Redazione 16 Luglio 2025

Concordato fallimentare: niente compenso al professionista se la consulenza è inefficace

La prestazione del professionista va valutata anche nei risultati: senza utilità concreta per il cliente, il compenso può svanire. Con la sentenza n. 19174 depositata il 14 luglio 2025, la Corte di Cassazione ha chiarito un principio destinato ad avere un impatto rilevante nel contenzioso tra professionisti e imprese in crisi: non basta l’aver svolto un’attività per fondare il diritto al compenso, se questa si rivela inefficace o addirittura dannosa rispetto agli obiettivi per cui è stata richiesta.

Al centro della vicenda giudiziaria vi è un commercialista che aveva chiesto l’ammissione al passivo fallimentare per un credito professionale pari a quasi 300mila euro, vantato nei confronti di una società che aveva assistito durante una procedura di concordato preventivo, poi conclusasi con il fallimento.

Pagamenti irregolari e danno ai creditori

Il Tribunale aveva rigettato la richiesta del professionista, rilevando che la sua attività non solo non aveva portato beneficio alla massa dei creditori, ma aveva concorso a comprometterne gli interessi, consentendo alla società debitrice ingenti pagamenti, per circa 2 milioni di euro, in favore di creditori chirografari durante il corso della procedura. Pagamenti che avrebbero dovuto essere invece sottoposti all’autorizzazione giudiziale ai sensi dell’art. 182-quinquies della legge fallimentare.

Secondo i giudici di merito, l’advisor era venuto meno all’obbligo di informare correttamente gli amministratori sulle limitazioni operative della procedura concordataria, in particolare sul divieto di effettuare pagamenti se non autorizzati.

La Suprema Corte conferma: obblighi violati, niente onorario

La Prima sezione civile della Cassazione ha confermato la pronuncia del Tribunale, sottolineando che, anche se quella del professionista non è un’obbligazione di risultato in senso stretto, la sua attività deve comunque essere “concretamente ed effettivamente idonea” a conseguire lo scopo per il quale è stata richiesta.

Nel caso di specie, non solo il risultato non è stato raggiunto (la società è fallita), ma il comportamento del professionista avrebbe anche ostacolato l’accesso a una regolazione ordinata della crisi d’impresa, provocando danni agli altri creditori e pregiudicando la parità di trattamento.

Ignoranza giuridica come causa di inadempimento

La Corte ha sottolineato che il professionista, pur non potendo garantire il successo della procedura, è tenuto a svolgere la sua prestazione con diligenza, rispettando i vincoli di legge e informando correttamente il cliente sui limiti imposti dal concordato. La mancata segnalazione del divieto di effettuare pagamenti dopo la presentazione del ricorso è stata valutata come imperizia professionale e inadempimento contrattuale.

Di conseguenza, il comportamento del commercialista ha determinato il totale fallimento dell’obbligazione contrattuale, con la conseguenza che non matura alcun diritto al compenso, nemmeno in presenza di una richiesta o insistenza del cliente per adottare scelte rivelatesi poi dannose.

Una sentenza con effetti pratici rilevanti

La decisione ribadisce che il compenso professionale non è automatico, e che l’attività consulenziale deve sempre essere coerente, informata e conforme alla normativa vigente. Per commercialisti e legali che operano nell’ambito della crisi d’impresa, si tratta di un richiamo netto alla responsabilità tecnica e deontologica del loro ruolo.

Chi assiste le aziende in difficoltà, avverte la Cassazione, non può agire da semplice esecutore: deve fornire consulenza consapevole e orientata alla legalità, pena la perdita del diritto a essere retribuito.


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