Com’è il mondo del lavoro post-pandemico? Persone e organizzazioni si ritrovano a fronteggiare grosse trasformazioni (già in atto), oltre ad una gestione complessa dei problemi strutturali che interessano l’intero mercato del lavoro.
Parliamo di disequilibrio tra domanda e offerta, salari bassi e fuga di cervelli; un numero troppo alto di NEET (Not in Education, Employment or Training: popolazione compresa tra i 15 e i 29 anni che non studia né lavora) e un inverno demografico che azzererà il ricambio generazionale.
Il nuovo senso del lavoro
Se nel passato lo sforzo principale corrispondeva alla ricerca di un lavoro, ora ci si concentra sul dare un senso al lavoro. Ancora oggi, lo svolgimento di una mansione è il punto di contatto tra la realizzazione di sé stessi e il contribuire alla comunità. Ma le aspettative sono cambiate.
Al General Meeting 2023 del Centro di innovazione digitale fondato dal Politecnico di Milano, si è provato a rispondere alla domanda: qual è il senso del lavoro, oggi? L’evento è ritornato in presenza, e il punto principale è stato: che cos’hanno imparato le aziende negli ultimi tre anni? E come si dovranno proiettare, nel futuro, verso la ricerca del nuovo senso del lavoro?
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Trattenere i dipendenti, oggi, è molto più complicato rispetto al passato. Sono in molti a lasciare per andarsene altrove. Stiamo parlando del fenomeno delle Grandi Dimissioni, che si traduce in un enorme turnover, dove la maggior parte delle persone decide di approdare in una nuova professione o in una nuova azienda.
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Per le aziende non è semplice creare una solida cultura dell’appartenenza. Secondo il presidente di Adapt, Francesco Seghezzi, le aziende non possono semplicemente «chiedere, chiedere, chiedere senza mai accompagnare». Devono fare decisamente di più.
Continua Seghezzi: «C’è stata un’eccessiva attenzione a valutare le persone unicamente sulle performance e a chiedere tantissimo da questo punto di vista. L’elemento di valutazione sulla base delle performance lascia sullo sfondo le persone e guardando ai dati si traduce in un basso livello di soddisfazione. Allora poi il lavoratore va in un posto dove ha meno questo tipo di pressione o dove c’è un modo di organizzare il lavoro meno basato sulla valutazione».
Per esempio, a parità di salario, un lavoratore potrebbe spostarsi in un settore dove, per lo meno, ha maggior certezza nei tempi e nelle entrate. Ma soprattutto, dove ha la possibilità di gestire meglio la propria vita privata.
Equilibrio, instabilità, compromessi
Quali sono i fattori che generano instabilità nei dipendenti? Secondo Mariano Corso, docente del Politecnico di Milano, c’è «una divaricazione tra l’aspettativa che si genera nei lavoratori di equilibrio, conciliazione, senso e significato e quello che le organizzazioni riescono a offrire».
Dunque, il gap non è soltanto un problema, in quanto opportunità di mettersi in ascolto. «A stare meglio sono i veri smart worker; chi sta peggio sono i falsi smart worker, ovvero coloro che sono rimasti intrappolati in situazioni di compromesso».
Spesso viene concessa flessibilità, ma senza investire su obiettivi, professionalità e stili di leadership. Per poter far evolvere i modelli, anche in tal senso, vuol dire non restare intrappolati in un’epoca che non esiste più.
Crisi demografica e fuga di cervelli
Di certo, la crisi demografica italiana non è un nuovo tema, anche se dovrà crescere la consapevolezza dell’impatto sul mercato del lavoro di questo fenomeno. Per poter invertire la rotta, si dovrà fare un lavoro di interconnessione tra vari problemi esistenti, come ha sottolineato Cristina Tajani del Politecnico di Milano.
Per Tajani, «vi è un consenso unanime sul fatto che siamo tra i paesi europei che hanno visto meno crescita salariale, semmai un decremento nel corso degli ultimi decenni, che dà vita a dispersione di cervelli. C’è difficoltà nel mettere a punto strumenti che consentano il matching tra domanda e offerta, una questione molto nominata ma poco risolta dalle politiche pubbliche. Quando c’è problema di mismatch il tema va affrontato su tutti e due i lati, non è solo un problema del sistema formativo ma anche un’attitudine sbagliata delle imprese a non considerare la formazione come asset strategico».
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Di certo il digitale ha ridisegnato tutti i processi, facendo “divorziare” luoghi di lavoro e attività. Ma in fin dei conti: chi guadagna e chi perde? È una riflessione che si amplifica nel momento in cui si cerca un nuovo senso al significato del lavoro.
Per il fondatore di Base Italia, Marco Bentivogli, «ci stiamo accorgendo che dalla piccolissima alla grandissima impresa sono proprio le risorse chiave che mollano. Tutti i fenomeni sono effetto della non capacità di immaginare e ascoltare: non è vero che le persone hanno meno voglia di lavorare, ma un tempo dilatato ha consentito più domande. Il lavoro ci sarà ma ha bisogno di nuovi pensieri, parole, strutturale, dorsali di innovazioni».
Giudizi errati
Ma che cosa vuol dire riportare la vita nel lavoro? Non parliamo soltanto della stimolazione delle politiche di conciliazione, ma anche della valorizzazione delle competenze, che le persone matureranno anche al di fuori della dimensione professionale.
Lo sostiene anche la fondatrice di Lifeed, Riccarda Zezza: «Ogni ruolo della nostra vita reca con sé cinque competenze soft. Circa il 70% delle competenze soft resta fuori, in quanto solo un terzo dei ruoli è lavorativo. Bisogna allora riportare dentro le competenze facendo una cosa difficile, rompere il bias dell’ancoraggio, ovvero pensare che l’essere umano non cambi», dato che ogni tanto cambia, e ha necessità di ridisegnare il senso del lavoro.
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