra metà, che potrebbe assistere l’intelligenza artificiale mentre esegue dei compiti fondamentali, che per ora appartengono all’essere umano.

Tutto questo potrebbe ridurre la domanda di lavoro, portare a salari più bassi, assunzioni ridotte e nel peggiore dei casi alla scomparsa di alcuni lavori. Il fenomeno avrà dimensioni ridotte nei mercati emergenti, così come in quelli a basso reddito, laddove l’impatto dell’IA nel mondo del lavoro si fermerà rispettivamente al 40% e al 26%.

Ci sono ancora tantissimi paesi privi di una forza lavoro in grado di sfruttare i vantaggi della tecnologia, che, nei prossimi anni potrebbe aumentare il divario tra le nazioni.

Secondo Kristalina Georgieva, direttrice generale dell’Fmi, «siamo sull’orlo di una rivoluzione tecnologica che potrebbe far ripartire produttività, stimolare la crescita globale e aumentare i redditi in tutto il mondo e che potrebbe anche sostituire i posti di lavoro e approfondire le diseguaglianze».

Georgieva solleva «importanti domande sul potenziale impatto dell’IA sull’economia globale. L’effetto netto è difficile da prevedere, poiché essa si diffonderà attraverso le economie in modi complessi. Avremo bisogno di elaborare una serie di politiche per sfruttare in modo sicuro il vasto potenziale dell’intelligenza artificiale a vantaggio dell’umanità».


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Nell’epoca dei social ogni cosa è cambiata: la nostra vita è in rete, e di conseguenza anche la pubblicità si è spostata online. Anche il lavoro dell’avvocato è stato investito da questi cambiamenti. Ma una domanda sorge spontanea: come mantenere i capisaldi della deontologia forense nel mondo dei social?

Ogni regola deontologica si basa su probità, dignità e decoro, anche e soprattutto per quanto riguarda la fiducia che la collettività ripone nell’avvocato. Dunque, in qualsiasi situazione, anche nella vita privata e nei social, l’avvocato ha il dovere di comportarsi secondo tali principi.

Il codice deontologico, infatti, non opera distinzione tra dimensione pubblica e privata: entrambe potrebbero ledere i principi dell’avvocato riflettendosi in maniera negativa sulla professione e sulla credibilità della categoria.

Per poter verificare se sono stati violati i canoni deontologici generali nei social ci si basa sull’art. 17, secondo cui «è consentita all’avvocato, a tutela dell’affidamento della collettività, l’informazione sulla propria attività professionale, sull’organizzazione e struttura dello studio, sulle eventuali specializzazioni e titoli scientifici e professionali posseduti».

Le informazioni «diffuse pubblicamente con qualunque mezzo, anche informatico, debbono essere trasparenti, veritiere, corrette, non equivoche, non ingannevoli, non denigratorie o suggestive e non comparative. In ogni caso le informazioni offerte devono fare riferimento alla natura e ai limiti dell’obbligazione professionale».

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Secondo il nuovo art. 35 del Codice di deontologia forense, «l’avvocato che dà informazioni sulla propria attività professionale, quali che siano i mezzi utilizzati per rendere le stesse, deve rispettare i doveri di verità, correttezza, trasparenza, segretezza e riservatezza, facendo in ogni caso riferimento alla natura e ai limiti dell’obbligazione professionale».

Dunque, il rispetto dell’etica professionale non dovrà mai essere sacrificata, nemmeno dinanzi a scenari economici che sembrano molto accattivanti. L’avvocato, secondo la delibera del CNF del 22 gennaio 2016, potrà anche pubblicizzare la sua attività professionale, ma tenendo sempre ben saldi i principi di verità, trasparenza, correttezza, riservatezza e segretezza.

Per concludere, possiamo dire che ogni mezzo è ammesso, basta che l’utilizzo avvenga nel rispetto dei principi deontologici dell’avvocato. Secondo l’art.24 della direttiva Ce 123/2006, «gli stati membri provvedono affinché le comunicazioni commerciali che emanano delle professioni regolamentate ottemperino alle regole professionali, in conformità del diritto comunitario, riguardanti, in particolare, l’indipendenza, la dignità e l’integrità della professione nonché il segreto professionale, nel rispetto della specificità di ciascuna professione. Le regole professionali in materia di comunicazioni commerciali sono non discriminatorie, giustificate da motivi imperativi di interesse generale e proporzionate».


