Roma — Più strette le maglie per chi vuole amministrare la cosa pubblica dopo condanne gravi o coinvolgimenti in vicende di infiltrazione mafiosa. Con due pronunce depositate in data 8 luglio 2025, la Prima sezione civile della Cassazione interviene su due casi delicati, affermando con nettezza il principio per cui il buon andamento e la trasparenza delle istituzioni locali non possono essere sacrificati sull’altare della rappresentanza elettorale quando si accertano responsabilità incompatibili con il corretto esercizio di una funzione pubblica.
Il caso Platì: il sindaco rieletto e poi decaduto
Nella prima sentenza, la n. 18559/2025, la Cassazione ha respinto il ricorso dell’ex sindaco di Platì (RC) contro il provvedimento del prefetto che ne aveva dichiarato la decadenza dopo la rielezione avvenuta nel primo turno elettorale successivo allo scioglimento del consiglio comunale per infiltrazioni mafiose.
Nonostante fosse in corso il procedimento per l’incandidabilità, l’ex primo cittadino era stato rieletto. Solo successivamente è sopraggiunta la sentenza definitiva che ha sancito la sua incandidabilità per le condotte pregresse. A quel punto, il prefetto ha avviato l’iter per farne dichiarare la decadenza.
La Suprema Corte, pur riconoscendo il valore costituzionale del diritto di elettorato passivo, ha ritenuto prevalente l’interesse pubblico a garantire l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione. «Non è accettabile — scrive la Corte — che l’amministratore ritenuto responsabile di condotte pregiudizievoli possa continuare a esercitare il proprio mandato nonostante una sopravvenuta sentenza definitiva di incandidabilità».
L’articolo 16, comma 2, del decreto legislativo n. 235/2012 (legge Severino), chiarisce la Cassazione, consente di ritenere che l’incandidabilità sopravvenuta comporti anche la decadenza dalla carica medio tempore riassunta, proprio per impedire che chi ha contribuito allo scioglimento per mafia possa tornare a ricoprire incarichi pubblici nello stesso comune.
La questione Sorrento: no ai consiglieri condannati per delitti colposi aggravati
Con la seconda pronuncia, la n. 18586/2025, la Cassazione ha confermato l’ineleggibilità di un candidato consigliere comunale di Sorrento, condannato in via definitiva per omicidio stradale plurimo aggravato dall’abuso dei poteri o violazione dei doveri connessi a una pubblica funzione.
La Suprema Corte ribadisce che l’articolo 10, comma 1, lettera d), del Dlgs 235/2012 è una norma di chiusura del sistema di prevenzione e garanzia: una misura di tutela del buon andamento e della trasparenza amministrativa. Non importa che il reato sia colposo; ciò che rileva è che sia aggravato dall’abuso dei poteri o dalla violazione dei doveri propri della funzione pubblica.
Secondo la Cassazione, questa previsione non introduce una disciplina innovativa ma si limita a rendere esplicito un principio di fondo: amministrare un ente locale è incompatibile con condanne di tale gravità.
Un sistema di garanzie sempre più rigoroso
Le due sentenze confermano la tendenza della giurisprudenza a presidiare con rigore i principi costituzionali di legalità, imparzialità e buon andamento delle amministrazioni locali, rafforzando gli strumenti di prevenzione contro infiltrazioni mafiose e gestioni irresponsabili.
Il legislatore e i giudici, sottolinea la Cassazione, hanno il compito di proteggere non solo la funzionalità delle istituzioni, ma anche la fiducia dei cittadini nella correttezza di chi le governa. E questo — ribadisce — vale anche a costo di sacrificare, in casi specifici, il diritto soggettivo all’elettorato passivo quando esso confligge con il superiore interesse collettivo alla trasparenza e legalità delle istituzioni.
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