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Lavoro, formazione, intrattenimento: il futuro sarà sempre più online

Come avremmo trascorso la pandemia senza l’”online“? Quanto l’uso massiccio delle tecnologie digitali nel nostro quotidiano si è trasformato in una nuova normalità? E che futuro immaginiamo?

Quel che sappiamo tutti è che non abbandoneremo mai più alcune abitudini che abbiamo acquisito durante l’ultimo anno e mezzo.

E a confermare questa tendenza ci pensa lo studio “The Future of Urban Reality” condotto e pubblicato da Ericsson.

IL TEMPO ONLINE AUMENTERÀ DI 10 ORE A SETTIMANA

Lo studio di Ericsson ha raccolto e analizzato le opinioni di ben 2,3 miliardi di persone in tutto il mondo, interrogandole sulla loro esperienza, le preoccupazioni, le opportunità, in relazione al presente ma a quello che potrebbe essere il prossimo futuro, entro il 2025.

Qui di seguito una breve panoramica di ciò che è stato rilevato:

DIDATTICA A DISTANZA E NON SOLO

1 intervistato su 2 si aspetta un massiccio uso della DAD e dell’e-leraning entro il 2025, mentre più della metà prevede che anche le attività di intrattenimento, di cultura e di socialità si sposteranno online.

LAVORO E INTELLIGENZA ARTIFICIALE

Al di là del permanere dello smart working, più di 3 intervistati su 5 crede che in futuro si dovrà avere più di un lavoro per ottenere un reddito decente. Molti temono però che robot e intelligenza artificiale sostituiranno molti lavoratori, aumentando il numero di disoccupati.

PRIVACY

La preoccupazione per la propria privacy è alta: 7 consumatori du 10 prevedono di porvi più attenzione.

SHOPPING

La metà degli intervistati crede che in futuro preferirà acquistare prodotti locali (ma in Italia pochi, solo il 18%, prevede di ordinare la spesa online regolarmente).

SALUTE

7 intervistati su 10 prevedono di condurre una vita più sana.

Zeynep Ahmet, ricercatore presso il Consumerlab di Ericsson, ha così commentato i risultati dello studio:

“Durante la pandemia, l’ICT ha permesso ai consumatori di continuare a gestire numerosi aspetti della propria vita. Le nostre ultime ricerche mostrano che questa situazione sarà la nuova normalità per il futuro. Questa tendenza permette di dare maggiore priorità agli aspetti più importanti della vita, sia che si tratti di passare più tempo con i propri cari sia che si tratti di avere uno stile di vita più sano. Nel ruolo di abilitatori, è chiaro che sia le reti mobili che gli sforzi di inclusione digitale giocheranno un ruolo cruciale nella costruzione delle società di resilienti, inclusive ed eque di domani.”

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Regolamento Chatcontrol UE. Preoccupazioni per il monitoraggio di massa

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Regolamento Chatcontrol UE. Preoccupazioni per il monitoraggio di massa

Il regolamento Chatcontrol nasce con una nobile finalità: contrastare la pedopornografia. Nonostante ciò, solleva parecchi dubbi su una possibile virata dell’UE verso un sistema di monitoraggio di massa dei propri cittadini.

COS’È IL REGOLAMENTO CHATCONTROL

Il nome per esteso del regolamento Chatcontrol è “on a temporary derogation from certain provisions of Directive 2002/58/EC of the European Parliament and of the Council as regards the use of technologies by number-independent interpersonal communications service providers for the processing of personal and other data for the purpose of combatting child sexual abuse online”.

Il regolamento consente ai provider dei servizi di messaggistica, come Whatsapp, Messenger, Telegram, di monitorare tutte le conversazioni che tutti noi svogliamo attraverso le loro piattaforme. L’obiettivo è individuare contenuti pedopornografici e segnalarli alle forze dell’ordine.

Per analizzare la grande mole di dati ci si affiderà a sistemi di Intelligenza Artificiale.

PERCHÈ È UNA DEROGA ALLA PRIVACY

Le attività di controllo che i provider potranno adottare sono molto più invasive rispetto a quelle che la stessa Europa ha concesso finora, poiché insidiano alcuni diritti fondamentali. Basti pensare che verrà scandagliato qualsiasi tipo di chat, anche quelle con medici o avvocati, per le quali vigerebbe il segreto professionale.