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Una madre ha ricevuto sulla chat delle mamme un invito ad andare a prendere suo figlio «in fretta» per portalo via da una festa, a causa della sua eccessiva vivacità che l’ha trasformato in un ospite non gradito.

La donna ha reagito scrivendo sui social che, oltre ad essere insensibile e indelicata, la madre che ha scritto questo messaggio punta «ad estorcere qualche soldo per nuove dimore o serate tra banchetti e alcol».

Questa reazione, alla fine, ha ricevuto l’attenzione dei giudici, arrivando ad una condanna, in Corte d’Appello, per diffamazione. Il reato è stato confermato anche dalla Cassazione, che riconosce la tenuità del fatto. Tuttavia, il reato permane.

Il ricorso della madre viene respinto, ma non in termini di punibilità. La guerra tra donne è stata scatenata da un’eccessiva vivacità del figlio dell’imputata ad una festa tra ragazzini. Tale vivacità aveva spinto la padrona di casa a pregare la madre di andare a prenderlo.

L’imputata, nello spiegare il perché della sua reazione eccessiva pubblicata su Facebook, ha spiegato di aver provato un grande panico nel leggere i messaggi dove le veniva intimato di andare a prendere il figlio ma senza avere spiegazioni in merito.

Per la donna, il figlio aveva ricevuto offese, e giustifica la reazione social per una a causa di una grande preoccupazione per la questione. I giudici, tuttavia, non sono affatto d’accordo.

La frase incriminata, infatti, è diffamante, non soltanto per l’accusa di insensibilità e indelicatezza, ma anche per un’ipotetica scorrettezza nella richiesta economica per alcool e banchetti.

Per la Cassazione la condotta della vittima non deve essere considerata ingiusta, «non potendo ritenersi tale l’eventuale richiesta di contenimento della estrema vivacità del figlio dell’imputata, suo ospite, né la richiesta di portarlo via dalla festa che si teneva in casa della vittima, né essendo provato, infine, che costei lo abbia in qualche modo offeso».


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Google e Yahoo bloccheranno le mail

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Dal 1° febbraio 2024 Google e Yahoo introdurranno regole e standard più severi per chiunque invii email VERSO @gmail e @yahoo, allo scopo di proteggere meglio le caselle di posta dallo spam (ovvero l’invio di email non richieste), dal furto di dati personali (il cosiddetto phishing) e dal fenomeno dello spoofing (ossia dalle identità false presenti sul web).

Le nuove regole interesseranno tutti, ma in particolar modo i mittenti di email in blocco. Si tratta di account di posta che in un giorno inviano più di 5.000 mail e che utilizzano le mail per fare campagne di marketing di massa, annunci e newsletter.

È bene sottolineare che, anche chi invia 1000 mail in una giornata, in determinate condizioni potrebbe essere considerato come mittente di email in blocco.

Nuove policy di Gmail e Yahoo

Dunque, dal prossimo 1° febbraio 2024, chiunque utilizzi Gmail, Yahoo, Google Workspace e Googlemail dovrà seguire queste nuove regole. Nel caso dei mittenti di email in blocco, ci saranno requisiti aggiuntivi.

Se non ti adegui a questi nuovi standard, Google e Yahoo potrebbero contrassegnarti come spam, oppure bloccarti e inserirti nella blacklist. Essere contrassegnato come spam potrebbe danneggiare gravemente la tua reputazione e tutti gli invii di mail successivi.

Nello specifico, dovrai cominciare ad utilizzare un dominio personale, e abbandonare un dominio mittente libero come @gmail o @yahoo. Il dominio personale dovrà essere autenticato tramite SPF o DKIM (non ti preoccupare, tra un po’ ti spieghiamo come fare!).

Autenticare il proprio dominio significa creare una specie di carta d’identità digitale, o se vogliamo, una spunta blu dei social: in questo modo i destinatari saranno sicuri che il mittente è realmente chi dice di essere.

Come adeguarsi agli standard entro il 1° febbraio 2024

Nello specifico, tutti i mittenti email dovranno:

  • Autenticare il dominio di invio attraverso l’autenticazione SPF o DKIM;
  • Abilitare la possibilità di disiscrizione semplice, includendo un link ben visibile per annullare l’iscrizione;
  • Restare al di sotto dello 0,3% per quanto riguarda le segnalazioni di spam.

