Demolizione immobile abusivo: le condizioni di salute non fermano l’ordine definitivo

Le esigenze abitative, anche legate a gravi problemi di salute, non possono cancellare un ordine di demolizione di un immobile abusivo, se non nei rari casi tassativamente previsti dalla legge. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 23457, depositata il 24 giugno 2025, accogliendo il ricorso della Procura di Napoli e annullando la decisione di un tribunale che aveva bloccato la demolizione di una casa in cui viveva una ragazza affetta da autismo.

Secondo la Suprema Corte, il principio di proporzionalità può semmai influire solo sulla fase esecutiva dell’ordine — ad esempio consentendo una proroga temporanea — ma non giustifica l’eliminazione della misura definitiva, che resta obbligatoria una volta pronunciata con sentenza passata in giudicato. La decisione sottolinea inoltre che il diritto all’abitazione, pur garantito, deve essere bilanciato con altri valori di pari rango, come il rispetto della legalità urbanistica e la tutela del territorio.

Nel caso specifico, a fronte della gravissima situazione clinica della figlia della proprietaria, il tribunale aveva revocato l’ordine di demolizione, considerando la difficoltà di trovare una sistemazione alternativa. Ma per la Cassazione questa valutazione è in contrasto con il quadro normativo vigente: le condizioni personali, pur rilevanti, non possono da sole giustificare la cancellazione di un provvedimento previsto dalla legge.

La Corte ha ricordato che l’unica possibilità di revoca definitiva di un ordine di demolizione risiede nell’adozione di provvedimenti amministrativi incompatibili, come una sanatoria edilizia o la destinazione a uso pubblico dell’immobile, previsti dall’articolo 31 del Testo unico edilizia. La recente modifica normativa del 2024, che consente di ottenere una proroga fino a 240 giorni per comprovate esigenze di salute, riguarda solo i termini di esecuzione, senza incidere sulla validità dell’ordine stesso.

Infine, i giudici di legittimità hanno precisato che l’intervento del principio di proporzionalità deve avvenire con criteri rigorosi: si valuta caso per caso l’abitualità della residenza, la consapevolezza dell’abuso, la gravità dell’illecito edilizio e il tempo trascorso dall’accertamento. Ma nessuno di questi elementi, da solo, può rendere nullo un ordine di demolizione definitivo.


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Arresto provvisorio su segnalazione Interpol: senza richiesta entro 60 giorni scatta la liberazione

Gli arresti provvisori eseguiti in Italia su segnalazione Interpol non possono protrarsi oltre i 60 giorni se, entro tale termine, non arriva alle autorità italiane una formale e completa richiesta di estradizione da parte dello Stato estero interessato. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 23490/2025, confermando che la sola segnalazione internazionale non è sufficiente a giustificare la permanenza della misura cautelare.

Il caso riguardava un cittadino arrestato su segnalazione delle autorità messicane attraverso il canale Interpol. Tuttavia, nei 60 giorni successivi all’arresto, nessuna richiesta ufficiale e conforme alle previsioni del Trattato di estradizione tra Italia e Messico era stata inviata al Ministero della Giustizia italiano. Solo una comunicazione dell’ambasciata messicana, che annunciava l’intenzione di inoltrare la documentazione necessaria, era pervenuta, senza però soddisfare i requisiti formali e sostanziali previsti dalle convenzioni internazionali applicabili.

Secondo la Suprema Corte, una semplice comunicazione diplomatica non può sostituire la richiesta ufficiale, che deve contenere tutti gli elementi prescritti dal trattato internazionale di riferimento per essere considerata valida e idonea a giustificare il prolungamento della misura cautelare personale.

La decisione della Cassazione ribadisce così un principio fondamentale in materia di cooperazione giudiziaria internazionale: le misure restrittive della libertà personale, adottate in via provvisoria in attesa di estradizione, devono essere sempre sorrette da atti formali completi e trasmessi tempestivamente, nel rispetto dei termini fissati dagli accordi internazionali. In mancanza di tali presupposti, la misura decade e l’arrestato va rimesso in libertà.


