Effetto dazi sulle libere professioni: il Nord-Est il più esposto, i giovani meno vulnerabili

ROMA — Le tensioni commerciali tra Stati Uniti e Unione Europea, finora associate alle industrie manifatturiere e all’export tradizionale, iniziano a generare preoccupazione anche nel mondo delle libere professioni. A lanciare l’allarme è l’ultimo rapporto dell’Osservatorio delle libere professioni, realizzato in collaborazione con Confprofessioni, Gestione Professionisti e BeProf, che analizza per la prima volta l’impatto indiretto delle tariffe doganali sui professionisti italiani.

Il cuore dell’analisi è un nuovo strumento: l’Indice di vulnerabilità delle libere professioni ai dazi USA, che misura l’esposizione economica delle attività professionali ai potenziali shock commerciali derivanti dalle dispute doganali transatlantiche. I risultati, secondo gli autori Tommaso Nannicini, Ludovica Zichichi e Camilla Lombardi, sono inequivocabili: alcune categorie professionali sono strettamente interconnesse con le filiere industriali esportatrici e per questo rischiano di pagare un prezzo molto alto in caso di escalation.

Professionisti sotto pressione: i più a rischio

Tra le categorie più vulnerabili figurano le professioni economico-finanziarie (indice 201,5), i consulenti del lavoro (197,5), gli ingegneri (193,8) e i tecnici specializzati (162,1). Figure che, a vario titolo, forniscono servizi di consulenza strategica, supporto tecnologico, gestione del personale e servizi finanziari alle imprese orientate all’export. In un’economia dove le PMI rappresentano il 99,9% del tessuto produttivo nazionale, l’interdipendenza tra imprese e professionisti si rivela cruciale.

Siamo pronti a fare la nostra parte, ma abbiamo bisogno di strumenti adeguati”, avverte Marco Natali, presidente nazionale di Confprofessioni. “Abbiamo colleghi con competenze internazionali, anche negli Stati Uniti, ma servono misure di sostegno, certezze normative e una visione strategica di lungo periodo”.

Nord industriale, Sud più riparato: ma con eccezioni

Lo studio evidenzia forti differenze territoriali. Le regioni a maggiore vocazione industriale, come il Nord-Est (indice 138,4) e il Nord-Ovest (114,6), sono anche quelle più esposte. Il Centro e il Mezzogiorno mostrano valori più contenuti (58,3 e 73,0 rispettivamente), ma alcuni distretti produttivi del Centro-Sud registrano comunque picchi significativi, a testimonianza della crescente integrazione delle professionalità nei processi produttivi.

Età e genere influenzano la vulnerabilità

Interessante anche l’analisi socio-demografica. I professionisti più anziani, nella fascia 55-64 anni, risultano i più vulnerabili (indice 119,4), verosimilmente per la maggiore specializzazione nei settori industriali. I più giovani, invece, presentano un’esposizione minore (56,0), legata a una clientela più frammentata e a settori meno colpiti dai flussi internazionali.

Quanto al genere, gli uomini, prevalenti nelle professioni tecnico-scientifiche e ingegneristiche, mostrano una vulnerabilità significativamente superiore rispetto alle donne, più presenti nei settori legali, culturali e sanitari. La differenza si mantiene anche all’interno delle stesse categorie: ad esempio, tra i commercialisti, l’indice è 106,4 per gli uomini e 69,8 per le donne; tra avvocati e notai, 108,9 contro 44,8. Un divario che riflette modelli strutturali consolidati nella divisione del lavoro professionale.

Verso una risposta coordinata

Lo scenario delineato dallo studio sarà presentato nei prossimi giorni a Governo e Parlamento, con l’obiettivo di orientare politiche industriali e professionali all’altezza delle nuove sfide globali. Tra le proposte: la creazione di una cabina di regia nazionale ed europea, con la partecipazione di istituzioni, associazioni datoriali e sindacati, per pianificare interventi mirati a sostegno dell’intero ecosistema produttivo.

Serve una strategia condivisa, sistemica e lungimirante”, ribadisce Natali. “Le libere professioni possono e devono essere motore di innovazione e competitività per il Paese, ma devono essere messe nelle condizioni di operare. In un contesto segnato da dazi, instabilità geopolitica e transizione energetica, trasformare la crisi in opportunità è possibile solo con visione e strumenti concreti”.


