termine di prescrizione dei contributi

Facciamo chiarezza sul termine di prescrizione dei contributi da versare a Cassa Forense.

Riportiamo un utile informazione condivisa dall’Avv. Marcello Bella e pubblicata sul sito ufficiale di Cassa Forense a proposito del termine di prescrizione dei contributi da versare alla Cassa stessa.

Secondo molte fonti, il termine di prescrizione è fissato a 5 anni.

Questa convinzione nasce da un’errata interpretazione della sentenza n. 13639 del 21 maggio 2019 emessa dalla Corte di Cassazione. Questa sentenza riferisce però ai contributi previdenziali relativi al periodo tra il 1989 e il 2000, anni per i quali effettivamente si applica il termine quinquennale.

Per comprendere quale sia il termine di prescrizione dei contributi da versare a Cassa Forense oltre l’anno 2000 dobbiamo innanzitutto considerare l’art. 66 della L. n. 247/2012.
L’articolo recita: “la disciplina in materia di prescrizione dei contributi previdenziali di cui all’art. 3 della legge 8 agosto 1995, n. 335, non si applica alle contribuzioni dovute alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense.

Dopo l’entrata in vigore dell’art. 66 della L. n. 247/2012 la Corte di Cassazione ha subito emesso la sentenza 6729/2013 nella quale indica che: “la nuova disciplina di cui all’art. 66 legge n. 247 del 2012 in materia di prescrizione dei contributi previdenziali dovuti alla Cassa Forense si applica unicamente per il futuro nonché alle prescrizioni non ancora maturate secondo il regime precedente” .

In sostanza, a regolare la prescrizione è quindi (di nuovo) l’art. 19 della legge n. 576/1980 che pone il termine a 10 anni per i contributi e ogni relativo accessorio dovuti dagli iscritti a Cassa Forense.

La giurisprudenza successiva alla sentenza si è allineata a tale principio. 

 

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dati personali facebook tar lazio

Facebook e la sentenza sul valore commerciale dei dati personali

A metà gennaio il TAR del Lazio ha emesso una sentenza che in molti definiscono storica poiché, per la prima volta, viene ufficialmente riconosciuto che i dati personali hanno un valore commerciale.

FACEBOOK NON È GRATIS: SI PAGA IN DATI PERSONALI

A fine 2018 AGCM accusa Facebook di indurre in modo ingannevole gli utenti a registrarsi, senza informarli “adeguatamente e immediatamente, in fase di attivazione dell’account, dell’attività di raccolta, con intento commerciale, dei dati da loro forniti, e, più in generale, delle finalità remunerative che sottendono la fornitura del servizio di social network, enfatizzandone la sola gratuità”.
Facebook è stata inoltre accusata di esercitare un “indebito condizionamento nei confronti dei consumatori” i cui dati vengono trasmessi “senza espresso e preventivo consenso […] da Facebook a siti web e app di terzi, e viceversa, per finalità commerciali“.

Queste condotte si pongono in contrasto con le disposizioni indicate nel Codice di Consumo articoli 21, 22, 24 e 25

Risultato: due multe per un totale di 10 milioni di euro

Il TAR ha riconosciuto la fondatezza della prima accusa, ma ha rigettato la seconda, considerandola priva di fondamento poiché Facebook chiede un consenso all’uso dei dati in fase di registrazione.

PERCHÈ LA SENTENZA DEL TAR DEL LAZIO È IMPORTANTE

Avete mai sentito l’espressione “se non lo paghi, il prodotto sei tu”?

Facebook è l’esempio più lampante di servizio pagato non in denaro, ma in informazioni personali.

Quando ci iscriviamo, non dobbiamo versare alcuna iscrizione, ma tutti i nostri dati e i contenuti che condividiamo vengono raccolti e ‘rivenduti’ alle aziende che decidono di fare pubblicità tramite il social. Pubblicità che, proprio grazie alle informazioni che abbiamo innocentemente condiviso, è altamente targettizzata e, quindi, più efficace. 

La sentenza del TAR del Lazio riconosce che i dati possono “costituire un asset disponibile in senso negoziale, suscettibile di sfruttamento economico e, quindi, idoneo ad assurgere alla funzione di controprestazione in senso tecnico di un contratto”.

La sentenza porta aria di cambiamento in tutte quelle aziende che, soprattutto nel mercato digitale, fanno massiccio uso di dati degli utenti.
Lo fa in duplice modo.

Da un lato, introduce l’idea che i dati personali (non tutti, ma alcune categorie) possono essere sfruttati commercialmente e che, di conseguenza, richiedano un compenso.

Dall’altro, avverte le aziende e i professionisti intenzionati a utilizzare i dati per finalità commerciali della necessità di informare in modo chiaro gli utenti sull’uso dei loro dati e delle informazioni che condividono.