Il regolamento Chatcontrol rappresenta dunque una deroga alla Direttiva ePrivacy, che vieta ai provider di sorvegliare, intercettare e conservare i contenuti delle comunicazioni elettroniche. Si tratta, insomma, di un’eccezione al divieto di sorveglianza massiva.

PRINCIPALI CRITICHE

Riportiamo qui alcune delle perplessità sollevate dal regolamento Chatcontrol.

Scarsa efficacia contro la pedopornografia

Attuati i controlli sulle piattaforme più popolari, il network pedopornografico semplicemente si sposterà su piattaforme clandestine escluse dai controlli.

Violazione della privacy dei privati da parte di altri privati

I provider delle piattaforme di messaggistica sono soggetti privati, che avranno accesso a informazioni molto intime degli utenti, con grandi rischi per la libertà e l’autodeterminazione di questi ultimi.
Sebbene il monitoraggio sia limitato alla ricerca di contenuti pedopornografici, nulla garantisce che i provider utilizzino le informazioni raccolte per scopi secondari difficili da individuare e sanzionare.
Vale però la pena segnalare che il regolamento Chatcontrol non incide quanto indicato dal GDPR. Per esempio, gli utenti dovranno essere informati sul monitoraggio e sul trattamento dei loro dati personali.

Uso di algoritmi

Ben pochi supervisori umani si prenderanno la responsabilità di fermare una segnalazione nel caso l’algoritmo rilevasse un contenuto controverso. Il rischio è che molti cittadini si vedano sottoposti a procedimenti penali anche nel caso di contenuti leciti.

Bias ed errori di valutazione

I sistemi di intelligenza artificiale sono caratterizzati da errori che ne influenzano le decisioni. Ma anche il successivo controllo umano potrebbe essere soggetto ugualmente a pregiudizi.

Trasmissione a terzi

I report generati dagli algoritmi potrebbero essere trasmessi a Paesi terzi nei quali non vigono le garanzie previste dalla normativa europea in materia di trattamento di dati personali.

Sicurezza incerta

Le backdoor create per permettere il monitoraggio potrebbero essere usate dai servizi di intelligence e dagli hacker.

Abituare i cittadini ad accettare il controllo

Il regolamento Chatcontrol è una norma temporanea, che rimarrà in vigore per 3 anni. C’è chi crede che questa finestra temporale serva ad abituare le persone alla novità del monitoraggio massivo cosicché poi sia più facile renderlo definitivo. 
A ciò si aggiunge la scelta dell’obiettivo, ovvero la lotta alla pedoporngrafica, un tema sensibile che predispone con più facilità l’accettazione da parte dei cittadini di limitazioni pur di risolvere un fenomeno terribile come questo, indipendentemente dalla reale efficacia delle misure proposte.
E poi, una volta che si è monitorati per contrastare la lotta alla pedopornografia, perché non accettarlo anche per contrastare il terrorismo, garantire la sicurezza sanitaria o affrontare qualsiasi altra minaccia?

Aspetteremo la fine della sperimentazione per trarre le dovute conclusioni.

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Intercettazioni di Stato, cos’è Pegasus

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Intercettazioni di Stato, cos’è Pegasus

Siamo certi che abbiate sentito parlare di Pegasus, il software di spionaggio usato per controllare giornalisti, manager, attivisti e anche capi di stato.
Ma cos’è? Come funziona? Come si collega al tema del trojan di stato e delle intercettazioni in Italia?

COS’È LO SPYWARE PEGASUS

Difficile spiegare con accuratezza e nelle poche parole di un articolo cosa sia Pegasus. Tenteremo però di darvi un’idea di riferimento.

Nicola Grandis, ceo di Asc27, definisce Pegasus “un agente attivo per la raccolta delle informazioni”.
È un software sviluppato dalla società israeliana NSO che, una volta “scaricato” inconsapevolmente nel proprio smartphone ne conquista i privilegi di amministratore, assumendone il controllo.

Pegasus è in grado di accedere a tutti dati, presenti e passati. Sfrutta le vulnerabilità e backdoor lasciate dai produttori, e può essere adattato in real time alle caratteristiche del device in cui viene installato.

Il processo può durare qualche frazione di secondo, ma anche settimane. Agisce quando serve, rimanendo silente anche per lunghi periodo per poi attivarsi in concomitanza con specifici trigger (una chiamata da un numero specifico, una mail ricevuta da un mittente particolare, ecc.).