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Conflitti senza fine: cresce il disincanto degli italiani sulla pace in Ucraina e Gaza

ROMA — L’onda lunga della guerra, che attraversa l’Europa orientale e il Medio Oriente, non si limita ai fronti militari. Colpisce anche la percezione collettiva, alimentando scetticismo, impotenza e disillusione. Lo rivela l’ultimo sondaggio realizzato da Only Numbers: più della metà degli italiani (53,3%) ritiene improbabile una fine a breve delle ostilità in Ucraina, mentre un ampio 61,4% non intravede sbocchi diplomatici neppure nel conflitto tra Israele e Hamas. Un quadro che mostra come, nel volgere di pochi mesi, l’ottimismo residuo abbia lasciato il posto a una rassegnata sfiducia.

A marzo 2025, complice anche l’insediamento del presidente Trump negli Stati Uniti, una parte significativa dell’opinione pubblica italiana (41,9%) nutriva ancora speranze di una svolta negoziale rapida. Oggi, quella fiammella si è affievolita. La guerra in Ucraina appare come un conflitto congelato, segnato da trincee stabili, tregue intermittenti e da una diplomazia incapace di imporsi. La percezione generale? Un vicolo cieco geopolitico, con l’Europa spettatrice incerta e le grandi potenze troppo occupate a misurare le rispettive sfere di influenza.

Gaza: la crisi umanitaria che divide meno della politica

Diversa nei contenuti ma simile negli effetti è la visione della crisi in Medio Oriente. Quasi otto italiani su dieci riconoscono nella situazione di Gaza una vera e propria emergenza umanitaria, fatta di bombardamenti sui civili, scarsità di beni primari, fame e immagini drammatiche di bambini feriti. Un’emergenza che ha colpito nel profondo la coscienza collettiva, attraversando trasversalmente ideologie e appartenenze politiche.

Eppure, questa sensibilità non sembra tradursi in fiducia nell’azione internazionale: prevale l’impressione che la comunità globale stia fallendo nel suo compito più urgente, quello di tutelare la vita delle persone e mettere fine alle sofferenze civili. Il blocco diplomatico, l’inefficacia delle risoluzioni e l’assenza di meccanismi vincolanti contribuiscono a generare una crescente frattura tra cittadini e istituzioni sovranazionali.

Disillusione europea: il grande assente nei teatri di crisi

Il malcontento non si rivolge solo alle grandi potenze o agli attori in campo: oltre la metà degli intervistati (50,7%) ritiene che l’Unione europea non stia esercitando alcun ruolo incisivo nei conflitti in corso. Anzi, l’UE appare a molti come una forza politica frammentata, lenta nelle reazioni e incapace di esprimere una voce unica. La conseguenza? Spazio lasciato libero ad altri attori, come Russia, Stati Uniti, Turchia e Iran, mentre l’Europa si relega in un ruolo marginale.

Non si tratta solo di un deficit diplomatico, ma di una crisi di credibilità che mina la percezione stessa del progetto europeo. In un’epoca segnata da guerre ibridi, attacchi alla società civile e narrazioni globali sempre più polarizzate, l’assenza di una leadership chiara e autorevole fa aumentare la distanza tra istituzioni e cittadini.

Il prezzo emotivo della guerra lunga

Ciò che emerge dal sondaggio è anche un affaticamento psicologico, una stanchezza collettiva di fronte a un flusso ininterrotto di immagini di guerra, che ha trasformato lo sdegno in abitudine, e l’indignazione in rassegnazione. I cittadini italiani non sono diventati insensibili, ma faticano a credere che le grandi alleanze internazionali siano davvero in grado di spegnere i conflitti e non solo di amministrarli.

È un sentimento che unisce la stanchezza per l’eterno conflitto ucraino alla frustrazione per l’insostenibile escalation nella Striscia di Gaza. In entrambi i casi, ciò che manca — secondo la maggioranza degli italiani — è una vera leadership globale, capace non solo di proporre soluzioni, ma anche di farle rispettare.

Oltre la sfiducia: un compito per la politica

L’indagine di Only Numbers rivela in fondo un paradosso della nostra epoca: se da un lato cala la fiducia nella politica estera, dall’altro resta viva una forte sensibilità verso le vittime. Gli italiani non hanno smarrito l’empatia, ma chiedono risposte nuove, strumenti più efficaci e soprattutto tempi d’azione compatibili con l’urgenza delle crisi.


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Meloni pronta al sorpasso su Renzi: il governo entra nella top four della longevità

ROMA — La longevità, nel panorama politico italiano, è una conquista rara. Ancora più rara se accompagnata da un rapporto di equilibrio con il Quirinale. Ma è su questi due assi — durata e stabilità istituzionale — che Giorgia Meloni sta costruendo il profilo del suo esecutivo. E ora, con l’avvicinarsi del 12 agosto 2025, è pronta a prendersi un posto d’onore nella storia repubblicana: 1.025 giorni di governo, superando Matteo Renzi e conquistando il quarto posto nella classifica dei governi più longevi dal dopoguerra a oggi.