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Post sui social e chat private: niente licenziamento senza regole chiare

Non è lecito per un datore di lavoro utilizzare post pubblicati dal dipendente sul proprio profilo social personale, né conversazioni avvenute su app di messaggistica, come motivo per un licenziamento disciplinare. È quanto ha stabilito il Garante per la protezione dei dati personali con un’ingiunzione emanata lo scorso 21 maggio (n. 288), sanzionando un’azienda con una multa da 420 mila euro.

Al centro della vicenda, la decisione di una società di interrompere il rapporto con un proprio dipendente sulla base di contenuti condivisi in ambienti digitali ritenuti privati. Il datore di lavoro aveva tentato di difendersi sostenendo di aver ricevuto i post e i messaggi da terzi e di non averli cercati attivamente, contestando inoltre la violazione della social media policy aziendale da parte del lavoratore.

Ma per il Garante questo non basta: una volta accertato il carattere privato di post e conversazioni — soprattutto se diffusi in ambienti a accesso limitato — il datore di lavoro non può farne uso per fini disciplinari. “Non è sufficiente che un contenuto sia tecnicamente accessibile online per poter essere utilizzato liberamente,” si legge nel provvedimento. La libertà di espressione del dipendente, tuttavia, non è assoluta: resta comunque soggetta al rispetto della reputazione aziendale, ai doveri di fedeltà e alla correttezza nell’esecuzione del rapporto di lavoro.

Il tema rimane delicato, soprattutto nel pubblico impiego, dove il codice di condotta (DPR 62/2013) consente di valutare anche comportamenti extralavorativi ai fini disciplinari. Ma, chiarisce il Garante, occorre sempre una cornice normativa specifica e rispettosa della privacy.

Non è l’unico intervento recente sul fronte dei diritti digitali sul lavoro. Con un altro provvedimento del 27 marzo (n.167), il Garante ha vietato l’uso delle impronte digitali per la rilevazione delle presenze e la prevenzione di atti vandalici, infliggendo una sanzione di 4 mila euro a un datore di lavoro. Neppure il consenso del lavoratore è ritenuto sufficiente a legittimare il trattamento di dati biometrici, in assenza di una norma specifica.

Infine, in tema di marketing, l’Autorità ha imposto (prov. n. 330 del 4/6/ 2025) l’obbligo del sistema di double opt-in per l’invio di e-mail promozionali, ribadendo che, anche in mancanza di una norma esplicita, i principi generali impongono una tutela rafforzata del consenso degli utenti. Una scelta che ha già portato a sanzioni, come quella da 45 mila euro inflitta a un’azienda per aver inviato comunicazioni pubblicitarie senza le dovute conferme.


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Meta vince in tribunale, ma il copyright nell’era dell’IA resta un terreno minato

Meta segna un punto a favore nell’acceso dibattito tra intelligenza artificiale e diritti d’autore. Un giudice federale degli Stati Uniti ha respinto una causa intentata da un gruppo di autori, che accusavano il colosso tecnologico di aver utilizzato le loro opere senza autorizzazione per addestrare il modello linguistico “Llama”.

La decisione è arrivata dalla Corte distrettuale di San Francisco, dove il giudice ha stabilito che gli scrittori ricorrenti non sono riusciti a sostenere adeguatamente le proprie tesi e a fornire le prove necessarie. Tuttavia, il magistrato ha voluto chiarire che il pronunciamento riguarda esclusivamente le modalità e le lacune della causa presentata, senza con ciò legittimare in via generale l’utilizzo di materiale protetto da copyright nei processi di addestramento dei sistemi di IA.

Una precisazione importante in un contesto giudiziario che si sta rapidamente popolando di procedimenti simili. Qualche giorno prima, un’altra sentenza dello stesso tribunale aveva assolto la società Anthropic dall’accusa di aver violato il copyright addestrando il chatbot “Claude” su libri protetti. In quel caso, il procedimento era stato ritenuto “trasformativo” al punto da non configurare una violazione, anche se resta in piedi un’accusa distinta per l’illecita acquisizione di quei contenuti da siti pirata.

