Definizione accelerata dei ricorsi in Cassazione: le Sezioni Unite fissano i confini della nuova procura speciale

Arriva dalle Sezioni Unite civili della Cassazione un importante chiarimento sull’applicazione delle nuove regole procedurali in tema di definizione accelerata dei ricorsi. Con la sentenza n. 14986 depositata il 4 giugno 2025, la Suprema Corte ha risolto una questione interpretativa riguardante l’obbligo di corredare l’istanza di decisione con una nuova procura speciale, alla luce delle modifiche introdotte dal cosiddetto “Correttivo Cartabia” (d.lgs. 164/2024).

Il nodo riguardava i giudizi pendenti avviati con ricorso notificato prima del 1° gennaio 2023, per i quali non era ancora stata fissata l’adunanza camerale o l’udienza pubblica. Prima dell’entrata in vigore del decreto correttivo, infatti, in caso di proposta di definizione anticipata ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., il ricorrente era tenuto a depositare una nuova procura speciale assieme all’istanza di decisione. Un adempimento che, se omesso, conduceva all’estinzione del giudizio.

Il decreto legislativo 164/2024 ha però soppresso tale obbligo, sollevando dubbi sulla sorte dei procedimenti già in corso. La Corte di Cassazione ha ora stabilito che il nuovo regime si applica anche ai giudizi pendenti, purché la richiesta di decisione sia stata presentata dopo il 26 novembre 2024, data di entrata in vigore della riforma.

Secondo i giudici di legittimità, vale il principio “tempus regit actum”: la normativa applicabile è quella vigente al momento in cui si compie l’atto processuale. Nel caso di specie, l’atto in questione è l’istanza di decisione successiva alla proposta. Dunque, se tale istanza è stata depositata dopo il 26 novembre 2024, la mancata produzione della nuova procura non comporta più l’estinzione del giudizio e il ricorso può essere esaminato nel merito.

Diversamente, nei procedimenti in cui il termine per richiedere la decisione era già scaduto prima di tale data, resta applicabile la vecchia disciplina. In questi casi, l’assenza della nuova procura speciale comporta ancora l’estinzione del processo per difetto di una rituale istanza di decisione, indipendentemente dal contenuto della proposta di manifesta inammissibilità, improcedibilità o infondatezza.


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Giustizia penale più veloce e trasparente: in arrivo la digitalizzazione della Magistratura di Sorveglianza

Velocizzare le decisioni in materia di esecuzione penale, ridurre il sovraffollamento carcerario e garantire il rispetto della funzione rieducativa della pena: sono questi gli obiettivi del progetto di digitalizzazione della Magistratura di Sorveglianza, attualmente in fase di elaborazione. Una riforma considerata ormai non più rimandabile di fronte ai numeri del sistema penitenziario italiano.

Ogni anno, infatti, 42mila persone fanno ingresso nelle carceri italiane, mentre 30mila ne escono. Circa 20mila detenuti scontano pene residue inferiori ai tre anni e potrebbero accedere a misure alternative alla detenzione. Ma la gestione manuale e frammentata delle informazioni, affidata a sistemi obsoleti e privi di interoperabilità tra i vari uffici giudiziari, rappresenta un ostacolo concreto alla tempestività delle decisioni e all’efficacia dei provvedimenti.

Attualmente l’attività della Magistratura di Sorveglianza è rallentata da una serie di criticità strutturali e organizzative: mancano strumenti digitali per la verifica automatizzata del domicilio, per il caricamento delle relazioni comportamentali e per la consultazione in tempo reale dei procedimenti pendenti. La gestione documentale è ancora prevalentemente cartacea e il fascicolo digitale non è operativo, con conseguenti ritardi nell’istruttoria e nella decisione. A questo si aggiunge l’utilizzo di software obsoleti e un forte digital divide interno agli uffici giudiziari.