Una corsa iniziata nell’ottobre 2022, tra diffidenze internazionali e ostacoli interni, che ora si appresta a tagliare un traguardo politico e simbolico. L’ex premier Renzi, fermatosi a 1.024 giorni, verrà superato tra meno di una settimana. E il 20 ottobre, data spartiacque, toccherà a Bettino Craxi cedere il gradino più basso del podio (1.093 giorni con il suo primo governo).

Il vero obiettivo: settembre 2026

Ma l’orizzonte di Giorgia Meloni guarda ben oltre. Se il governo resistesse fino al 4 settembre 2026, la premier toccherebbe quota 1.413 giorni consecutivi a Palazzo Chigi, infrangendo il record assoluto detenuto da Silvio Berlusconi con il suo secondo esecutivo (2001-2005). Berlusconi occupa attualmente sia il primo che il secondo posto della classifica (1.412 e 1.287 giorni). Il podio, insomma, è dominato dalla sua figura, e Meloni punta a inserirsi non solo nei numeri, ma nella memoria politica del Paese.

Tra Palazzo Chigi e Quirinale: l’ombra dei decreti

Se la durata è un dato oggettivo, il rapporto con il Colle è invece più sfumato. E nelle ultime settimane, i rapporti tra il governo e il Quirinale si sono raffreddati, specie sul terreno dei decreti omnibus. Uno su tutti: il decreto Sport, in discussione oggi in Senato. Il presidente della Repubblica ha sollevato perplessità su alcune norme, in particolare quelle che riguardano la gestione dei grandi eventi. Ma l’esecutivo ha scelto di non modificare il testo, aprendo la strada a un passaggio formale ma significativo: la possibile firma con rilievi allegati da parte del Capo dello Stato, indirizzati alla premier e ai presidenti delle Camere.

Un gesto che rientra nella prassi costituzionale, ma che segnala un’incrinatura nei toni, già percepita in occasione di precedenti tensioni su norme ritenute troppo generiche o estranee all’urgenza.

Una stabilità politica che non significa immobilismo

Nonostante ciò, il governo Meloni si mostra compatto e determinato, con una maggioranza parlamentare solida e pochi scricchiolii visibili. Nessuna scissione interna di rilievo, nessun rimpasto destabilizzante, e un’agenda che ha attraversato senza scosse tre leggi di bilancio e diverse riforme strutturali, dalla giustizia alla pubblica amministrazione.

Questa continuità, in un Paese abituato ai governi-lampo, rappresenta un’anomalia positiva per chi osserva l’Italia dall’estero. Ma all’interno, non mancano critiche e pressioni, soprattutto su temi come l’inflazione, il costo della vita, il rapporto con l’Unione europea e il rispetto degli impegni del PNRR.

Il fattore Meloni

Al centro di questa tenuta c’è lei, la premier, che ha saputo mantenere un profilo di comando solido, evitando scivoloni e rafforzando la propria leadership all’interno di Fratelli d’Italia e della coalizione di centrodestra. Il sorpasso su Renzi non è solo numerico: rappresenta anche un punto fermo nella narrazione di un governo che, a dispetto degli allarmi iniziali, ha trovato una sua formula di sopravvivenza.


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Fondi Ue nel mirino: 11,3 miliardi sotto controllo. Così le finte imprese rosa e i progetti riciclati truffano il PNRR

Nel grande cantiere della ripresa post-pandemica, alimentato dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), c’è chi lavora, chi innova — e chi truffa. A gettare luce sulle ombre che si annidano tra bandi e contributi è la Guardia di Finanza, che negli ultimi 18 mesi ha effettuato circa 15mila controlli su finanziamenti pubblici e progetti agevolati per un valore complessivo di 11,3 miliardi di euro. Il bilancio? Frodi sofisticate, spesso travestite da buone pratiche: aziende femminili solo sulla carta, start-up innovative che non innovano affatto, e un fitto sistema di società di comodo, conti esteri e prestanome.

Imprese “rosa” solo sulla carta

Una delle truffe più ricorrenti riguarda l’accesso al Fondo impresa femminile, pensato per favorire la parità di genere e l’imprenditorialità delle donne. In apparenza un cambio epocale, nella sostanza una farsa: aziende a gestione maschile che, poco prima della scadenza dei bandi, nominano donne della famiglia come rappresentanti legali — spesso ignare, talvolta compiacenti. Mogli, figlie, sorelle improvvisamente catapultate alla guida di società che continuano ad essere dirette, nella realtà, dai vecchi amministratori.