Sviluppato come strumento per contrastare il crimine e il terrorismo, è stato poi usato da alcuni governi per spiare soggetti delicati.

Sfugge ai controlli e non c’è antivirus in grado di fermarlo.

LA NECESSITÀ DI REGOLAMENTARE L’USO DEGLI SPYWARE

La potenza di software come Pegasus è tale che vi sono già legislazioni che li classificano al pari delle armi. 
Regolamentarne l’utilizzo diventa indispensabile, come spiega Stefano Quintarelli, presidente dell’Advisory Group on Advanced technologies delle Nazioni Unite:

Tutti gli spyware sono strumenti essenziali per le indagini criminali, ma il loro uso conferisce un potere enorme, capace di destabilizzare uno Stato. Tutta la supply chain della loro messa in produzione va controllata, al pari del loro uso. Nei nostri dispositivi c’è la copia della nostra vita. Chi prende il controllo del nostro telefono può fare tutto senza essere notato, anche metterci dentro immagini pedopornografiche e poi denunciarci.”

INTERCETTAZIONI E TROJAN DI STATO IN ITALIA

La regolamentazione degli spyware non riguarda solo paesi caratterizzati da regimi autoritari. Anche in Italia si fa uso del trojan di stato per controllare smartphone e computer dei cittadini e raccogliere intercettazioni che vanno oltre le registrazioni telefoniche o ambientali.

L’ordinamento italiano non è ancora del tutto chiaro sulla legittimità dell’utilizzo di questi software. Basti pensare che un’intercettazione telematica che si rivelasse utile a smascherare reati potrebbe essere usata anche se raccolta in modo illecito.

Per questo Stefano Quintarelli sostiene che:

“È urgente affrontare il tema […]. Non si può pensare sempre e solo alle registrazioni telefoniche o ambientali”

Seguiremo con interesse lo sviluppo della materia.

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Domotica, la nuova frontiera degli abusi domestici

La domotica, ovvero l’applicazione dell’informatica alla gestione delle abitazioni, è certamente una bella svolta nella tecnologia applicata alla vita di tutti i giorni. Eppure, potrebbe favorire gli abusi domestici.

Rifacendoci un articolo dell’Avv. Marco Martorana e dell’Avv. Praticante Roberta Savella, vediamo quali sono le principali forme di abuso.

FORME DI ABUSI LEGATI ALLA DOMOTICA

GLI “INTRAMONTABILI” FINI COMMERCIALI

I dispositivi di casa sono ormai quasi tutti “intelligenti”. Sono in grado di comunicare con noi, ma anche tra loro e addirittura con soggetti terzi. Raccolgono costantemente e trasmettono moltissime informazioni sulle nostre abitudini, i nostri gusti e pesino il nostro stato di salute.

Quanto siamo consapevoli dei dati che condividiamo? Questi dati sono anonimizzati oppure sono tutti facilmente collegabili al nostro nome? Che uso ne fanno le compagnie?

Dovremmo preoccuparci di questi interrogativi per una questione di tutela della nostra privacy. Ma tutela da cosa? Come per i dati che condividiamo nel momento in cui usiamo un social o facciamo una ricerca su Google, allo stesso modo anche i dati che provengono dai nostri apparecchi di domotica rappresentano una manna dal cielo per tutte le società che hanno bisogno di raccogliere dati per profilare le persone e influenzarne le decisioni d’acquisto.

I CYBERCRIMINALI

Come tutti i dispositivi digitali, anche i sistemi che controllano telecamere, termostati ed elettrodomestici possono essere hackerati. Malintenzionati potrebbero prenderne il controllo e gestirli da remoto per monitorare e tormentare gli inquilini. A quale scopo? Furti, raccolta di informazioni da utilizzare per attività illegali, ma anche richieste di riscatto pur di essere lasciati in pace.

E SE IL CATTIVO FOSSE UN NOSTRO CONOSCENTE?

Cosa succede se ad avere il controllo di quei sistemi fosse un partner tossico dal quale non riusciamo a liberarci o un ex che non ci lascia stare?
La possibilità di controllare a distanza ciò che avviene in casa e le nostre attività renderebbe molto difficile costruirsi una vita serena.