Chhabria ha criticato questa impostazione, osservando come si sia forse attribuito troppo peso al carattere trasformativo dell’uso dell’intelligenza artificiale, trascurando il rischio concreto di un danno al mercato delle opere originali. “È difficile immaginare — ha scritto il giudice — che possa essere considerato uso corretto prendere libri coperti da copyright per costruire strumenti in grado di generare miliardi di dollari e un flusso virtualmente infinito di opere concorrenti, capaci di compromettere il mercato di quei libri”.

Il caso evidenzia un nodo centrale nel rapporto tra creatività e nuove tecnologie: i grandi modelli di intelligenza artificiale hanno bisogno di enormi volumi di dati per perfezionarsi, ma sempre più musicisti, scrittori, artisti e testate giornalistiche denunciano di vedere le proprie opere saccheggiate senza consenso né compenso.


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Proprietà esclusiva e parti comuni in condominio: chiarimenti dalla Cassazione

Un’importante pronuncia della Corte di Cassazione interviene a chiarire i confini tra proprietà esclusiva e parti comuni negli edifici condominiali. Con la sentenza n. 16622/2025, i giudici di legittimità hanno respinto il ricorso di alcuni condomini che rivendicavano la piena proprietà di una porzione di lastrico solare, comprendente anche gli spazi lasciati liberi sulla verticale del fabbricato per la possibile installazione di un ascensore, nonostante questo non fosse mai stato realizzato.

Il caso: lastrico venduto per edificare, ma con aree libere non utilizzabili

La vicenda riguardava un edificio costruito in più fasi, dove ai vari acquirenti erano stati ceduti i lastrici solari allo stato grezzo, con il diritto di edificare sopra di essi la propria abitazione. In assenza di precise indicazioni contrattuali circa la destinazione degli spazi non edificati, alcuni condomini avevano rivendicato come propria anche la parte di colonna d’aria rimasta libera per consentire l’eventuale posa di un vano ascensore.

A sostegno della loro pretesa, i ricorrenti avevano sottolineato il fatto che nessun ascensore fosse stato mai installato e che, secondo la planimetria originaria, quella porzione risultava annessa al lastrico acquistato.

La decisione della Cassazione: prevale la funzione comune degli spazi

La Suprema Corte ha tuttavia rigettato le istanze, affermando che, in simili situazioni, l’individuazione della proprietà esclusiva e delle parti comuni deve fondarsi non solo sul contenuto dei contratti, ma anche sul bene così come effettivamente realizzato. Nel caso specifico, ha rilevato la Corte, tutti gli acquirenti, dopo aver edificato il proprio appartamento, avevano annotato catastalmente la presenza del vano ascensore, riconoscendo di fatto la destinazione comune di quello spazio.

Nemmeno l’assenza dell’ascensore è elemento decisivo, ha puntualizzato la Corte, poiché ciò che conta è la funzione strutturale e potenziale dell’area rispetto all’intero fabbricato. In assenza di precise attribuzioni contrattuali, spazi come quelli destinati alle colonne per gli impianti comuni devono considerarsi di proprietà condominiale ai sensi dell’art. 1117 del codice civile.

Il principio di diritto affermato dalla Corte

La Cassazione ha così fissato il principio per cui l’acquirente di un solaio o lastrico allo stato grezzo, con diritto di edificare il proprio appartamento, non diventa proprietario — salvo espressa diversa indicazione nel titolo — della porzione di colonna d’aria priva di tramezzature e non usufruibile, che resta di proprietà condominiale. Una precisazione destinata a incidere sulle future controversie in materia edilizia e condominiale, soprattutto nei casi di immobili costruiti per lotti successivi.