Le verifiche del Nucleo Speciale Spesa Pubblica e Repressione Frodi Comunitarie mostrano uno schema costante: nomi femminili inseriti al momento giusto, variazioni lampo nei registri camerali, e nessun reale cambiamento nella conduzione aziendale. Una parità apparente che viola i requisiti sostanziali dei finanziamenti e svilisce le vere imprenditrici.

Progetti riciclati, innovazione solo nel titolo

Accanto al fenomeno delle “imprese rosa”, emerge un secondo filone di irregolarità: progetti vecchi spacciati per nuove idee. Le società coinvolte ripropongono attività già avviate anni prima, modificate quanto basta per sembrare start-up innovative. Vecchie pratiche, nuove etichette. Un maquillage ben studiato per scalare le graduatorie dei finanziamenti destinati all’innovazione.

Non mancano poi i casi di fatture gonfiate, emesse da aziende prive di dipendenti o di sede operativa reale, e flussi di denaro che prendono direzione estera, per essere prelevati in contanti o fatti transitare attraverso società di comodo, aggirando ogni controllo. Un labirinto di simulazioni contabili e giuridiche, costruito per saccheggiare fondi pubblici travestiti da opportunità di rilancio.

L’allarme della Procura europea e il rischio sistemico

I settori sotto osservazione sono trasversali: infrastrutture, sanità, digitalizzazione, formazione, pubblica amministrazione. Un’attenzione particolare è riservata dalla Procura europea (EPPO) ai progetti che ricevono fondi PNRR e risorse europee strutturali, per il potenziale impatto transfrontaliero delle frodi e per l’effetto distorsivo su concorrenza e legalità.

Il timore è che questi comportamenti minino la credibilità del sistema dei controlli e danneggino l’accesso ai futuri finanziamenti. Ogni euro sottratto al circuito virtuoso dello sviluppo significa un’opportunità mancata per il Paese reale, quello che crea valore, lavoro e inclusione.

I controlli continuano. Serve anche un cambio culturale

Il lavoro della Guardia di Finanza, in sinergia con la magistratura contabile e le autorità europee, prosegue senza sosta. Ma il contrasto alle frodi richiede anche una nuova consapevolezza da parte delle amministrazioni pubbliche e della società civile: non basta verificare i documenti, bisogna valutare i contenuti reali di ogni progetto, e premiare chi opera con trasparenza e competenza.


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Scudo penale e incentivi per i medici: il governo prova a fermare l’emorragia dagli ospedali pubblici

ROMA – Difendere i medici, semplificare il lavoro in corsia, e fermare l’emorragia di professionisti dal Servizio sanitario nazionale. Sono questi gli obiettivi centrali del disegno di legge delega firmato dal ministro della Salute, Orazio Schillaci, che approda oggi in Consiglio dei ministri. Un provvedimento atteso da anni, che punta a trasformare in norma stabile uno scudo penale già applicato in forma temporanea: la non punibilità del personale sanitario per lesioni o morte del paziente, salvo i casi di colpa grave.

Una misura che ha lo scopo di contenere il dilagare della medicina difensiva, ovvero quella prassi per cui i medici, nel timore di denunce e richieste di risarcimento, prescrivono una quantità eccessiva di analisi, esami e accertamenti spesso inutili. Una strategia di autotutela che, nel tempo, ha contribuito ad allungare le liste d’attesa e a far lievitare i costi a carico del sistema sanitario pubblico.

Ventimila denunce l’anno, poche le condanne

Secondo i dati più volte diffusi dalle associazioni di categoria, ogni anno in Italia vengono sporte circa 20.000 denunce penali nei confronti dei medici, ma solo una percentuale minima sfocia in condanne effettive. Una sproporzione che affatica il lavoro delle procure e, allo stesso tempo, genera un clima di sfiducia e paura tra i professionisti della salute. Da qui l’esigenza, condivisa anche da molte società scientifiche, di rendere strutturale uno scudo penale che limiti la responsabilità penale ai soli casi di grave negligenza.

Più tutele anche sul fronte civile

Il disegno di legge interviene anche sul versante delle cause civili e delle richieste di risarcimento danni, prevedendo una clausola di esclusione della responsabilità sia per le strutture sanitarie che per i singoli operatori, a condizione che la prestazione sanitaria sia stata erogata seguendo linee guida accreditate o buone pratiche clinico-assistenziali, purché adeguate al caso specifico.

