Roma – Una giornata storica per il centrodestra e per il governo guidato da Giorgia Meloni. Al Senato, infatti, è atteso il primo via libera in seconda lettura alla riforma della giustizia che introduce la separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e requirenti, uno dei cavalli di battaglia ideologici della coalizione. Un provvedimento che, secondo molti osservatori, segna l’approdo definitivo del sogno berlusconiano mai realizzato fino ad oggi: “il pubblico ministero che entra con il cappello in mano nell’ufficio del giudice”, come sosteneva il Cavaliere.
La riforma è stata costruita in tempi record: poco più di un anno dalla prima approvazione in Consiglio dei ministri, ed è destinata a diventare la bandiera della legislatura. Dopo il passaggio alla Camera e il ritorno in Senato – previsti solo per un sì o un no, senza possibilità di emendamenti – sarà verosimilmente sottoposta a referendum costituzionale nella primavera del 2026, visto che difficilmente il testo raccoglierà la maggioranza dei due terzi.
Il cuore della riforma è la modifica della Costituzione per stabilire due carriere separate fin dall’inizio del percorso professionale: una per i giudici, una per i pubblici ministeri. È previsto anche un doppio Consiglio Superiore della Magistratura, con competenze distinte per ciascun ambito, e la nascita di un’Alta Corte disciplinare per giudicare i magistrati ordinari, sottraendo questa funzione al CSM. Le nuove norme dovranno essere attuate entro un anno dall’entrata in vigore.
Una rivoluzione istituzionale che però avanza in un paese che sembra disinteressato al tema, più preoccupato dal caro vita e dalle emergenze sociali che dalla struttura costituzionale della giustizia. E non è un caso che, mentre sul fronte delle riforme si corre spediti, su quello della realtà quotidiana – in particolare sulle condizioni del sistema carcerario – il passo del governo resta incerto, se non fermo.
Nel Consiglio dei ministri successivo al voto sul disegno di legge costituzionale, è atteso l’annuncio del cosiddetto piano carceri, che promette 10mila nuovi posti e sconti di pena per buona condotta. Ma il contesto è tutt’altro che incoraggiante: le precedenti misure si sono rivelate inefficaci o addirittura mai attuate. Dal mini-piano da 384 posti attraverso prefabbricati nei cortili degli istituti penitenziari, fino al decreto per il reinserimento in comunità dei tossicodipendenti senza fissa dimora, il bilancio resta desolante.
La contraddizione è evidente: una riforma della Costituzione approvata in tempi record, mentre i cantieri per nuove strutture penitenziarie non decollano. Un paradosso che rende ancora più evidente la “giustizia a due velocità” evocata da molti analisti.
In questo contesto, l’impatto simbolico della riforma prevale su quello pratico. È il segnale di un cambio di passo politico più che una risposta a esigenze urgenti della macchina giudiziaria. Eppure, la cronaca giudiziaria continua a smentire le narrazioni ideologiche: a Milano la procura indaga sull’amministrazione di centrosinistra, come ieri aveva indagato su figure del centrodestra. A Palermo si giudica Salvini nel rispetto delle garanzie, a Bibbiano si smontano tesi accusatorie. Il sistema, nel suo equilibrio tra autonomia e indipendenza, continua a funzionare.
Ma il governo punta a dare una forma normativa a una visione politica, in cui la giustizia non è solo un potere dello Stato, ma anche un campo di battaglia per ridefinire i rapporti tra toghe, politica e opinione pubblica.
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