C’è chi, come Guido Scorza, avvocato esperto di diritti digitali, non vede tanto positivamente la sentenza: «l’affermazione di un principio forte che minaccia di erodere la natura di diritto fondamentale della privacy e far passare l’idea che la nostra identità personale sia – o sia anche – una merce di scambio eguale a ogni altra, barattabile sul mercato e utilizzabile per fare shopping. Guai se questo principio passasse davvero e passasse in questi termini. A quel punto non avrebbe vinto nessuno ma avremmo perso tutti». Aggiunge che «si è persa una bella occasione per dire di no alla “società dell’accetta e continua” […] servono regole nuove che non consentano più equivoci almeno sui diritti fondamentali di un utente, di un consumatore, di un cittadino.»

Facebook ha eliminato la frase “ è gratis e lo sarà per sempre dalla home page ma non ha pubblicato alcuna dichiarazione rettificata e dunque, secondo l’AGCM continua a non informare adeguatamente gli utenti sulla raccolta e l’utilizzo a scopo commerciale dei dati.

Nel frattempo, anche la Corte d’Appello di Berlino ha sentenziato che i termini di utilizzo e le impostazioni privacy di Facebook sono contrarie alle norme di tutela dei dati dei consumatori.
Tra le varie violazioni, l’utilizzo da parte del social delle foto degli utenti a scopi commerciali, l’invio di dati verso li Usa, il consenso anticipato su eventuali modifiche al regolamento sui trattamento dei dati personali e la presenza di spunte preselezionate nella sezione privacy che permettono altre attività di raccolta dati senza un esplicito consenso da parte dell’utente.

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Google, le forze dell’ordine dovranno pagare per ottenere dati

Davanti alla richiesta crescente di informazioni sui suoi utenti, Google ha deciso che le agenzie governative statunitensi e le forze dell’ordine dovranno pagare per ottenere dati.

Del resto, l’azienda di Mountain View raccoglie una mole enorme di dati e lo fa costantemente.
È quindi facile intuire come i suoi database possano risultare utilissimi e richiestissimi dalle forze dell’ordine di tutto il mondo. E infatti, nei primi 6 mesi del 2019 Google ha ricevuto più di 75000 richieste di dati relativi a quasi 165000 account localizzati in tutto il mondo. Di queste richieste, 1 su 3 proveniva dagli USA.

A volte si è trattato di accedere alle email, di ottenere informazioni sulla localizzazione o gli spostamenti; altre volte di visualizzare la cronologia delle ricerche effettuate da sospetti sul motore di ricerca.

Le commissioni applicate variano in base alla finalità dell’operazione: 45,00 $ per una citazione, 60,00 $ per una intercettazione, 245,00 $ per un mandato di ricerca. Qui il documento ufficiale emesso da Google

PRECEDENTI ED EFFETTI

Non è la prima volta che Google applica delle commissioni in caso di richieste di dati con finalità legali – lo aveva già fatto nel 2008 -, ora però dovrebbe diventare una procedura standard.

La legge federale consente alle aziende di addebitare commissioni di questo genere e nel mondo delle telecomunicazioni realtà come COX e Verizon già lo fanno da anni.

Nella Silicon Valley, invece, molti hanno preferito non applicarle (finora). Un po’ per la difficoltà di gestione su larga scala, un po’ per non dare l’impressione di speculare su operazioni di giustizia.

Ma è davvero così? Ora che le forze dell’ordine dovranno pagare per ottenere dati, Google si arricchirà a scapito della giustizia? Non proprio: a quanto pare la quantità di denaro derivante da tali commissioni inciderebbe in maniera irrilevante sui ricavi dell’azienda.

È però anche vero che le nuove entrate potrebbero essere utili a coprire i costi insiti nel soddisfare la crescente richiesta di dati, soprattutto tenendo conto che lo sviluppo tecnologico generale rende possibili indagini più precise e quindi più laboriose.

Una delle richieste più innovative è impegnative riguarda Sensorvaul, un enorme database che permette di individuare sospetti e testimoni utilizzando dati relativi alla loro posizione raccolti tramite i loro dispositivi. I dispositivi da controllare possono essere anche centinaia e i dati richiedono una revisione legale più ampia rispetto ad altre tipologie di informazioni.

Le commissioni avrebbero poi un effetto secondario non indifferente in termini di privacy, poiché disincentiverebbero l’eccessiva sorveglianza da parte del governo

Nel caso specifico degli Stati Uniti, Gary Ernsdorff, procuratore capo nello Stato di Washington, solleva la preoccupazione che le commissioni applicate da Google possano spingere altre aziende a fare altrettanto, ostacolando le operazioni delle forze dell’ordine che hanno a disposizione budget limitati.
Il procuratore riconosce però che le commissioni potrebbero alleggerire la mole di lavoro per Google riducendo i tempi di attesa dei risultati che, negli ultimi anni, si erano dilatati.