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Specializzazioni forensi, il Consiglio dell’Ordine di Firenze interpella il CNF: chiarimenti su corsi, requisiti e obblighi informativi

Prosegue il confronto tra i Consigli degli Ordini forensi e il Consiglio nazionale forense in materia di formazione specialistica degli avvocati. Con una recente istanza, il Consiglio dell’Ordine di Firenze ha sottoposto al CNF tre quesiti riguardanti la disciplina sul mantenimento del titolo di avvocato specialista, chiedendo chiarimenti sulle modalità di frequenza dei corsi di alta formazione, sulla possibilità di alternare formazione e incarichi professionali ai fini del rinnovo e sugli obblighi informativi verso i clienti.

Il CNF ha risposto con il parere n. 29 del 23 maggio 2025, fornendo indicazioni puntuali che confermano, da un lato, la rigidità della normativa vigente e, dall’altro, la necessità per gli Ordini di adeguarsi alle previsioni regolamentari già stabilite.

Definizione di corsi e scuole di alta formazione: nessuna deroga possibile

Sul primo punto, il Consiglio fiorentino chiedeva di chiarire quali corsi di alta formazione fossero effettivamente validi per il mantenimento del titolo. Il CNF ha confermato che valgono esclusivamente quelli organizzati dal CNF, dai Consigli dell’Ordine o dalle associazioni forensi specialistiche maggiormente rappresentative, secondo quanto previsto dalle Linee Guida per la Formazione specialistica degli avvocati, approvate ai sensi del D.M. 144/2015, come modificato dal D.M. 163/2020.

Per il mantenimento del titolo di specialista è necessario acquisire almeno 75 crediti nel triennio, e non meno di 25 per anno, attraverso partecipazione a corsi, convegni e seminari nello specifico settore di specializzazione.

Formazione e incarichi professionali: impossibile alternare annualmente

Quanto al secondo quesito — la possibilità di alternare annualmente, ai fini della permanenza del titolo, corsi di alta formazione e trattazione di incarichi professionali qualificanti — il CNF ha chiarito che l’attuale normativa non consente alcuna deroga interpretativa rispetto a quanto disposto dagli articoli 10 e 11 del D.M. 144/2015. La normativa prevede un criterio cumulativo e non alternativo tra formazione e incarichi. In assenza di una modifica regolamentare, pertanto, resta obbligatoria la partecipazione continuativa ai corsi previsti.

Obbligo di informativa ai clienti: confermato come adempimento deontologico

Infine, in merito alla terza questione sull’obbligo, per l’avvocato, di dichiarare esplicitamente di aver fornito ai propri clienti l’informativa scritta sul trattamento dei dati personali, il CNF ha confermato la necessità di questo adempimento. Nonostante la richiesta di anonimizzazione dei dati riportati nella documentazione per il mantenimento del titolo, l’avvocato resta tenuto a rispettare il Regolamento UE 679/2016 e gli obblighi deontologici connessi. La dichiarazione di aver fornito l’informativa, quindi, rappresenta una logica e doverosa conseguenza di quanto imposto dalla normativa europea e nazionale.


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Permessi premio in carcere, la Consulta cancella il divieto automatico per chi commette reati durante la detenzione

Nuova pronuncia della Corte costituzionale in materia penitenziaria. Con la sentenza n. 24 del 2025, la Consulta ha dichiarato illegittima la norma che impediva per due anni la concessione di permessi premio ai detenuti imputati o condannati per reati commessi durante l’esecuzione della pena. Una preclusione automatica che, secondo i giudici costituzionali, viola la presunzione di non colpevolezza e comprime la funzione rieducativa del carcere, ostacolando la valutazione individuale del percorso di reinserimento.

Il caso: un permesso negato e il ricorso alla Corte

Tutto nasce dalla vicenda di un detenuto, in carcere dal 2017, che aveva chiesto di poter beneficiare di un permesso premio. La richiesta era stata dichiarata inammissibile in forza dell’articolo 30-ter, quinto comma, della legge sull’ordinamento penitenziario, che vietava per due anni la concessione di permessi a chi, durante la detenzione, fosse stato condannato o imputato per un nuovo reato. Nel caso specifico, il detenuto era stato rinviato a giudizio per aver tentato di introdurre droga in carcere per conto di un altro recluso.

