ROMA — La Corte costituzionale, con la sentenza n. 105 depositata ieri 1o luglio 2025, ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità sollevate dal Tribunale di Firenze sull’art. 639 del codice penale, che punisce il deturpamento e l’imbrattamento di cose altrui. La Consulta ha ritenuto che il reato conservi una propria ragione d’essere penale, nonostante la precedente abrogazione del “danneggiamento semplice” trasformato in illecito civile.
Al centro del caso la vicenda di un uomo accusato di aver imbrattato con materiale organico la porta e le pareti di un immobile in un condominio alla periferia di Firenze. Il giudice fiorentino aveva sollevato dubbi di costituzionalità in riferimento agli articoli 3 e 27 della Carta, lamentando una sproporzione nel trattamento penale di condotte che offendono beni materiali senza comprometterne la funzionalità, e richiedendo la procedibilità a querela anche per i casi meno gravi previsti dalla norma.
Il ruolo del legislatore nella tutela del decoro
La Corte ha però chiarito che la permanenza della rilevanza penale dell’imbrattamento risponde a una scelta politica e sociale del legislatore, finalizzata a contrastare forme di degrado urbano e a tutelare l’interesse collettivo al decoro dei contesti pubblici e privati. Una scelta, si legge nella motivazione, ulteriormente confermata dalla recente introduzione della nuova figura di reato di deturpamento urbano, contenuta nel d.l. n. 48 del 2025, convertito nella legge n. 80 del 9 giugno scorso, che ha inasprito il trattamento punitivo delle condotte volte a colpire più beni contestualmente.
Un interesse collettivo distinto dal patrimonio
Secondo i giudici costituzionali, l’imbrattamento non può più essere considerato una semplice variante minore del danneggiamento patrimoniale, ma costituisce oggi un’offesa autonoma, lesiva di un bene collettivo legato alla tutela estetica e al decoro degli spazi pubblici e privati. Pertanto, l’intervento auspicato dal Tribunale fiorentino richiederebbe un riassetto generale della disciplina, che esula dalle competenze della Corte e rimane prerogativa del legislatore.
Nessun intervento sulla procedibilità
La Consulta ha poi dichiarato inammissibile anche la questione subordinata sulla procedibilità d’ufficio prevista dal quinto comma dell’art. 639, ribadendo che l’eventuale rimodulazione di tale regime costituisce scelta discrezionale del Parlamento, non sindacabile in sede di giudizio di legittimità.
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