Va fatta una precisazione: Google non ha intenzione di applicare le commissioni nel caso in cui le investigazioni riguardino la sicurezza di bambini o emergenze potenzialmente letali.

[Fonte: New York Times]

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Giustizia predittiva

Giustizia predittiva e il confine tra sicurezza e privacy

Prima di parlare di Giustizia Predittiva vogliamo condividere con voi la definizione di Intelligenza Artificiale data dalla Commissione Europea.
L’AI comprende quei «sistemi che mostrano un comportamento intelligente analizzando il proprio ambiente e compiendo azioni, con un certo grado di autonomia, per raggiungere specifici obiettivi. I sistemi basati sull’AI possono consistere solo in software che agiscono nel mondo virtuale (ad esempio, assistenti vocali, software per l’analisi delle immagini, motori di ricerca, sistemi di riconoscimento vocale e facciale), oppure incorporare l’AI in dispositivi hardware (ad esempio, in robot avanzati, auto a guida autonoma, droni o applicazioni dell’Internet delle Cose)».

Con Giustizia Predittiva possiamo intendere l’uso di tecnologie e, anche, di Intelligenza Artificiale per calcolare la probabilità di un esito giudiziario o per giungere a un provvedimento.

Collegata alla Giustizia Predittiva, è la Polizia Predittiva, ovvero l’insieme di attività, metodi e strumenti che consentono di predire chi può commettere un reato, dove e quando, al fine di prevenire il reato stesso.

Per riuscirci è necessario raccogliere ed elaborare una grande mole di dati statistici, compito possibile solo appoggiandosi a tecnologie che ne sono in grado.
Questi dati spaziano da statistiche vere e proprie ad analisi delle peculiarità dei luoghi o delle condizioni atmosferiche, fino alle caratteristiche dei potenziali criminali: età, etnia, condizioni economiche, precedenti, inclinazione alle recidive e persino tratti somatici.

L’uso dellIntelligenza Artificiale nella giustizia sta diventando, quindi, sempre più massiccio e apre scenari tanto interessanti quanto inquietanti: potrebbero le autorità decidere di abbandonare la strada della prevenzione dei fattori criminogeni (sociali, ambientali, individuali, economici, etc) per affidarsiai soli algoritmi?
Ma, soprattutto, se da un lato le nuove tecnologie permetteranno più sicurezza, più velocità, meno errori, dall’altro, quali sono le implicazioni per le libertà e la privacy degli individui?

È proprio questo ultimo punto quello più difficile da gestire.

Un tentativo di mediazione tra sicurezza e libertà è la Carta Etica Europea emessa dalla Cepej, European Commission for the Efficiency of Justice, che si occupa di monitorare l’efficienza della giustizia all’interno dei paesi membri del Consiglio d’Europa.

Nella Carta sono elencati i 5 principi di riferimento che i soggetti pubblici e privati responsabili dello sviluppo di strumenti e servizi di intelligenza artificiali applicabili alla giustizia dovrebbero seguire:

  • il rispetto dei diritti fondamentali 
  • la non discriminazione
  • qualità e sicurezza 
  • trasparenza, imparzialità ed equità 
  • il concetto di “sotto il controllo dell’utente”, ovvero garantire che l’utente possa agire in modo informato e sia in controllo delle sue scelte.

INTELLIGENZA ARTIFICIALE E GIUSTIZIA NEL MONDO

In Estonia la risoluzione delle controversie minori (fino a 7 mila euro di valore) è stata affidata a giudici robot per velocizzare lo smaltimento degli arretrati. Lo stato ambisce ad automatizzare altre 50 attività pubbliche entro il 2020.

Nel frattempo, negli Stati Uniti l’intelligenza artificiale ha già trovato applicazione in materia di giustizia predittiva penale con l’utilizzo di un algoritmo, chiamato Compas, che permette di valutare il rischio di recidiva di un imputato partendo dalle risposte date a un questionario composto da domande su vita sociale, lavorativa, istruzione, opinioni personali, uso di stupefacenti, precedenti penali, ecc.
Le Corti utilizzano l’algoritmo per quantificare le pene, ma il sistema è stato contestato perché considerato discriminatorio.

RICONOSCIMENTO FACCIALE E GIUSTIZIA PREDITTIVA

Una delle tecnologie più controverse applicate alla giustizia è quella del riconoscimento facciale.