Il magistrato di sorveglianza di Spoleto, però, ha ritenuto quella norma in contrasto con i principi costituzionali e ha rimesso la questione alla Corte costituzionale.

Il punto della Corte: presunzione di innocenza oltre il processo penale

La Consulta ha colto l’occasione per riaffermare con chiarezza che la presunzione di non colpevolezza non si limita al solo processo penale, ma produce effetti in ogni ambito giudiziario fino a sentenza definitiva. Imporre un divieto automatico sulla base di un semplice rinvio a giudizio significa, di fatto, considerare il detenuto colpevole prima che la giustizia abbia accertato la sua responsabilità. Una simile disposizione, ha osservato la Corte, priva il magistrato di sorveglianza della possibilità di ascoltare l’interessato, valutarne le difese e ponderare l’effettiva gravità del fatto.

Il richiamo alla funzione rieducativa della pena

Ma c’è di più. La Corte ha ribadito che il carcere non può ridursi a semplice contenitore punitivo: la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Proprio per questo il giudice di sorveglianza deve poter valutare in concreto i progressi compiuti da ogni detenuto e la sua eventuale pericolosità sociale residua. Automatismi come quello previsto dalla norma censurata risultano oggi incompatibili con una giurisprudenza costituzionale ed europea sempre più orientata a valorizzare la personalizzazione del percorso detentivo e il diritto al reinserimento.

Quando il precedente non basta più

Curiosamente, una questione analoga era stata esaminata già nel 1997, quando la Corte ritenne la norma allora in vigore compatibile con la Costituzione, pur auspicando un intervento legislativo di segno diverso. Questa volta, però, i giudici costituzionali hanno sottolineato che le ragioni di contesto e la successiva evoluzione della giurisprudenza — nazionale e sovranazionale — impongono di rivedere quella posizione.

Una decisione che rafforza i diritti in carcere

Il principio affermato dalla sentenza è chiaro: anche di fronte a reati commessi durante la detenzione, spetta sempre al magistrato di sorveglianza valutare caso per caso se concedere o meno benefici premiali, tenendo conto della condotta complessiva del detenuto, della natura del fatto e delle esigenze di sicurezza. Automatismi che impediscano questa valutazione non sono più compatibili con il nostro ordinamento.


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Danno patrimoniale da infortunio: il risarcimento spetta anche senza ricerca di un nuovo lavoro

Un’importante pronuncia della Corte di Cassazione ridefinisce i criteri per il risarcimento del danno patrimoniale da perdita della capacità lavorativa a seguito di sinistro. Con l’ordinanza n. 16604 del 23 giugno 2025, la Terza sezione civile ha infatti chiarito che non è possibile rigettare la domanda di risarcimento solo perché la vittima non ha cercato un nuovo impiego, senza prima aver accertato il danno nella sua effettiva entità.

Il caso concreto e il ribaltamento della decisione

La vicenda trae origine da un incidente stradale che aveva causato a una lavoratrice, dipendente di un’impresa di pulizie, una grave lesione all’omero. Il successivo periodo di convalescenza aveva determinato la perdita del posto di lavoro e, a causa dei postumi permanenti, l’impossibilità di svolgere nuovamente le stesse mansioni.

Dopo un primo rigetto totale in tribunale, la Corte d’appello aveva riconosciuto il nesso causale tra l’infortunio e il licenziamento, ma aveva liquidato il danno patrimoniale solo per sei mesi, ritenendo che la donna, se diligente, avrebbe potuto trovare in quel periodo una nuova occupazione. Una conclusione bocciata dalla Suprema Corte.