Potrebbe sembrare fantascienza, ma come fanno notare gli autori dell’articolo di riferimento, oggi un partner abusivo ha a disposizione molti più strumenti di quanti ne avesse dieci anni fa:

“un semplice termostato intelligente può essere utilizzato per comportamenti intimidatori e abusivi, se controllato da remoto da un soggetto che ha intenzione di indurci in uno stato di soggezione e paura e, a tal fine, regola la temperatura della nostra casa in modo da crearci dei disagi. Altre volte, invece, le telecamere inserite di default in alcuni dispositivi smart possono essere usate per osservarci anche quando non vogliamo, come è avvenuto nel Regno Unito dove un uomo è stato condannato per stalking per aver spiato la ex moglie, hackerando il sistema di telecamere smart della casa che un tempo condividevano.”

COME AFFRONTARE IL PROBLEMA

Sicuramente il primo passo è la consapevolezza dei rischi che si celano dietro a innovazioni tecnologiche positive come quelle legate alla domotica.

A ciò va certamente aggiunta tutto la normativa a tutela della privacy e dei dati personali, che però va implementata. Ricordiamo infatti che il GDPR non si applica alle persone fisiche che trattino dati legati ad attività esclusivamente personali e domestiche (articolo 2 paragrafo 2 lettera c) e risulta quindi del tutto inutile contro gli abusi privati.

Sarebbe inoltre opportuno lavorare anche sulla sicurezza in partenza dei dispositivi.
Nel 2018 il governo britannico ha pubblicato il “Code of Practice for consumer IoT security”, che raccoglie le misure pratiche che gli sviluppatori dei device IoT devono seguire per favorire la sicurezza degli utenti. Tra queste:

  • – nessuna password di default (molti utenti non la cambiano mai),
  • – possibilità di segnalare al produttore eventuali vulnerabilità,
  • – obbligo di periodici aggiornamenti di sicurezza,
  • – obbligo di comunicare prima della vendita quando non verranno più rilasciati aggiornamenti,
  • – possibilità di conservare in modo sicuro credenziali di accesso e altri dati nel dispositivo, e assicurare la crittografia dei dati in caso di trasferimento,
  • – facilitare la cancellazione dei dati personali da parte dell’utente.

L’obiettivo è giungere a una forma di sicurezza by design, ovvero che l’onere di occuparsi della sicurezza di un dispositivo elettronico non ricada più sull’utente ma sul produttore stesso, che deve lavorare su tutti gli elementi che favoriscono la sicurezza in fase di progettazione e di realizzazione del dispositivo.

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Il datore di lavoro può chiedere ai dipendenti l’avvenuta vaccinazione?

Con l’introduzione del Green Pass e la diffusione di nuove varianti COVID negli ambienti di lavoro ci si chiede se non sia il caso di sapere chi sia vaccinato e chi no. Ma il Garante della Privacy è stato chiaro: il datore di lavoro non può chiedere ai dipendenti l’avvenuta vaccinazione né documenti che la attestino.

AVVENUTA VACCINAZIONE DEL DIPENDENTE, PERCHÈ IL DATORE NON PUÒ CHIEDERLA

Pubblicate ancora lo scorso febbraio 2021, le linee guida in materia di vaccinazioni in azienda del Garante della Privacy rispondono a tutti i principali dubbi.

A proposito della possibile richiesta del datore di sapere se il dipendente si sia sottoposto o meno alla vaccinazione, il Garante spiega che il trattamento di questa informazione non è lecito:

«il datore di lavoro non può chiedere ai propri dipendenti di fornire informazioni sul proprio stato vaccinale o copia di documenti che comprovino l‘avvenuta vaccinazione anti Covid-19. Ciò non è consentito dalle disposizioni dell’emergenza e dalla disciplina in materia di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro».

IL DATORE PUÒ CHIEDERE AL MEDICO?

Al datore potrebbe venire in mente di rivolgersi al medico competente per conoscere i nominativi dei dipendenti vaccinati e non vaccinati, ma anche in questo caso il Garante della Privacy è chiaro e spiega che:

«il medico competente non può comunicare al datore di lavoro i nominativi dei dipendenti vaccinati. Solo il medico competente può infatti trattare i dati sanitari dei lavoratori e tra questi, se del caso, le informazioni relative alla vaccinazione, nell’ambito della sorveglianza sanitaria e in sede di verifica dell’idoneità alla mansione specifica».