Grazie all’analisi e alla comparazione dei tratti fisionomici, il riconoscimento facciale consente di identificare in modo univoco un individuo anche a distanza e senza dover interagire con esso.
Sebbene sia meno costoso di altre tecnologie biometriche, ha dei limiti: funziona solo se il volto è sufficientemente illuminato e a fuoco, mentre le espressioni facciali possono compromettere il risultato.
Con l’uso del 3D e del riconoscimenti termico questi limiti possono essere superati.

USO DEL RICONOSCIMENTO FACCIALE NEL MONDO

Hong Kong

Tutti abbiamo visto al TG le proteste per la democrazia durante il 2019.
Quello che forse molti di noi non sanno è che una delle preoccupazioni principali della popolazione è la minaccia alla libertà portata avanti dai sistemi di sorveglianza.
Tali sistemi si basano spesso sul riconoscimento facciale, portato avanti grazie a lampioni intelligenti che, con le loro videocamere, permettono alle autorità di controllare i cittadini, con l’intento poi di trasferire le informazioni alla Cina

Cina

Grazie alla mancanza di tutele della privacy, la Cina si presenta come il paese perfetto per testare nuove tecnologie di sorveglianza.
Un caso emblematico è la provincia dello Xinjiang, territorio abitato da popolazioni musulmane e, pertanto, soggetta a politiche di omologazione e a un forte controllo.
A questo, va aggiunto che le aziende cinesi impegnate nello sviluppo di software per il riconoscimento facciale sono in forte crescita, pronte a vendere i propri sistemi anche all’estero (con quali garanzie di sicurezza per i cittadini di questi paesi, non si sa).

Stati Uniti

Secondo il rapporto di “Fight for the Future” le forze dell’ordine fanno uso di software per la raccolta di innumerevoli foto di cittadini, spesso a loro insaputa o senza il loro consenso.
A Baltimora la polizia ha utilizzato il riconoscimento facciale per identificare (e fermare) alcuni protestanti. In molti aeroporti è già in uso il riconoscimento facciale per controllare i passeggeri dei voli internazionali. Software simili sono usati tramite body cam (fotocamere agganciate alle divise) alla frontiera con il Messico, dove la pressione migratoria si fa sentire.

Europa

È notizia di pochi giorni fa che l’Unione Europea sta considerando di bandire il riconoscimento facciale nei luoghi pubblici per 5 anni, finché non saranno istituite regole più efficaci nel gestire la tutela della privacy.

Nel frattempo, la Francia sta per avviare un programma di identificazione basato sul riconoscimento facciale per, a detta del governo, fornire ai cittadini un’identità digitale sicura.
Il sistema si basa su una app che permetterà di accedere a determinati servizi. Il problema è che non vi è alternativa: chi non passa per il riconoscimento facciale non potrà utilizzarli.

Nel Regno Unito il riconoscimento facciale è un dato di fatto in moltissimi luoghi pubblici, come centri commerciali e musei.

E IN ITALIA?

L’uso dell’Intelligenza Artificiale e di tecnologie innovative applicate alla Giustizia è ancora agli albori nel nostro paese e si concentra soprattutto sulla creazione di database di provvedimenti per facilitare l’individuazione di orientamenti e casistiche.

Andrea Cioffi, sottosegretario al Ministero per lo Sviluppo Economico, è anche il coordinatore del gruppo di esperti nato per redigere le linee guida di una strategia nazionale per l’Intelligenza Artificiale.
A proposito della giustizia predittiva, Cioffi ha dichiarato in un’intervista a
Altalex che  «Non sono maturi i tempi, a mio avviso. Ci sono ancora questioni tecnologiche da affrontare: l’esperienza (ndr: si riferisce a Compas) ci ha già insegnato che ci sono gravi ricadute sul principio di uguaglianza. Per fortuna, il sistema italiano è di civil law. Certo, l’AI potrebbe essere utile a sburocratizzare la giustizia, ma è centrale il trattamento del dato giudiziario. Il dato giudiziario deve essere indicizzato e chi lo fornisce dovrebbe seguire standard condivisi e finalizzati»

Trovare un’equilibrio tra sicurezza e privacy, tra tecnologie e diritti, rimarrà dunque una questione aperta ancora per molto tempo.


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pagamenti contributi

Scadenze dei pagamenti dei contributi obbligatori 2020

Riportiamo le scadenze dei pagamenti contributi obbligatori 2020 come segnalati nel sito ufficiale di Cassa Forense.
Quelli indicati sono i termini ultimi.

28 febbraio 2020

– pagamento della 1ª rata del contributo minimo soggettivo obbligatorio dovuto per l’anno 2020.

30 aprile 2020

– pagamento della 2ª rata del contributo minimo soggettivo obbligatorio dovuto per l’anno 2020.