I mittenti di email in blocco, oltre a rispettare i precedenti requisiti, dovranno:

  • Allineare il dominio mittente con il dominio della firma DKIM o con l’envelope sender (SPF);
  • Creare una policy DMARC.

SPF, DKIM e DMARC sono meccanismi che aiutano a rendere le mail più sicure, prevenendo i fenomeni di spoofing e phishing.

Come impostare il record SPF

Da pannello DNS, aggiungere un record SPF come segue:

v=spf1 ip4:192.168.0.0/16 include:_spf.tuogestore.com ~all

Come impostare DKIM

https://support.google.com/a/answer/180504?hl=it#:~:text=Gmail.-,Fai%20clic%20su%20Autentica%20email.,sar%C3%A0%3A%20Autenticazione%20email%20con%20DKIM

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Italawyers è la prima associazione di avvocati italiani che lavorano all’estero. L’associazione ha la sede principale a Londra e nelle scorse settimane è stata presentata a Roma alla Camera dei Deputati.

Lo scopo di Italawyers è quello di diffondere in tutto il mondo la cultura giuridica italiana, affinché si possa incoraggiare la collaborazione internazionale tra i legali che parlano la lingua italiana. L’associazione, infatti, ha stabilito che la lingua italiana è il suo elemento distintivo.

Il presidente di Italawyers è Valeriano Drago, che esercita nel Regno Unito. Alla vicepresidenza troviamo Valentina Saviello, che esercita in Italia, così come il tesoriere Marco Calabrese.

Italawyers nasce nel 2020, durante l’emergenza sanitaria. Si è fatta molto conoscere tramite webinar formativi online, crescendo velocemente nel corso del tempo, tanto che ora la troviamo in più di venti paesi in tutto il mondo.

Dichiara il presidente Drago: «Ogni associato, oltre alla lingua italiana conosce la lingua del posto dove esercita la professione e questo consente occasioni di confronto, collaborazione e di aiuto tra colleghi senza alcuna barriera culturale. I nostri membri sono tutti avvocati o, per dirla nelle lingue locali, solicitor, abogado, rechtsanwalt, avocat à la cour e via dicendo, e ciò consente pertanto un rapporto diretto tra professionisti di diverse aree geografiche, con momenti formativi sui temi giuridici di maggior attualità, approfondimenti con esperti, convegni e altre iniziative in nome dell’italianità».

Tra poco si terrà il quarto meeting internazionale, a Londra, dal 20 al 23 marzo, con un convegno a tema Intelligenza Artificiale e Giustizia, con un incontro tra i legali italiani che esercitano all’estero e la Cassa.

Per la vicepresidente Saviello: «Non possiamo non prendere in considerazione lo sviluppo tecnologico che stiamo vivendo nella vita di tutti i giorni, anche nel nostro ambito questa rivoluzione è sempre più tangibile con l’adozione di tecnologie avanzate che agevolano le pratiche legali internazionali, con la digitalizzazione dei processi e l’uso dell’intelligenza artificiale, fondamentali per rimanere competitivi a livello globale. Forse non siamo ancora pronti per il Metaverso ma ci stiamo attrezzando».


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Nuovo Processo Telematico dal 14 gennaio

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Audio e video entrano definitivamente nel processo civile.

Infatti, secondo le nuove specifiche tecniche, nel PCT e nel PPT saranno ammessi file mp4 e mp3 nei documenti informatici da allegare agli atti. La bozza del provvedimento resterà in consultazione pubblica ancora per un po’ di giorni, prima di entrare ufficialmente in vigore.

La busta telematica, per il momento, può contare su un aumento della dimensione massima sino a 60 megabyte; i file, comunque, dovranno essere spezzettati o compressi per essere allegati agli atti.

La novità si trova all’art. 15 del provvedimento Dgsia. Tra i vari formati ammessi in allegato troviamo video mpeg2 e mpeg4, ovvero mp4, m4v, mov, mpg, avi e mpeg; per quanto riguarda l’audio, ammessi formati mp3, wav, raw, aif e aiff.

In ogni caso, gli allegati dovranno essere sottoscritti con firma digitale o con firma digitale avanzata. I video, con tutta probabilità, dovranno essere zippati, dunque, la firma digitale dovrà essere applicata a seguito della compressione del file.