Al medico è consentito però valutare l’idoneità dei dipendenti alle proprie mansioni. Il datore deve solo attuare quanto indicato dal medico, senza interessarsi delle motivazioni.

IL TRATTAMENTO NON È PERMESSO NEMMENO CON IL CONSENSO DEL DIPENDENTE

E se fossero gli stessi dipendenti comunicare l’avvenuta vaccinazione?
Il Garante spiega che:

«il datore di lavoro non può considerare lecito il trattamento dei dati relativi alla vaccinazione sulla base del consenso dei dipendenti, non potendo il consenso costituire in tal caso una valida condizione di liceità in ragione dello squilibrio del rapporto tra titolare e interessato nel contesto lavorativo (considerando 43 del GDPR)».

Nel caso il dipendente fornisse tali informazione, il datore dovrebbe cancellare la mail, il messaggio o la lettera con cui è avvenuta la comunicazione e avvisare il dipendente.

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Euro digitale? La BCE dà il via alla sperimentazione

In un futuro non troppo lontano potremmo trovarci a pagare con l’euro digitale, la versione elettronica delle banconote e delle monete che utilizziamo tutti i giorni.

La digitalizzazione, l’aumento degli acquisti on-line (dovuto anche alla pandemia), il minor uso del contante e la crescita delle criptovalute hanno portato la BCE ad avviare la sperimentazione di una valuta elettronica che non andrà a sostituire i contanti ma li affiancherà.

Christine Lagard, presidente della Banca Centrale Europea, ha spiegato che:

“La digitalizzazione investe la nostra vita in ogni aspetto e trasforma il nostro modo di effettuare i pagamenti. In questa nuova era un euro digitale garantirà ai cittadini dell’area euro di continuare a mantenere l’accesso a mezzi di pagamento semplici, universalmente accettati, sicuri e affidabili.”

COS’È L’EURO DIGITALE

L’euro digitale è l’alternativa elettronica al contante.
Nel sito educativo della Banca d’Italia, si legge che l’euro digitale potrebbe avere due dimensioni d’uso:
off-line assomiglierebbe alle comuni banconote, mezzi per trasferire ricchezza da persona a persona, in modo anonimo, con un importo limitato;
on-line assomiglierebbe al denaro di un conto, il cui possesso e anche i trasferimenti sono registrati e collegati a un nominativo.

VANTAGGI DELL’EURO DIGITALE

In un articolo su Agenda Digitale, Mario Dal Co, economista ed ex direttore dell’Agenzia per l’innovazione, offre un quadro sull’utilità del progetto:

“Il progetto dell’euro digitale risponde infatti all’esigenza di rinsaldare il rapporto fiduciario tra utente e banca centrale, oggi affievolitosi per effetto della diffusione di forme di pagamento alternative, in modo che possa ritornare la confidenza nella fondamentale relazione tra banche commerciali, famiglie, imprese.”

Le “forme di pagamento alternative” di cui parla sono le criptovalute, mezzi di pagamento privati che sfuggono alle dinamiche (e ai controlli) delle valute comuni.

Dunque, quali sono i vantaggi dell’euro digitale? Qui ve ne citiamo alcuni.

  • Sicurezza
    L’euro digitale è un credito nei confronti della Banca Centrale Europea e non correrebbe alcun rischio di liquidità, di credito o di mercato;
  • Un sistema di pagamento elettronico senza costi e accettato ovunque;
  • Privacy garantita
    Le informazione degli utenti saranno accessibili solo dalle autorità che si occupano di combattere attività illecite (riciclaggio di denaro, finanziamenti al terrorismo) e solo per tali finalità;
  • Più innovazione e concorrenza
    Fornendo prodotti e sevizi accessibili tramite i pagamenti con l’euro digitale, le imprese più piccole potrebbero accedere a mercati più vasti;
  • Rafforzamento della BCE
    L’euro digitale salvaguarderebbe il ruolo dell’euro come mezzo di pagamento, dando vita a un nuovo canale per la politica monetaria sotto la BCE, rafforzando l’autonomia dell’Europa nell’era digitale.

La fase di sperimentazione dell’euro digitale durerà 2 anni, al termine della quale si deciderà se procedere con la creazione della valuta elettronica o meno.

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Poche start up in Italia: il Codice Civile è un ostacolo?