30 giugno 2020

– pagamento della 3ª rata del contributo minimo soggettivo obbligatorio dovuto per l’anno 2020.

31 luglio 2020

– pagamento della 1ª rata dei contributi obbligatori soggettivo e integrativo dovuti in autoliquidazione per l’anno 2019;
mod. 5/2020;
– eventuali omissioni o ritardi saranno sanzionati.

30 settembre 2020

-pagamento della 4ª rata del contributo minimo soggettivo obbligatorio e dell’intero contributo di maternità, dovuti per l’anno 2020;
– eventuali omissioni o ritardi saranno sanzionati;
– invio telematico del mod. 5/2020;
– eventuali omissioni o ritardi saranno sanzionati.

2 novembre 2020

Emissione straordinaria bollettini M.Av. 31 ottobre 2020 per:

– pagamento della contribuzione minima obbligatoria dovuta dai neo iscritti nell’anno;
– pagamento dei piani rateali concessi per accertamenti relativi a procedure sanzionatorie;
– pagamento dei piani rateali relativi a istituti facoltativi (artt. 3, 4 e 5 del Regolamento di attuazione dell’art. 21, commi 8 e 9, della L. n. 247/2012).

31 dicembre 2020

– pagamento della 2ª rata a saldo dei contributi obbligatori soggettivo e integrativo dovuti in autoliquidazione per l’anno 2019;
mod. 5/2020;
– eventuali omissioni o ritardi saranno sanzionati.

contributi obbligatori

SCADENZA PAGAMENTI CONTRIBUTI VOLONTARI/FACOLTATIVI ANNO 2020

Oltre alle scadenze dei pagamenti contributi obbligatori 2020, riportiamo anche il termine ultimo per i pagamenti contributi volontari e facoltativi.

31 dicembre 2020

– pagamento VOLONTARIO del contributo modulare;
– pagamento FACOLTATIVO dell’integrazione del contributo minimo soggettivo per il riconoscimento, ai soggetti legittimati, dell’intera annualità previdenziale.

 

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laureati in giurisprudenza

Sempre meno laureati in giurisprudenza. Che succede?

Cari Avvocati, non starete mica diventando una specie in via d’estinzione?

Anvur, agenzia pubblicitaria controllata dal Miur, ha condotto un’indagine i cui risultati dicono questo: in poco più di 10 anni, dal 2006 al 2018, gli iscritti alle facoltà di Giurisprudenza e di Scienze Giuridiche sono quasi dimezzati, da 29.000 a 18.000.
Nel 2008/09 gli immatricolati a queste facoltà erano il 10,5% del totale. Oggi sono il 6,9%.

Cosa sta succedendo?

Semplice: laurearsi in Giurisprudenza non è più così attraente.

Il perché dipende da soprattutto da 2 fattori:

  1. il percorso di studio.
    Strutturato in un unico ciclo di 5 anni e, forse, poco adeguato a rispondere alle nuove esigenze: niente inglese, niente informatica, specializzazioni nelle nuove frontiere del diritto solo una volta giunti al master. Tutto ciò si traduce in una mancanza di competenze subito spendibili sul mercato del lavoro. E gli studenti ne sono consapevoli;
  2. gli sbocchi lavorativi.
    L’entrata nel mercato del lavoro dei laureati in giurisprudenza avviene tardi: il primo impiego arriva a 22,5 mesi dalla laurea, il doppio del tempo rispetto agli altri laureati di secondo livello.
    Questo ritardo dipende soprattutto dal percorso di abilitazione che richiede 18 mesi di praticantato (non sempre sostenibili durante gli studi) e, poi, l’esame.

Secondo un report di AlmaLaurea per il Sole 24 Ore del Lunedì,  i laureati di secondo livello del 2013 che a cinque anni dal titolo hanno dichiarato di svolgere la professione sono prevalentemente donne (59,0%) e vengono da famiglie di laureati (38,5% contro il 30,6% complessivo).

I laureati in giurisprudenza lavorano prevalentemente nel privato (98,9% rispetto al 74,2%) o come liberi professionisti (89,3% anziché 21,1%), soprattutto nella consulenza legale.

SOLUZIONI?

Prima di tutto, rinnovare il percorso di studi dando maggiore spazio alle competenze richieste dal mercato.

Antonio De Angelis, presidente dei giovani avvocati di Aiga, si esprime così: «si potrebbero rendere facoltativi alcuni esami “storici”, come istituzioni di diritto romano o filosofia del diritto per lasciar posto a temi come l’inglese legale o, più urgente di tutti, il diritto delle nuove tecnologie».