I criteri fissati dalla Cassazione

Nel suo intervento, la Cassazione ha censurato il ragionamento della Corte territoriale, che aveva invertito l’ordine logico degli accertamenti: prima di valutare se la vittima abbia cercato un nuovo lavoro, è indispensabile stabilire se il sinistro le abbia effettivamente compromesso, in tutto o in parte, la capacità di guadagno e quale sia l’effettivo danno patrimoniale subito.

Solo successivamente, ha precisato la Corte, si potrà considerare un eventuale aggravamento del danno dovuto all’inerzia della vittima nel cercare una nuova occupazione. Una valutazione che però non può prescindere dal previo accertamento della perdita patrimoniale già verificatasi.

No agli automatismi tra invalidità e perdita di reddito

Altro aspetto chiarito dalla decisione riguarda l’erroneità di presumere automaticamente una riduzione di reddito basandosi esclusivamente sulla percentuale di invalidità lavorativa accertata dal medico-legale. Secondo la Cassazione, è necessario verificare concretamente se e quanto la lesione incida sulle mansioni svolte e sulla possibilità di trovare un’occupazione compatibile con i postumi.

Tre principi di diritto e una netta presa di posizione

La Suprema Corte ha quindi fissato tre principi di diritto fondamentali:

  1. Il danno patrimoniale da perdita della capacità di guadagno va accertato nella sua interezza, valutando il grado dei postumi e la loro compatibilità con l’attività lavorativa pregressa.

  2. Non esiste alcun automatismo tra percentuale di invalidità e danno patrimoniale: la perdita economica va dimostrata, anche per presunzioni, ma senza scorciatoie aritmetiche.

  3. La mancata ricerca di un nuovo lavoro non può essere motivo sufficiente per respingere la domanda di risarcimento, se prima non è stata quantificata la perdita patrimoniale conseguente all’infortunio.


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Processo penale, l’appello a rischio: il vento efficientista ridisegna le impugnazioni

Nel processo penale il giudizio d’appello rischia di perdere progressivamente la sua funzione di riesame nel merito della decisione di primo grado. A segnalarlo sono diversi esperti e operatori del diritto, che vedono nella lunga stagione di riforme — dalla Commissione ministeriale del 2014, passando per la legge Orlando del 2017 fino alla recente riforma Cartabia — una progressiva erosione delle garanzie difensive in nome di un’efficienza processuale che privilegia la rapidità sulla qualità delle decisioni.

Al centro del dibattito c’è il concetto di sfavor impugnationis, ovvero la tendenza a scoraggiare le impugnazioni, considerate un inutile rallentamento per il cosiddetto “processo breve”. Un orientamento che, secondo una parte della dottrina, ha trasformato il secondo grado di giudizio da strumento di verifica autonoma delle decisioni a semplice controllo formale della motivazione della sentenza impugnata.

Il rischio di una giustizia superficiale

Il tentativo di accelerare i tempi processuali ha prodotto una serie di interventi normativi e giurisprudenziali che puntano a restringere le maglie delle impugnazioni, a partire dalla richiesta di una sempre più marcata specificità dei motivi d’appello. Una tecnica che, secondo molti, finisce per assimilare l’appello a un ricorso per cassazione, basato sul controllo della motivazione e non più sull’analisi sostanziale della decisione.

Il paradosso evidenziato da penalisti e studiosi è che si richiede al difensore di costruire motivi d’appello rapportati puntualmente alla sentenza impugnata, senza però aver modificato in modo coerente le norme sulla cognizione del giudice d’appello. Il risultato è una procedura ibrida e confusa, in cui l’appello oscilla tra gravame di merito e ricorso motivazionale.

Cassazione più leggera, meno garanzie per gli imputati

Il quadro si complica ulteriormente se si considera l’obiettivo implicito di sgravare la Corte di Cassazione dai ricorsi motivati da vizi di motivazione, trasferendo il relativo controllo alle Corti d’appello. Così facendo, il secondo grado perderebbe la possibilità di riesaminare il fatto e la prova, limitandosi a vagliare la coerenza logica delle sentenze.