L’Europa conta circa 70 unicorni, cioè start up la cui valutazione supera il miliardo. Di queste, nemmeno una è italiana. E se le leggi contenute nel Codice Civile fossero la (con)causa di questa mancata competitività del nostro paese?

CODICE CIVILE E LIMITI DELLE START UP IN ITALIA

Una possibile risposta ce la offre l’analisi di Francesco Vito Tassone nel suo articolo “Startup, tutte le patologie del sistema normativo italiano: il confronto con la Germania” di cui riproponiamo i contenuti.

Tassone immagina questo scenario.

Una start up viene fondata Italia e, per una serie di fattori favorevoli, si costituisce come SPA.

In quanto tale, il Codice Civile chiede che si doti di una governance specifica, quindi un collegio sindacale (normalmente di 3 persone) e un CdA (anche questo di almeno 3 persone), a cui si affianca una società di revisione per la certificazione del bilancio.
In totale ci sono 7 soggetti giuridici che sono amministratori, le cui competenze ed esperienze potrebbero però non avere alcun legame con l’attività effettiva dell’azienda. Senza lavorare per l’azienda, e pur avendo eventuali remunerazioni basse, rappresentano però un costo importante per una società che, essendo una start up, non fattura o fattura ancora poco.
In aggiunta, proprio perché sono amministratori, il Codice Civile li ritiene responsabili nei confronti dei terzi e impone loro, in sede di approvazione di bilancio, di garantire continuità per i 12 mesi successivi, pena la liquidazione dell’azienda.
In questo contesto, tenderanno quindi alla prudenza, dato che in caso di guai ne risponderebbero personalmente e che non ricaverebbero alcun vantaggio da un atteggiamento più spregiudicato.

A ciò va aggiunto che probabilmente la preoccupazione principale di un simile CdA non starebbe nel “far performare bene l’azienda” ma nell’accontentare gli azionisti: “è più un esercizio del controllo che un’espressione della governance dell’azienda. La relazione vale più della capacità manageriale.”.

Infine, è possibile che la dirigenza operativa venga scelta dal CdA che, ricordiamo, potrebbe non avere competenze nel settore in cui si muove la start up: “in sostanza, persone che in larga parte non sanno nulla del business sceglieranno i dirigenti che operativamente gestiranno quel business.

LA SITUAZIONE IN GERMANIA

La forma societaria più diffusa in Germania è la GmbH, simile alla nostra SRL.

Non esiste il consiglio di amministrazione, sono contemplati però più amministratori il cui unico limite ai poteri è dato dalla firma congiunta.

Indipendentemente dal fatturato non esiste il collegio sindacale, ma è possibile istituire un consiglio di sorveglianza, che spesso è interno all’azienda. I poteri di questo consiglio di sorveglianza sono decisi dai soci.

Non esistono libri sociali.
La redazione del bilancio è molto semplice: le aziende con ricavi fino a 12 milioni e 50 dipendenti presentano solo lo stato patrimoniale abbreviato e nota integrativa abbreviata. Al di sopra di tali soglie è necessario l’intervento di un revisore. L’obbligo di deposito del bilancio compare solo oltre i 40 milioni di ricavi e i 250 dipendenti.
Il management è interno e lavora per l’azienda, la gestisce e conosce il settore.

L’OSTACOLO DELLA BUROCRAZIA

Tassone fotografa così la situazione italiana:

“Il legislatore a ogni passaggio si impegna ad inasprire un sistema già eccessivamente orientato al controllo e alla responsabilità. A questa aggravante si aggiunge un profilo di investitori di formazione private equity (principalmente banche) che per storia professionale non vedono i limiti operativi di questi approcci gestionali”.

Lasciamo ai professionisti del settore legale valutare la validità di questa analisi.

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Aggiornamento Windows 11 solo su PC con chip TPM 2.0?

Per installare o aggiornare Windows 11, i computer dovranno essere dotati del chip TPM 2.0. Dovremo per forza cambiare pc? Assolutamente no.

Poche settimane fa Microsoft ha presentato la nuova versione del sistema operativo Windows 11. L’azienda ha però confermato che il nuovo aggiornamento potrà essere installato sui computer la cui scheda madre sia dotata di TPM 2.0, un chip che garantisce più alti livelli di sicurezza informatica.

COS’È IL CHIP TPM?