Un’altro cambiamento che sarebbe importante portare avanti, solo a fronte delle migliorie al percorso di studi, riguarda la percezione della spendibilità del proprio titolo: chi l’ha detto che il laureato in Giurisprudenza debba solo puntare a diventare avvocato o a partecipare a concorsi pubblici, sbocchi lavorativi ormai saturi?
Perché non puntare su ciò che le grandi aziende chiedono, ovvero esperti in diritto commerciale, societario, marchi e brevetti?

[Fonti: money.it , Sole24Ore]

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prove valide

Google e WhatsApp sono considerate prove legali valide

Le nuove tecnologie si fanno strada anche nel settore della giustizia. E così, ora Google e WhatsApp sono considerate prove legali valide a tutti gli effetti per confermare la colpevolezza di un soggetto.

Qui di seguito due casi giuridici esemplari di questa novità. 

MESSAGGI SMS E WHATSAPP

Il primo caso che introduce WhatsApp tra le prove legali valide ha per protagonisti due giovani accusati di detenere stupefacenti destinati a terzi.

Tra le prove raccolte e usate per dimostrare la loro colpevolezza, anche la riproduzione delle schermate delle loro conversazioni via messaggi sms e WhatsApp.

La difesa ha sostenuto che le schermate non potessero essere considerate prove utilizzabili in quanto acquisite contra legem (mediante violenza sulle cose e in violazione del diritto alla segretezza della corrispondenza di cui all’art. 15 Cost.) e non a seguito del sequestro come indicato dal codice d procedura penale (dall’art. 354, comma 2).

La Cassazione ha però confermato la decisione del giudice partendo dall’idea che i dati informatici (sms, messaggi WhatsApp, email) ricavati dalla memoria di uno smartphone sono da considerarsi documenti ai sensi dell’art. 234 c.p.p. e acquisibili con una qualunque modalità, inclusa la riproduzione fotografica.

Nella sentenza si legge che “i messaggi WhatsApp così come gli sms conservati nella memoria di un apparecchio cellulare hanno natura di documenti ai sensi dell’art. 234 c.p.p., di tal che la relativa attività acquisitiva non soggiace alle regole stabilite per la corrispondenza, né tantomeno alla disciplina delle intercettazioni telefoniche, con l’ulteriore conseguenza che detti testi devono ritenersi legittimamente acquisiti e utilizzabili ai fini della decisione ove ottenuti mediante riproduzione fotografica a cura degli inquirenti”.

FOTO SU GOOGLE STREET VIEW

Il secondo caso è di materia tributaria.
Un comune avvia accertamenti verso una società dotata di un’auto con livrea pubblicitaria e che, apparentemente, ha omesso il pagamento dell’imposta di pubblicità dal 2009 al 2014.

La causa si conclude a favore del Comune e tra le prove utilizzate compaiono anche le fotografie dell’auto tratte dall’applicazione Google Street View.

La società fa però ricorso sostenendo che tali fotografie tratte non hanno valenza probatoria poiché non vi è certezza sulla data dello scatto.

Il ricorso viene considerato inammissibile e, con l’Ordinanza 308 del 10 gennaio 2020, la Cassazione condanna la società.
Alla base della decisione il fatto che quest’ultima non è stata in grado di dimostrare in modo chiaro ed esplicito che i contenuti delle foto erano difformi dalla realtà.

Infatti, nell’ordinanza si legge che “la fotografia costituisce prova precostituita della sua conformità alle cose e ai luoghi rappresentati, sicché chi voglia inficiarne l’efficacia probatoria non può limitarsi a contestare i fatti che la parte che l’ha prodotta intende con essa provare, ma ha l’onere di disconoscere tale conformità”. Per essere efficace, il disconoscimento “deve essere chiaro, circostanziato ed esplicito, dovendosi concretizzare nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta”.

[fonti: www.studiocataldi.it; www.informazionefiscale.it]

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L’inaugurazione dell’anno giudiziario da nord a sud

Il 31 gennaio 2020, in tutta Italia, le cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario si sono svolte tra insoddisfazioni e proteste, segnando un momento di analisi della giustizia locale e, di riflesso, dell’intero Paese.

A Milano, la presenza di Piercamillo Davigo è stata contestata sia fuori, dagli avvocati penalisti, che dentro, mentre Bonafede dichiarava che la prescrizione non è un modo per ridurre i tempi dei processi.

A Torino, il presidente della Corte di Appello Edoardo Barelli ha puntato il dito sul rapporto malsano tra giustizia e informazione.

Bologna, sono stati sollevati dubbi sul Codice Rosso, introdotto per proteggere le donne e che, per alcuni, sembra essere un ostacolo al corso della Giustizia.

A preoccupare Firenze la droga e le infiltrazioni mafiose.