Per rispondere a queste inefficienze, il progetto in cantiere prevede lo sviluppo di un Sistema Informativo nazionale interoperabile degli Uffici di Sorveglianza (SIUS), integrato da una piattaforma unica per tutte le operazioni, il fascicolo telematico del detenuto, la consolle del magistrato e un portale accessibile da remoto tramite credenziali sicure. Tra le funzionalità previste, moduli intelligenti per il monitoraggio dei domicili, l’analisi automatica dei documenti e la gestione strutturata delle relazioni di comportamento.

Un ruolo strategico sarà affidato ai sistemi di Intelligenza Artificiale. La piattaforma integrerà strumenti di Natural Language Processing per l’analisi semantica delle relazioni educative e per l’individuazione di casi analoghi, offrendo così un supporto informativo avanzato al magistrato, senza mai sostituirne il giudizio.

Fondamentale, nel disegno del progetto, resta il coinvolgimento diretto degli operatori del settore: magistrati, cancellieri, educatori e personale amministrativo saranno parte attiva nella definizione degli strumenti, attraverso percorsi di formazione, rilevazioni sul campo e momenti di co-progettazione.

Sul medio-lungo termine si prevede una riduzione significativa dei tempi nella gestione dell’esecuzione penale, una maggiore uniformità dei procedimenti e ricadute concrete sulle condizioni detentive: un sistema più rapido e trasparente consentirebbe infatti di facilitare l’accesso a misure alternative, alleggerire la pressione sugli istituti penitenziari e garantire scelte più eque e umane.

Attualmente il progetto è nella fase di confronto tecnico e di raccolta dati con il coinvolgimento di università, operatori e istituzioni. La speranza è di presentare a breve i risultati delle rilevazioni sul campo e avviare un percorso condiviso con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per dare finalmente forma a una giustizia penale più moderna, sostenibile e costituzionalmente orientata.


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Giustizia e Intelligenza Artificiale: l’Europa alza l’asticella della tutela

È ufficialmente entrato in vigore il 1° agosto 2024 il Regolamento (UE) 2024/1689, meglio noto come AI Act, il primo quadro normativo europeo interamente dedicato alla regolamentazione dell’Intelligenza Artificiale. Approvato dal Parlamento europeo e dal Consiglio il 13 giugno 2024, questo provvedimento rappresenta una svolta epocale nella gestione delle tecnologie emergenti, con un impatto diretto sui diritti fondamentali, la sicurezza e il rispetto dei valori democratici europei.

Il regolamento si fonda su un approccio “basato sul rischio”, classificando i sistemi di Intelligenza Artificiale in quattro categorie, a seconda del potenziale impatto sulle persone e sulla società: sistemi a rischio inaccettabile (vietati), sistemi ad alto rischio (soggetti a controlli stringenti), sistemi a rischio limitato e sistemi a rischio minimo.
Tra i settori sotto particolare sorveglianza, il regolamento dedica grande attenzione all’ambito giudiziario e ai processi democratici, aree dove l’utilizzo di sistemi automatici richiede tutele supplementari.

IA e giustizia: quando è considerata “ad alto rischio”

L’articolo 6 del regolamento stabilisce che i sistemi di Intelligenza Artificiale impiegati dalle autorità giudiziarie — o per loro conto — per assistere nella ricerca e interpretazione dei fatti, nella comprensione delle norme e nell’applicazione del diritto ai casi concreti devono essere classificati come “ad alto rischio”.
A confermarlo è anche l’Allegato III del regolamento, dove alla voce “Amministrazione della giustizia e processi democratici” si specifica che tali sistemi possono incidere sensibilmente sui diritti delle persone coinvolte e, di conseguenza, richiedono maggiori garanzie di sicurezza, trasparenza e controllo umano.

Il regolamento, tuttavia, precisa che non tutte le applicazioni di IA nel settore giustizia saranno automaticamente considerate pericolose. Il Considerando 40 distingue infatti tra i sistemi utilizzati per compiti amministrativi o organizzativi — come la gestione delle tabelle di assegnazione dei procedimenti o il supporto alla redazione automatizzata di documenti — e quelli destinati a incidere sul merito decisionale dei singoli casi. Solo questi ultimi saranno sottoposti alle regole più restrittive.

