Nel vorticoso mondo dell’intelligenza artificiale, dove le promesse di rivoluzione si alternano a rischi e polemiche, c’è una sola bussola in grado di indicare davvero la direzione: il denaro. È seguendo i flussi miliardari degli investimenti che si scopre una delle tendenze più rilevanti di questa fase: la competizione sfrenata tra big tech per assicurarsi i migliori cervelli del settore. Una vera e propria “guerra per le superstar” della ricerca, a suon di stipendi che nulla hanno da invidiare a quelli dei top manager o dei fuoriclasse dello sport.
Nelle ultime settimane, il caso più clamoroso è stato quello di Meta, che ha lanciato un’offensiva senza precedenti per reclutare esperti dai laboratori di OpenAI e Google DeepMind per il proprio nuovo polo di superintelligenza, affidato ad Alexandr Wang, fondatore di Scale AI, valutata circa 14 miliardi di dollari. Secondo indiscrezioni, Mark Zuckerberg avrebbe messo sul piatto offerte da decine di milioni tra salari, bonus e stock option, puntando soprattutto su talenti di origine asiatica, un bacino ormai strategico nel panorama globale dell’IA.
La mossa non è piaciuta a Sam Altman, numero uno di OpenAI, che ha stigmatizzato la strategia di Meta definendola una caccia ai “mercenari”, contrapposti ai “missionari” che ancora crederebbero nella visione originaria dell’intelligenza artificiale come bene pubblico. Ma la verità, come spesso accade, è più complessa.
Quando OpenAI nacque nel 2015 come no-profit — fondata dallo stesso Altman e da Elon Musk — l’obiettivo era proprio quello di sottrarre alla sola Google il controllo sui migliori talenti, facendo leva più sugli ideali che sugli stipendi. Una strategia che riuscì a coinvolgere figure di spicco come Ilya Sutskever. Ma con la trasformazione dell’IA in un business miliardario, anche OpenAI è diventata una macchina di raccolta fondi, valutazioni stellari e investimenti senza sosta, dove convincere qualcuno a unirsi “per la missione” è diventato sempre più difficile.
L’effetto superstar ha così trasformato ricercatori un tempo sconosciuti, abituati a pubblicare in conferenze di settore, in figure pagate quanto amministratori delegati di grandi aziende europee. E non solo negli Stati Uniti: anche in Cina la corsa al talento ha preso una piega analoga, con aziende di robotica e intelligenza artificiale che offrono salari fino a tre volte superiori alla media per assicurarsi i migliori specialisti, nell’ambito di una competizione globale sempre più serrata.
Ma questo vertice dorato convive con una base lavorativa sempre più fragile. Mentre gli stipendi delle élite intellettuali dell’IA crescono, il resto del settore tecnologico fatica. Secondo i dati del Bureau of Labor Statistics americano, le offerte di lavoro per programmatori e sviluppatori sono diminuite sensibilmente rispetto al picco del 2022, complice l’arrivo delle tecnologie generative che automatizzano molte mansioni di livello intermedio.
Lo stesso Dario Amodei, ceo di Anthropic — una delle startup più promettenti del settore — ha avvertito che l’adozione di sistemi di IA avanzata potrebbe eliminare nel giro di cinque anni metà degli impieghi entry-level in ambiti come tecnologia, consulenza, finanza e servizi legali. In un memorandum inviato ai colleghi, Amodei ha sottolineato l’urgenza di prepararsi a una polarizzazione del mercato del lavoro senza precedenti.
A fronte di una ristretta élite di ricercatori superstar, stipendiati a peso d’oro, si profila dunque una massa crescente di lavoratori sottopagati e con prospettive sempre più limitate. E se da un lato i data center richiedono ingenti competenze informatiche e specializzazioni di altissimo livello, dall’altro continua a crescere la domanda di figure tecniche e manuali, come elettricisti e idraulici industriali, indispensabili per il funzionamento di quegli stessi impianti.
Jensen Huang, ceo di NVIDIA, ha recentemente sottolineato come i partner industriali della sua azienda non siano soltanto eccellenti programmatori, ma anche abili “idraulici digitali”, capaci di gestire i complessi sistemi di raffreddamento dei data center, vero cuore fisico della nuova era digitale.
Il ciclo dell’intelligenza artificiale, insomma, non è solo algoritmi, cloud e cervelli strapagati. È anche un ecosistema che accentua le disuguaglianze, crea nuove élite e lascia sul terreno migliaia di posti di lavoro qualificati, ridisegnando silenziosamente le gerarchie economiche e sociali del nostro tempo.
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