Nel dettaglio, il comma 3-bis dell’articolo 8 prevede che «la responsabilità civile della struttura sanitaria, pubblica o privata, e dell’esercente la professione sanitaria è esclusa se la prestazione è stata eseguita in conformità alle raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate o alle buone pratiche clinico-assistenziali». Un riferimento normativo chiaro che mira a restituire certezza giuridica a chi opera in trincea.

Incentivi, organici e dignità del lavoro sanitario

Ma il Ddl non si ferma alla dimensione giuridica. Nel pacchetto di misure annunciate, il governo intende impegnarsi anche sul fronte degli organici e del miglioramento delle condizioni di lavoro per i camici bianchi del settore pubblico. Una strategia necessaria per arginare la fuga di personale verso il privato o verso l’estero, fenomeno che negli ultimi anni ha assunto proporzioni allarmanti.

L’obiettivo dichiarato del ministro Schillaci è quello di ridare dignità alla professione medica, anche attraverso una semplificazione burocratica, una maggiore protezione legale e una valorizzazione economica e professionale dei ruoli chiave della sanità pubblica.

Verso un nuovo equilibrio tra tutela e responsabilità

Il disegno di legge rappresenta, nelle intenzioni dell’esecutivo, un primo passo verso un nuovo equilibrio tra la tutela dei pazienti e la salvaguardia di chi li cura. «Non possiamo più permettere che il timore di una denuncia paralizzi la capacità di diagnosi e decisione clinica dei nostri medici», ha dichiarato Schillaci nei giorni scorsi.


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WhatsApp sul lavoro? No senza consenso

L’uso disinvolto delle chat aziendali può costare caro. In Spagna, il Garante per la protezione dei dati ha multato un’azienda per violazione del Regolamento Ue 2016/679 (GDPR): 42 mila euro la sanzione per aver aggiunto, senza consenso, il numero personale di un dipendente a un gruppo WhatsApp interno all’azienda. Una decisione, quella resa pubblica il 2 giugno 2025 (caso EXP202310848), che rappresenta un precedente significativo per l’intera Unione europea — Italia inclusa.

Il caso: un gruppo WhatsApp aziendale “forzato”

La vicenda ha coinvolto un lavoratore che, pur avendo esplicitamente manifestato il proprio dissenso, si è visto inserire dal datore di lavoro in un gruppo WhatsApp aziendale. Nonostante le ripetute richieste di fornire un dispositivo di servizio per gestire le comunicazioni lavorative, l’azienda ha ignorato le rimostranze e ha continuato a utilizzare il numero personale del dipendente.

L’uso di strumenti di messaggistica istantanea, secondo l’Autorità spagnola, va ben oltre l’ambito della comunicazione informale: “sono nati per scopi personali e sociali, non per essere imposti nei rapporti gerarchici lavorativi”, ha chiarito il Garante. La decisione ricalca i principi fondamentali del GDPR, che protegge anche dati apparentemente semplici, come un numero di cellulare, quando associati a un’identità precisa.

Difese respinte: interesse aziendale non basta

L’azienda ha tentato una difesa articolata, invocando un presunto “interesse legittimo” legato alla necessità di garantire la continuità operativa del servizio. Ma per il Garante questo non giustifica la compressione del diritto alla riservatezza del lavoratore, specialmente in assenza di consenso e di strumenti alternativi, come un cellulare aziendale.

Anche l’argomento secondo cui il gruppo WhatsApp fosse composto solo da colleghi interni non è stato accolto: “le violazioni della privacy possono avvenire anche all’interno di un’organizzazione, senza coinvolgimento di terzi esterni”, si legge nel provvedimento. Non ha convinto neppure il tentativo di ridimensionare la portata del trattamento, definendolo “limitato a dati di minima entità”: nel GDPR non esistono dati “trascurabili”.

Il ravvedimento operoso salva (in parte) l’azienda

A sanzione ormai irrogata, l’azienda ha cercato di correre ai ripari. Ha adottato un regolamento interno che limita l’uso di WhatsApp esclusivamente a dispositivi aziendali forniti dal datore di lavoro, correggendo di fatto la prassi precedente. Un comportamento collaborativo che ha consentito di ridurre la multa da 70 mila a 42 mila euro.

Il Garante ha riconosciuto la buona fede nel ravvedimento e l’avvenuto pagamento tempestivo come elementi attenuanti, ma ha ribadito un principio fondamentale: l’utilizzo di canali personali per fini aziendali non può essere imposto unilateralmente, e ogni trattamento di dati deve rispettare i criteri di liceità, necessità e proporzionalità previsti dal GDPR.