A Napoli, gli avvocati hanno protestato contro la prescrizione indossando manette.

A Reggio Calabria, il procuratore Luciano Gerardis ha trovato il tempo, prima di sentirsi male, di sottolineare la carenza di risorse per far fronte alla situazione di una città che è «la capitale storica ed attuale» dell’ ‘ndrangheta.

Gli avvocati siciliani hanno manifestato il loro disappunto togliendosi le toghe ed esibendo il codice civile, mentre a Catania il presidente della Corte d’Appello Giuseppe Meliadò ha spiegato che «continua con grande efficienza e competenza l’attività di contrasto ai reati collegati al fenomeno dell’immigrazione clandestina, che, nonostante la contrazione dei flussi migratori, continua a incidere ancora sul distretto».

Roma, il presidente Luciano Panzani ha segnalato che nella capitale «è andato prescritto un reato su due», riferendosi al primo e al secondo grado, e che aumentano i casi di corruzione, i reati di natura sessuale e i problemi legati alla gestione illecita dei rifiuti.

LA GIUSTIZIA IN VENETO

Anche in Veneto la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario è servita a fare il punto della situazione.

I tribunali veneti si trovano ad affrontare una grande mole di lavoro: dall’aumento dei reati di associazione a delinquere, le infiltrazioni di camorra e ‘ndrangheta, l’aumento delle vittime sul lavoro e per incidenti stradali (ma la diminuzione degli omicidi volontari), fino alle vicende delle Banche Venete. Lo fanno in modo tutto sommato efficiente, ma non senza difficoltà a causa della mancanza di personale amministrativo e magistrati.

A tal proposito, la presidente della Corte di Appello di Venezia, Ines Maria Luisa Marini, ha dichiarato in un’intervista alla Tribuna di Treviso che «la scopertura ha ormai raggiunto dimensioni tali da condizionare la stessa attività giurisdizionale e generare disfunzioni in tutto il settore amministrativo».

L’INTERVENTO DEL PRESIDENTE MASCHERIN ALL’INAUGURAZIONE DELL’ANNO GIUDIZIARIO

Al di là delle singole situazioni locali, l’inaugurazione dell’anno giudiziario è stata l’occasione, come detto dal presidente del CNF Mascherin durante il suo intervento a Roma, per ricordare la centralità della giurisdizione in un sistema democratico.

Come aveva già avuto modo di spiegare durante il Convegno dedicato ai 70 anni del Consiglio d’Europa e ai 60 anni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo tenutosi a Venezia lo scorso dicembre 2019, la giurisdizione non è solo una funzione dello Stato ma anche una manifestazione dello stato di diritto e della società che lo compone.

Mascherin ha dichiarato che molti sono i soggetti responsabili della situazione della giurisdizione  (politica, magistrati, media, ecc.) e tutti dovrebbero ricordarsi dell’importanza della mediazione e della risoluzione secondo diritto dei conflitti tra cittadini e tra questi e lo Stato.

L’obiettivo comune dovrebbe essere la ricerca di un equilibrio collettivo, democratico e pacifico.

Sfortunatamente, l’immagine del processo si sta scostando da questo ideale a favore della semplificazione e della ricerca del consenso, ma «erodere il diritto di qualcuno, vuol dire erodere il diritto di tutti noi. Vuol dire far oscillare il pendolo della democrazia facendole perdere certezze e stabilità».

A conclusione del suo discorso, Mascherin ha sostenuto che nel processo penale non ci si può permettere l’indeterminatezza dei tempi: «sarebbe come se un chirurgo iniziasse un intervento e poi ci lasciasse sul tavolo operatorio senza sapere se e quando terminerà l’operazione».

Centrali sono quindi gli investimenti nella giustizia, ma va anche riscoperto l’uso della ragione e vanno recuperati la capacità di saper dubitare e di saper ascoltare.

 

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errori giudiziari

L’impatto degli errori giudiziari in Italia

Ospite a Otto e Mezzo il 23 gennaio 2020, il Min. Bonafede ha parlato della prescrizione e, incalzato da Annalisa Cuzzocrea, giornalista di Repubblica, sull’incarcerazione di innocenti, ha dichiarato che: «gli innocenti non finiscono in carcere»

Cuzzocrea ha quindi risposto snocciolando un dato preciso: dal 1992 al 2018, 27.000 persone sono state risarcite dallo Stato dopo essere finite in carcere ingiustamente

Al di là di ciò che Bonafede intendesse dire, gli errori giudiziari e le ingiuste detenzioni non sono solo una tragedia per chi ne è vittima, ma incidono pesantemente anche sulle finanze dello Stato.