Sorveglianza umana e responsabilità finale

Uno dei principi cardine dell’AI Act riguarda il mantenimento della “guida umana” nei processi decisionali giudiziari. Anche laddove si faccia ricorso a strumenti di IA per attività di supporto, la decisione finale deve restare di competenza esclusiva del magistrato o dell’autorità giudiziaria.
A ribadire questo concetto è l’articolo 14, dedicato alla “sorveglianza umana”, che impone di garantire che il controllo sull’operato del sistema e la responsabilità ultima rimangano sempre affidati a una persona fisica.

Obblighi per i sistemi ad alto rischio

Per i sistemi classificati come “ad alto rischio” il regolamento prevede una serie di obblighi particolarmente stringenti. Tra questi:

  • Un sistema di gestione della qualità, che assicuri la conformità ai requisiti di sicurezza, accuratezza e robustezza definiti dall’AI Act.

  • Documentazione tecnica completa, che illustri in dettaglio il funzionamento del sistema, le logiche sottostanti e il processo di sviluppo.

  • Registrazione degli eventi di utilizzo, come log-in, log-out e altre operazioni rilevanti.

  • Requisiti di cybersicurezza, a garanzia dell’affidabilità del sistema e della protezione dei dati trattati.

Inoltre, prima dell’immissione sul mercato, i sistemi ad alto rischio dovranno essere sottoposti a una valutazione d’impatto sui diritti fondamentali (FRIA), prevista dall’articolo 27. Questo documento dovrà contenere informazioni dettagliate sull’utilizzo previsto del sistema, i tempi e le modalità d’impiego, le categorie di persone coinvolte, i rischi connessi e le misure di mitigazione adottate.

Uno strumento di supporto, non un sostituto

Il regolamento europeo conferma così una linea netta: l’Intelligenza Artificiale potrà rappresentare un prezioso strumento di supporto per il lavoro dei magistrati, facilitando la ricerca di precedenti giurisprudenziali, la gestione dei procedimenti o la redazione di atti. Tuttavia, l’essenza stessa della funzione giurisdizionale — il giudizio, l’interpretazione e la valutazione dei fatti — dovrà sempre restare nelle mani dei giudici.


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Legittimo impedimento, decide il giudice disciplinare: via libera alla valutazione dei certificati medici

Con una recente ordinanza, le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione hanno chiarito un principio rilevante nel contesto dei procedimenti disciplinari forensi. Il provvedimento, depositato con il numero 13081 del 2025, affronta il delicato tema del legittimo impedimento e della possibilità per il giudice disciplinare di valutare autonomamente i certificati medici presentati dagli avvocati per ottenere il rinvio di un’udienza.

Il caso nasce da un’istanza di rinvio presentata da un avvocato, il quale aveva documentato la propria assenza con un certificato attestante una sindrome da lombosciatalgia. Il Consiglio Nazionale Forense, chiamato a pronunciarsi sul rinvio, aveva respinto la richiesta, ritenendo che il documento prodotto non dimostrasse un impedimento assoluto a comparire.

L’avvocato aveva quindi proposto ricorso in Cassazione, sostenendo che il giudice disciplinare non potesse mettere in discussione la validità di un certificato medico senza specifiche competenze sanitarie, contestando così una lesione del diritto di difesa.

La Suprema Corte ha tuttavia respinto questa impostazione. Le Sezioni Unite hanno infatti affermato che spetta al giudice disciplinare valutare se il certificato medico sia sufficiente a giustificare l’assenza all’udienza, senza che ciò comporti una diagnosi clinica o una perizia tecnica, ma limitandosi a verificare la coerenza e la chiarezza dell’attestazione rispetto alla richiesta di rinvio.