Un monito per l’Europa (e per l’Italia)

Questo provvedimento rappresenta un campanello d’allarme per tutte le imprese europee, in particolare per quelle realtà, pubbliche e private, dove strumenti informali come WhatsApp vengono impiegati in modo strutturale e non regolamentato. Il GDPR è direttamente applicabile in tutti gli Stati membri e l’Italia, che condivide molte delle dinamiche evidenziate nel caso spagnolo, potrebbe presto vedere pronunce simili da parte del Garante italiano.

L’era della comunicazione istantanea impone nuove regole e responsabilità: la comodità non può prevalere sulla tutela dei diritti fondamentali. E un numero di cellulare, oggi, è molto più che un contatto: è un dato personale da trattare con rispetto.


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Tajani rilancia la ricetta berlusconiana: «Flat tax al 24% per salvare il ceto medio»

Reggio Calabria diventa il cuore pulsante del nuovo corso economico di Forza Italia. Durante gli Stati Generali del Mezzogiorno, il vicepremier Antonio Tajani ha delineato con chiarezza le priorità fiscali del suo partito: una flat tax al 24% e una decisa riduzione delle aliquote Irpef. Un progetto ispirato all’economia liberale, che affonda le radici nella visione storica di Silvio Berlusconi. «Meno tasse deve essere il nostro mantra», ha scandito Tajani, rilanciando l’idea di abbassare l’aliquota dal 35% al 33% per i redditi fino a 60mila euro. L’obiettivo dichiarato: tutelare il ceto medio e stimolare la crescita economica.

Secondo il leader azzurro, il fisco italiano è ancora troppo pesante per famiglie e imprese. «La riduzione della pressione fiscale è una priorità assoluta. Se non agiamo, il ceto medio rischia di scivolare verso la povertà», ha avvertito. Per accompagnare la riforma fiscale, Tajani propone anche interventi concreti sul mondo del lavoro: decontribuzione per chi guadagna meno di 9 euro l’ora e detassazione per straordinari, festivi e premi di produzione. «Serve un progetto chiaro e coerente, poi penseremo alle coperture», ha chiarito.

Ma mentre Forza Italia sogna un fisco più leggero, si acuisce la frattura con la Lega. A dividere ancora una volta i due partiti è la proposta di tassare gli extraprofitti bancari, rilanciata da Matteo Salvini. Se il Carroccio invoca una redistribuzione “giusta” dei guadagni record delle banche, Tajani mette le mani avanti: «Sono contrario a qualsiasi aumento di tasse. Non possiamo cedere all’odio sociale né partire con un assalto alla diligenza».

Il vicepremier azzurro si dice preoccupato per le possibili ripercussioni su piccoli commercianti e artigiani: «Chi erogherebbe il credito se colpissimo le banche popolari o le cooperative di credito? Distruggere questo sistema significa minare l’intera economia del Paese». Una posizione che risuona con le recenti parole del presidente dell’ABI, Antonio Patuelli, secondo cui la solidità del sistema bancario italiano, pur gravato da un’imposizione fiscale crescente, resta essenziale per la tenuta sociale ed economica.

Eppure la Lega non arretra: «Le banche raccolgono allo 0 virgola e prestano al 5, 6, 7%. È giusto che una parte di questi extraprofitti venga redistribuita», ribadiscono fonti del partito di via Bellerio. Dati alla mano, secondo Unimpresa nel solo 2024 gli istituti di credito italiani hanno incassato 46,5 miliardi di euro di utili netti, versando 11,2 miliardi al fisco – con un tax rate effettivo del 24,2%. Una percentuale che, paradossalmente, coincide proprio con la flat tax auspicata da Tajani.

Oltre alla fiscalità, Forza Italia punta i riflettori anche sulla giustizia. Dalla Calabria, il leader del partito annuncia che da settembre ripartirà il cammino per la riforma del processo civile: «È troppo lento e inefficiente. La democrazia si regge sull’equilibrio dei poteri, e la giustizia è un pilastro essenziale».

In vista di un autunno che si preannuncia denso di sfide, Forza Italia scommette su una linea economica identitaria, liberale e centrata sul rilancio del ceto medio. Ma le crepe nella maggioranza cominciano a farsi sentire, e la battaglia sulle tasse — tra chi vuole ridurre e chi redistribuire — rischia di diventare il vero banco di prova per la tenuta del governo.