Il TPM, Trusted Platform Module, è un tipo di chip che permette una crittografia più forte. Ciò consente di tutelare meglio pin e password, ma anche di abilitare funzioni di sicurezza più avanzate e installare con più sicurezza le app Android.
Tutto questo protegge meglio il computer da eventuali tentativi di manomissione.

Nei mesi scorsi, Microsoft aveva infatti condiviso le preoccupazioni per l’aumento degli attacchi informatici al firmware. Attraverso il proprio rapporto Security Signals, la società aveva notato come l’83% delle aziende avesse subito un attacco al firmware e solo il 29% stesse investendo risorse per proteggersi.

PERCHÈ QUESTA NOVITÀ?

Esistono due versioni di chip TPM: i TPM 1.2, più vecchi e quindi meno sicuri, e i TPM 2.0, più recenti e sicuri.

Le attuali schede madri, cioè quelle prodotte negli ultimi 5-7 anni, supportano entrambe le versioni.
Quelle dotate di TPM 1.2 potrebbero ora dover essere aggiornate con l’installazione della nuova versione e l’abilitazione tramite il BIOS del computer per supportare ancora Windows 11.
Scriviamo “potrebbero” perché dal 2013 le CPU sia di Intel che di AMD possiedono una tecnologia che svolge le medesime funzioni di un processore TPM 2.0 (Intel PTT – Platform Trust Technology e chiama AMD Platform Security Processor). Questa tecnologia permetterebbe di evitare aggiornamenti hardware, richiedendo solo una semplice abilitazione delle funzionalità.

Ricordiamo inoltre che già dal 2015 Microsoft richiede ai produttori hardware la presenza dei chip TPM per il rilascio della certificazione OEM.

Microsoft ha condiviso l’elenco delle CPU IntelAMD e Qualcomm compatibili con Windows 11.

“DEVO CAMBIARE SUBITO IL PC PER POTER AGGIORNARE WINDOWS 11

L’aggiornamento a Windows 11 sarà disponibile a fine del 2021, c’è dunque ancora tempo per capire cosa sia meglio fare del proprio pc.

In ogni caso, soprattutto per i computer a solo uso personale e non lavorativo, dovrebbe essere possibile sopravvivere con il chip TPM 1.2 per ancora un paio di anni senza incorrere in gravi minacce alla sicurezza informatica.

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Tecnologie digitali: in cosa investono gli studi professionali

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Tecnologie digitali: in cosa investono gli studi professionali

LOsservatorio Professionisti e Innovazione Digitale della School of Management del Politecnico di Milano ha condotto un’analisi su oltre 3.000 studi professionali — in particolare avvocati, commercialisti e consulenti del lavoro — in relazione agli investimenti in tecnologie digitali.

La pandemia ha introdotto il lavoro da remoto e un più ampio uso delle tecnologie digitali anche all’interno degli studi professionali. Ma questa nuova normalità ha richiesto anche un nuovo approccio alla professione, con una riorganizzazione del lavoro e del rapporto con collaboratori e clienti.

INVESTIMENTI IN TECNOLOGIE DIGITALI

Questa nuova realtà ha portato un aumento degli investimenti in tecnologie digitali.
Durante il 2020, avvocati, commercialisti e consulenti del lavoro hanno speso quasi l’8% in più rispetto all’anno precedente.

I principali investimenti riguardano strumenti per/di:
– gestione elettronica dei documenti (+34%),
– gestione del workflow (+57%),
CRM (+120%),
business intelligence (+86%)
machine learning (+125%).

NUOVA ORGANIZZAZIONE

La crisi portata dalla pandemia ha anche cambiato le modalità con cui vengono gestiti i clienti per ben il 70% delle realtà intervistate, ma solo il 25% si dice pronto a rivedere la propria organizzazione e la propria struttura.

Se durante la crisi commercialisti, consulenti del lavoro e studi multidisciplinari hanno visto aumentare il proprio carico di lavoro, lo stesso non si può dire per gli avvocati, i quali hanno patito lo stop alle attività presso i tribunali.

Ad appesantire la situazione degli avvocati concorre il fatto che, rispetto a commercialisti e consulenti del lavoro, questi non hanno un rapporto stretto con le aziende: tra le PMI, solo il 32% fa ricorso in modo continuativo alle competenze degli studi legali, mentre tra le grandi imprese la percentuale sale al 60%.