Un’evoluzione che, avvertono i critici, finirebbe per ridurre drasticamente le garanzie del sistema penale, aumentando il rischio di errori giudiziari irreparabili. Del resto, un controllo formale sulla motivazione difficilmente riuscirà a cogliere eventuali travisamenti della prova o valutazioni manifestamente ingiuste.

Un modello processuale sempre più selettivo

Altra criticità riguarda il rischio di una progressiva estensione nel giudizio d’appello della cultura dell’inammissibilità per manifesta infondatezza, già ampiamente diffusa in Cassazione. Una selezione all’ingresso che, sommata alla restrizione dei poteri di cognizione nel merito, potrebbe svuotare l’appello di ogni funzione effettiva di controllo sostanziale sulla decisione di primo grado.

Conclusioni: il prezzo del processo breve

Quello che si prospetta, dunque, è un processo penale dove il diritto alla doppia conforme — pilastro di qualunque sistema garantista — diventa un fatto sempre più residuale. L’ossessione per i tempi rapidi e il richiamo strumentale all’efficientismo imposto dal PNRR rischiano di sacrificare i principi di verità e giustizia, che dovrebbero restare valori irrinunciabili in uno Stato di diritto.


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Fisco, stretta sulle partite IVA: più controlli per chi rifiuta il concordato

L’Agenzia delle Entrate alza il livello di vigilanza sulle partite IVA che sceglieranno di non aderire al concordato preventivo biennale per il 2025-2026. Lo rende noto la circolare 9/E/2025, che fissa i criteri aggiornati di accesso e illustra le conseguenze per chi resterà fuori dall’accordo, previsto per oltre due milioni di contribuenti soggetti agli indici sintetici di affidabilità fiscale (ISA).

Se da un lato il nuovo concordato premia i soggetti più virtuosi, dall’altro rafforza i controlli nei confronti di chi non coglierà l’opportunità. Gli accertamenti fiscali potranno infatti contare su un utilizzo più intenso delle banche dati a disposizione del Fisco, compresa la Superanagrafe dei conti correnti, che contiene informazioni di sintesi sui rapporti finanziari di ogni contribuente.

Controlli mirati e incroci di dati

Nessuna “caccia alle streghe”, sottolineano dall’amministrazione finanziaria, ma un’attenzione rafforzata verso le posizioni che, oltre a non aderire al concordato, presentano indicatori di rischio fiscale. Gli incroci tra i dati dichiarativi, i conti correnti e le informazioni già in possesso dell’Agenzia e della Guardia di Finanza consentiranno di costruire profili di rischio più accurati, in modo da programmare controlli mirati e interventi selettivi.

Chi aderirà, invece, dovrà garantire trasparenza assoluta: sarà necessario attestare la veridicità dei requisiti e l’assenza di cause ostative, oltre a rispettare obblighi dichiarativi e contabili. In caso contrario, decadranno i benefici ottenuti, e i contribuenti saranno esposti a sanzioni e verifiche.

Più sanzioni per chi è a rischio

A rendere più stringente il quadro è anche il recente dimezzamento delle soglie che fanno scattare le sanzioni accessorie. Chi sarà colto in violazione — oppure decadrà dal concordato dopo averlo accettato — rischia ora l’interdizione dalle cariche societarie, l’esclusione dagli appalti pubblici e la sospensione dall’esercizio dell’attività.

Il provvedimento rafforza il sistema premiale previsto per i contribuenti più affidabili e amplia i poteri di controllo verso chi non aderisce, prevedendo anche un impiego integrato delle informazioni finanziarie con i dati di archivi pubblici e privati.

Le nuove soglie e le modifiche

Tra le novità principali introdotte dal decreto correttivo figurano le nuove soglie per l’adesione: incrementi di reddito stimati tra il 10% e il 25% a seconda del punteggio ISA ottenuto nell’anno precedente. Cambiano inoltre le regole per il recupero degli aiuti di Stato, le agevolazioni per le assunzioni e le modalità di accertamento.


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