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Dazi: ci costano quanto il Ponte di Messina

In attesa che venga ufficializzata la lista dei prodotti esentati dai dazi che scatteranno il prossimo 7 agosto, secondo una stima elaborata dall’Ufficio studi della CGIA, l’applicazione dell’aliquota al 15 per cento decisa domenica scorsa in Scozia tra i presidenti Trump e von der Leyen dovrebbe causare all’Italia un danno, almeno nel breve termine, tra i 14/15 miliardi di euro all’anno. Un importo che, in linea di massima, corrisponde al costo che nei prossimi anni sosterrà il nostro bilancio statale per realizzare la più grande opera pubblica di sempre: vale a dire il ponte sullo Stretto di Messina.

Un danno, quello causato dalle politiche protezionistiche statunitensi, che, secondo la stima della CGIA, racchiude sia gli effetti diretti (mancate esportazioni), sia quelli indiretti (riduzione margine di profitto delle imprese che continueranno a vendere nel mercato USA, costo delle misure di sostegno al reddito degli addetti italiani che perderanno il posto di lavoro, trasferimento delle imprese o di una parte delle produzioni verso gli USA, il trade diversion[1], etc.). Oltre a queste due fattispecie è stata tenuta in considerazione anche quella congiunturale (legata alla svalutazione del dollaro nei confronti dell’euro[2]).

  • Fiduciosi sulla tenuta del “made in Italy”

Sebbene nel 2024 rispetto al 2023 ci sia stata una contrazione delle vendite verso gli USA del 3,6 per cento (in termini monetari pari a -2,4 miliardi di euro), l’Italia ha una forte vocazione all’export verso gli Stati Uniti (l’anno scorso la dimensione economica è stata pari a 64,7 miliardi). Tuttavia gli effetti dei dazi al 15 per cento, dovranno “misurarsi” anche con i seguenti interrogativi:

  1. a) i consumatori e le imprese statunitensi sostituiranno i beni finali e intermedi italiani con quelli autoctoni o di altri Paesi, oppure continueranno ad acquistare prodotti Made in Italy?
  2. b) a seguito delle nuove barriere doganali, le imprese esportatrici italiane riusciranno a non aumentare i prezzi di vendita negli USA, rinunciando a una parte dei margini di profitto?

Sono domande a cui non è per nulla facile dare risposte. Tuttavia, la Banca d’Italia ricorda che il 43 per cento delle nostre esportazioni verso gli Stati Uniti sono costituite da prodotti di qualità alta e un altro 49 per cento di qualità media[3]: pertanto il 92 per cento delle nostre merci acquistate oltre Oceano sono di alta gamma. Sono prodotti che, verosimilmente, sono destinati a clienti (persone fisiche o imprese) ad elevato reddito che potrebbero rimanere indifferenti ad un aumento del prezzo causato dall’introduzione di nuove barriere doganali. In merito al secondo interrogativo, invece, i ricercatori di via Nazionale segnalano che il potenziale calo della domanda statunitense legato all’incremento dei prezzi dei prodotti finali potrebbe essere assorbito dalle nostre imprese attraverso una contrazione dei propri margini di profitto. A tal proposito va segnalato che le aziende italiane che esportano negli USA presentano una incidenza delle vendite in questo mercato “solo” del 5,5 per cento del fatturato totale, mentre il margine operativo lordo[4] è mediamente pari al 10 per cento dei ricavi. In altre parole, sono poco esposte verso il mercato statunitense ed una eventuale “chiusura” di questo mercato inciderebbe relativamente. Inoltre, queste realtà produttive hanno mediamente buoni margini per ridurre il prezzo finale dei propri beni da vendere negli States, compensando, almeno in parte, gli aumenti provocati dall’introduzione delle barriere doganali. Ovvio che potrebbero verificarsi delle situazioni molto più gravi di quelle appena descritte, se le politiche protezionistiche di Trump dovessero provocare un’ulteriore svalutazione del dollaro, innescando delle contromisure in grado di provocare una caduta della domanda globale e dei mercati finanziari.

[1] In un mondo in cui una grande economia impone dazi quasi a tutti, gli altri esportatori di tutti i paesi colpiti cercheranno nuovi sbocchi per compensare le perdite subite sul mercato USA. Questo fenomeno è noto come deviazione del commercio (per l’appunto trade diversion).

[2] Nei primi sette mesi del 2025 il deprezzamento è stato del 10,5 per cento.

[3] Bollettino Economico, Numero 2/2025 Aprile.

[4] E’ il valore della produzione al netto degli acquisti netti di materie prime, dei costi per servizi e godimento di beni terzi e del costo del lavoro, a cui va aggiunta la variazione delle scorte di materie prime.


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Caiazza: «Inchieste al posto delle urne, la politica è ridotta a farsa»

«Non è più tragedia, è avanspettacolo». Con queste parole Giandomenico Caiazza, già presidente dell’Unione Nazionale delle Camere Penali, interviene nel dibattito sulle inchieste giudiziarie che sistematicamente si abbattono sui candidati politici all’indomani dell’annuncio delle loro candidature.