FOCUS SUGLI AVVOCATI

Tra le categorie considerate, sono gli avvocati ad aver aumentato maggiormente il loro budget per l’ICT, che segnala quasi un 30% in più.

Gli studi legali hanno investito soprattutto in tecnologie che potessero consentire di proseguire immediatamente le attività durante il lockdown, per esempio software e strumentazione per le videochiamate (89% degli intervistati).

Dal rapporto dell’Osservatorio si evince come, a differenza di commercialisti, consulenti e studi multidisciplinari, gli avvocati tendano a sfruttare strumenti e tecnologie digitali più a scopi di marketing che di operatività. Infatti, il 54%  ha un sito web, contro il 39% dei commercialisti e il 45% dei consulenti del lavoro; mentre il 27% ha almeno un account social, contro il 25% dei commercialisti e il 27% dei consulenti del lavoro.

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Se un avvocato decide di comunicare con il proprio cliente tramite messaggi SMS e WhatsApp sta forse commettendo una violazione deontologica? Secondo il CNF no.

IL CASO

Una donna viene contattata tramite lettera da un avvocato che le comunica di essere il suo difensore d’ufficio in un procedimento penale e le chiede di contattarlo il prima possibile

La donna, che scopre in quel momento del procedimento a suo carico, contatta l’avvocato che fissa un appuntamento al quale però lei non si presenta.
A quel punto l’avvocato invia diversi messaggi SMS all’assistita per ribadire la necessità di un incontro il prima possibile dato che la scadenza dei termini è vicina.

La donna fa sapere all’avvocato di non aver ricevuto alcuna notifica sul procedimento penale e di avere nominato come difensore un altro legale. L’avvocato scopre ciò tramite una PEC inviata dal collega nominato.

L’avvocato d’ufficio allora invia una richiesta per iscritto alla donna, chiedendo il pagamento di una somma e avvisandola delle conseguenze in caso di mancato pagamento.

La donna si rivolge al COA di riferimento che apre un procedimento disciplinare verso l’avvocato che viene sanzionato con la censura per:

  • un uso insistente dei messaggi.
    Tale comportamento contrasterebbe con l’obbligo si svolgere l’attività professionale con dignità, probità e decoro, principi da rispettare anche nelle forme e nelle modalità di trasmissione delle informazioni al cliente (art. 9, in relazione all’art. 35 co.11 del codice disciplinare);
  • aver chiesto un compenso sproporzionato rispetto all’attività svolta (art. 29 comma 4 codice disciplinare).

IL RICORSO AL CNF

L’avvocato ricorre al CNF, ritenendo la sanzione eccessiva e chiedendo che venga ridotta al solo richiamo verbale. Questi i motivi a sostegno della richiesta:

  • – “l’uso degli s.m.s. rappresenta una consuetudine quale sistema corrente e veloce di comunicazione e che tale uso non può integrare di per sé una violazione delle norme deontologiche”.
 L’avvocato dice di aver inviato pochi SMS e solo fino al momento in cui non ha ricevuto notizia della nomina del nuovo difensore. Si tratta insomma di messaggi informativi icon l’obiettivo di tutelare la cliente in un contesto di urgenza, non certo di una molestia;
  • – prima di chiedere il pagamento, l’avvocato si è rivolto al COA per avere un parere di congruità, dopo il quale ha ridotto la somma da 405,00 a 250,00 euro. Tale compenso è stato calcolato secondo i parametri minimi indicati nelle tabelle del DM n. 55/2014.

MESSAGGI WHATSAPP E SMS, LA DECISIONE DEL CNF

Il CNF accoglie il ricorso e annulla il provvedimento, rilevando che:

  • – “l’uso della messaggistica, che consente una comunicazione più immediata e veloce, non possa ritenersi in sé in violazione dell’art. 9 del NCDF poiché, per molti aspetti, ormai rappresenta un vero e proprio metodo di comunicazione avente anche valore legale e, che per di più, fornisce anche una valida prova nel processo” (si veda anche la sentenza n. 49016/2017 della Cassazione, secondo cui gli sms rappresentano la memorizzazione di fatti storici e possono quindi essere considerati prova documentale);
  • – gli SMS inviati dall’avvocato avevano puro scopo informativo e non erano affatto eccessivi nel numero, pertanto non possono essere considerati una molestia;
  • – anche il compenso ridotto non risulta affatto eccessivo.

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