Fino ad oggi, nel PCT erano ammessi soltanto file con estensione «pdf, odf, rtf, txt, jpg, gif, tiff e xml», determinando in tal modo l’assenza di formati capaci di riprodurre audio e video.

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Martedì 9 gennaio 2024 la Commissione Giustizia del Senato ha terminato l’esame degli emendamenti all’art. 1 del “ddl Nordio”. Nel ddl sono presenti varie modifiche al codice penale, di procedura penale, al codice dell’ordinamento militare e all’ordinamento giudiziario.

Nell’art. 1 è presente la cancellazione dell’articolo 323 del codice penale del reato d’abuso d’ufficio, ovvero il punto principale della riforma Nordio, approvata dal Cdm lo scorso giugno.

Nel corso degli ultimi anni l’abuso d’ufficio è stato spesso oggetto di lamentela da parte di amministratori e sindaci, che ritengono che questa tipologia di reato provoca l’evitamento dell’assunzione delle responsabilità decisionali di qualsiasi tipo, per timore di finire coinvolti in procedimenti di tipo penale.

La paura di inciampare nell’abuso d’ufficio provoca la cosiddetta “paura della firma”, ovvero il timore di assumersi responsabilità.

Secondo l’art. 323 codice penale:

«Il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalle legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di tenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da uno a quattro anni».

Secondo i critici, il reato d’abuso d’ufficio si presta a troppe interpretazioni. Per Nordio, l’abolizione sarebbe giustificata dal fatto che, di fronte ai tanti processi avviati in tema di abuso d’ufficio, i casi che giungono a una condanna sono veramente limitati.

Alfredo Bazoli del PD critica la scelta: «Resteranno così senza sanzioni tante condotte prevaricatrici di pubblici funzionari compiute insieme a singoli cittadini, ed è una cosa per noi inaccettabile. Per risolvere un problema che riguardava gli amministratori locali si interviene con l’accetta e si toglie una norma di sistema che ha una funzione molto importante».


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Dal 4 gennaio scorso, 30 milioni di persone in tutto il mondo navigano online senza dover accettare i cookie. Si tratta dell’1% degli utenti Chrome selezionati da Google per la sperimentazione della nuova funzionalità di Protezione anti-tracciamento.

A partire dalla seconda metà dell’anno, tale funzionalità verrà estesa a tutte le persone che utilizzano Chrome.

Non è difficile capire se siete nell’1% degli utenti sperimentali, visto che dopo il primo accesso si verrà accolti da un pop-up che vi informa del cambiamento. Inoltre, alla fine della barra dell’indirizzo ci sarà un occhio barrato, come “certificazione” che nessuno ci sta spiando (si spera).

Google ha preso questa decisione al fine di tutelare la privacy degli utenti. Spiega l’azienda: «Continuiamo a investire in funzionalità che proteggano i dati delle persone e offrano maggiore controllo sul loro utilizzo». Ovviamente, con questa mossa l’azienda ottiene dei benefici, avendo un maggior controllo sulle informazioni degli utenti e soprattutto del mercato pubblicitario.

Infatti, l’assenza di cookie non vuol dire che nessuno verrà più monitorato. I siti non ci tracceranno più attraverso cookie di terze parti, perché sarà Google stesso a svolgere questa funzione. I dati, tuttavia, non usciranno dal dispositivo utilizzato durante la navigazione.

Google, dunque, sarà in grado di informare (vendere) a inserzionisti e siti gli interessi degli utenti; questi potranno calibrare le pubblicità in base a queste informazioni, ma non potranno risalire alle identità delle persone che visualizzano le inserzioni.

Di certo questa nuova funzione rappresenta un miglioramento, nonostante ci siano browser migliori da questo punto di vista, come Safari, DuckDuckGo e Firefox.

Tutto questo potrebbe portare Google ad assumere il monopolio nel mercato pubblicitario. Secondo la CMA inglese, che corrisponde alla nostra AgCm, lo scopo di Google non è aiutare gli utenti, ma limitare «il tracciamento in modo che venga effettuato solo da un unico potente soggetto, Chrome stesso, che poi può distribuire le sue conoscenze agli inserzionisti disposti a pagare. Questo è solo un altro passo nella trasformazione del browser da agente utente ad agente pubblicitario».


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