Dal caso delle Marche a quelli di Genova, Bari, Milano, Caiazza denuncia un copione che si ripete da anni, con l’iniziativa giudiziaria che prende il posto del confronto elettorale. «Puntualmente – afferma – lo scontro democratico viene sostituito da un’indagine penale, che costringe il candidato a una duplice ordalia: da un lato l’interrogatorio-fiume di cinque ore in Procura, dall’altro il giudizio del suo potenziale alleato politico».

La farsa dell’autogiustizia di partito

Il riferimento è anche alla pratica, sempre più diffusa, per cui gli alleati politici, invece di attendere gli esiti della giustizia, pretendono di leggere gli atti dell’inchiesta e di pronunciarsi in conferenza stampa, con tanto di “sentenza” anticipata di assoluzione morale. «È una rappresentazione surreale – aggiunge Caiazza – dove tutti i protagonisti si mostrano ilari ed emozionati per il lieto fine, ma sembrano ignari di star celebrando il funerale della politica».

Un allarme per la democrazia

L’ex presidente delle Camere Penali sottolinea come questa deriva rischi di minare le basi stesse della democrazia rappresentativa, con la magistratura che di fatto interviene nel gioco politico e l’opinione pubblica trasformata in giuria sommaria. Un sistema che, per Caiazza, ha smarrito il senso del diritto e della responsabilità politica, in favore di una sceneggiatura giudiziaria in cui la verità processuale è sostituita dal clamore mediatico.


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Prezzi in salita nel carrello, inflazione stabile a luglio: cresce il peso sugli acquisti quotidiani

L’inflazione rallenta, ma non per chi fa la spesa. I dati preliminari dell’Istat relativi a luglio fotografano una dinamica complessa: l’indice generale dei prezzi al consumo resta stabile all’1,7% su base annua, ma il “carrello della spesa” rincara, con un incremento del 3,4%, in accelerazione rispetto al +2,8% di giugno.

Il carrello, che include alimentari, beni per la casa e la persona, riflette l’andamento di quei prodotti a più alta frequenza d’acquisto – cioè quelli che incidono maggiormente sul bilancio familiare – che a luglio registrano un aumento del 2,3%.

Alimentari e trasporti spingono verso l’alto

Nel dettaglio, a preoccupare sono soprattutto i generi alimentari, in particolare quelli non lavorati, che crescono del 5,1% rispetto al +4,2% del mese precedente. Anche i trasformati segnano un aumento (+3,1% da +2,7%), mentre tra i servizi si evidenziano rincari nei trasporti (+3,4%) e nei servizi vari (+2,2%).

L’inflazione “di fondo”, depurata dagli effetti dei beni energetici e degli alimentari freschi, resta ferma al +2,0%, ma il disagio percepito dalle famiglie cresce a causa dei rincari concentrati proprio su ciò che si consuma quotidianamente.

Energia in calo, ma non basta

L’unica nota positiva arriva dai beni energetici, i cui prezzi continuano a calare. Quelli non regolamentati segnano una flessione del -5,8% (da -4,2%), mentre quelli regolamentati scendono dal +22,6% di giugno al +16,7%. Un raffreddamento che però non basta a bilanciare il rincaro generalizzato dei consumi primari.

Anche i servizi ricreativi, culturali e per la cura della persona rallentano, passando dal +3,2% al +2,6%. Tuttavia, la variazione mensile dell’indice generale (+0,4%) è spinta soprattutto dai rincari nei trasporti (+1,0%), energetici non regolamentati (+1,6%) e alimentari lavorati (+0,5%).

Lavoro: più occupati, ma crescono gli inattivi

Parallelamente, il mercato del lavoro mostra segnali contrastanti. A giugno, gli occupati aumentano di 16mila unità rispetto a maggio, raggiungendo quota 24 milioni e 326mila, con una spinta trainata principalmente dagli over 50. Il tasso di disoccupazione scende al 6,3% (-0,3 punti), ma crescono gli inattivi, con 69mila persone in più fuori dal mercato del lavoro.

La lettura degli economisti

«È vero che i prezzi del carrello stanno correndo, ma il dato da osservare resta l’inflazione generale, che si mantiene su livelli bassi rispetto agli anni del picco post-Covid», spiega l’economista Fedele De Novellis, partner di Ref-Ricerche. Una dinamica che resta sotto controllo, ma che pesa in modo diseguale sui diversi segmenti sociali, colpendo più duramente le famiglie a basso reddito.


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