Avere statistiche precise, aggiornate e ufficiali a tal proposito è arduo ma, spulciando bene tra i contenuti pubblicati online da fonti diverse, in particolare i siti errorigiudiziari.com (da cui Cuzzocrea ha ricavato il suo dato) e truenumbers.it  che, a loro volta, si riferiscono a dati rilasciati dai Ministeri di Giustizia e dell’Economia e delle Finanze, possiamo darvi un’idea indicativa della situazione.

Nel 2018 l’Italia avrebbe pagato più di 33 milioni di euro in risarcimenti per ingiusta detenzione e altri 14 milioni per errori giudiziari.

Va precisata una cosa: questi risarcimenti non riguardano solo casi avvenuti nel 2018, ma anche casi avvenuti in anni precedenti che però hanno visto l’ordinanza di riparazione nel 2018.

Se, infatti, allarghiamo la finestra temporale di riferimento, scopriamo che dal 1992 al 31 dicembre 2018 i risarcimenti e gli indennizzi ammontano a circa 790 milioni di euro.

L’incidenza dei risarcimenti per casi di errori giudiziari e di ingiusta detenzione non è omogenea dal punto di vista geografico.

In un’ipotetica classifica dei distretti delle corti d’appello con il più alto ammontare di risarcimenti alle vittime, al primo posto si trova Catanzaro (tribunali di Castrovillari, Catanzaro, Cosenza, Crotone, Lamezia Terme, Paola e Vibo Valentia) con circa 10 milioni di euro. Al secondo posto Roma con poco meno di 3 milioni e mezzo, e al terzo posto Catania con poco più di 2 milioni e mezzo.

DIFFERENZA TRA INGIUSTA DETENZIONE ED ERRORI GIUDIZIARI

Si può pensare che ingiusta causa ed errori giudiziari siano la stessa cosa, ma la realtà è diversa.

L’ingiusta causa si ha quando un individuo indagato o accusato di un reato è costretto a un periodo di custodia cautelare in carcere o ai domiciliari e, al termine del processo, viene riconosciuto innocente. Può, pertanto, chiedere un risarcimento danni allo Stato.

L’errore giudiziario si ha quando un individuo viene condannato in via definitiva e solo un processo di revisione lo riconosce innocente.

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equo compenso

Equo Compenso 2020

Qualche giorno fa Chiara Gribaudo, responsabile del Dipartimento del lavoro del PD, ha presentato un emendamento cofirmato da Andrea Orlando, vicesegretario DEM ed ex ministro della giustizia, indirizzato a rafforzare la disciplina dell’equo compenso.

Era stato lo stesso Orlando, nel 2017, a introdurre l’equo compenso per:

tutelare i professionisti da clausole contrattuali considerate vessatorie, come: tempi di pagamento superiori a 60 giorni, anticipo dei costi da parte del professionista, mancata definizione dei rimborsi spesa;

limitare le prestazioni lavorative gratuite a favore della Pubblica Amministrazione (ma anche banche e assicurazioni);

imporre retribuzioni decorose e congrue.

Sfortunatamente, nel corso di questi 2 anni l’obbligo a una retribuzione decorosa e congrua non è stato affatto rispettato. Un esempio su tutti è il bando emesso dal MEF nel marzo 2019 destinato a consulenti in materia societaria e finanziaria (trovi informazioni nell’articolo “La pubblica amministrazione ha il diritto di richiedere prestazioni lavorative gratuite ai professionisti?).

Il nuovo emendamento cerca di risolvere il problema alla radice, impedendo alle P.A. di emanare bandi che non prevedono alcun compenso per il professionista.

EQUO COMPENSO NON SOLO PER GLI AVVOCATI

Nel nuovo emendamento non si parla chiaramente di equo compenso ma dei «bandi o le selezioni per servizi professionali effettuati dalle Pubbliche Amministrazioni» indicando che «non possono prevedere alcuna clausola di gratuità ». Inoltre «è fatto divieto di prevedere corrispettivi dal valore simbolico e non proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto e alle caratteristiche della prestazione. Tali clausole, ove previste, sono nulle e il compenso del professionista è determinato dal giudice tenendo conto dei parametri previsti dal regolamento di cui al decreto del Ministro della giustizia adottato ai sensi dell’articolo 13, comma 6 della legge 31 dicembre 2012, n. 247».

Sebbene pensato principalmente in riferimento agli avvocati, il contenuto dell’emendamento è volutamente generico in modo tale da renderlo applicabile ad altre categorie di professionisti che possono ricevere incarichi da parte della Pubblica Amministrazione.

Per i professionisti non organizzati in ordini o collegi, i parametri dovranno essere definiti dal Ministero dello Sviluppo Economico dopo aver sentito le associazioni più rappresentative dei diversi settori.

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