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Indagini digitali, stretta sui colossi del web: nuovo disegno di legge in Senato

ROMA — Arriva una svolta nelle indagini informatiche e nella regolamentazione dei servizi digitali. Nella seduta del 29 maggio 2025 il Senato ha ufficialmente annunciato la presentazione del disegno di legge n. 1505, che introduce rilevanti modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e al decreto legislativo 231/2001 in materia di collaborazione obbligatoria degli intermediari digitali nelle indagini giudiziarie.

Dal Regolamento europeo alla normativa nazionale
Il provvedimento prende le mosse dal Regolamento UE 2022/2065, che disciplina il mercato unico dei servizi digitali e prevede per le piattaforme online l’obbligo di cooperare con le autorità nazionali nella rimozione di contenuti illegali. Tuttavia, secondo quanto evidenziato nella relazione tecnica al disegno di legge, l’esperienza pratica avrebbe dimostrato che le disposizioni europee, da sole, non bastano a garantire l’efficacia delle indagini, lasciando margini di impunità e ritardi nelle inchieste.

Le principali novità: log, reati specifici e sanzioni agli enti
Il testo prevede tre interventi distinti:

  1. Codice di procedura penale — Viene introdotto l’articolo 248-bis, che disciplina la richiesta obbligatoria di consegna ai prestatori di servizi intermediari dei cosiddetti file di log, ovvero i registri digitali delle operazioni svolte dagli utenti su dispositivi elettronici, fondamentali per tracciare attività sospette o illecite.

  2. Codice penale — Nascono i reati specifici di inottemperanza dolosa (art. 378-bis) e di agevolazione colposa (art. 378-ter) all’obbligo di collaborazione, con pene graduate a seconda della gravità e delle conseguenze dell’omissione. Prevista inoltre la giurisdizione italiana anche per fatti commessi all’estero, se collegati a procedimenti penali nel nostro Paese.

  3. Responsabilità degli enti — Si aggiorna anche il decreto legislativo 231/2001 con l’introduzione dell’articolo 25-decies.1, che sancisce sanzioni pecuniarie e interdittive per le società e le piattaforme digitali i cui dipendenti o rappresentanti si rendano responsabili dei nuovi reati, quando ciò avvenga nell’interesse dell’ente.

Verso un controllo più efficace del cyberspazio
Il disegno di legge segna un deciso cambio di passo nella regolamentazione dei rapporti tra autorità giudiziaria e giganti digitali, ponendo fine a una zona grigia normativa che spesso ostacolava le indagini in ambito informatico. Se approvato, il provvedimento renderà obbligatoria una più incisiva collaborazione dei soggetti digitali operanti sul mercato italiano ed europeo, a tutela della legalità e della sicurezza collettiva.


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Cassazione: notifica irregolare della cartella, cosa cambia per il contribuente

ROMA – La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 12981/2025, ha fatto chiarezza su un aspetto cruciale in materia di contenzioso tributario: la validità della notifica delle cartelle di pagamento in caso di difformità tra la copia della relata rilasciata al notificante e quella consegnata al contribuente.

Spesso si verifica che la copia in possesso dell’ufficio sia completa e regolare, mentre quella destinata al contribuente risulti illeggibile o addirittura priva di annotazioni sulla relata di notifica. In questi casi, la Suprema Corte ha stabilito che l’irritualità della notificazione può essere eccepita dal contribuente non per ottenere un annullamento automatico dell’atto, ma per far valere la decadenza dell’amministrazione o la prescrizione dell’azione, oppure per dimostrare la tempestività della propria impugnazione.

Un punto chiave dell’ordinanza riguarda proprio il termine per impugnare: se al contribuente viene consegnata una copia della relata in bianco, il termine per l’impugnazione non decorre. Esso viene, di fatto, “procrastinato” fino al momento in cui l’amministrazione compirà un successivo atto nel procedimento di riscossione.

Tuttavia, la Cassazione ha precisato che qualora il contribuente decida comunque di impugnare la cartella, anche in ritardo, il giudice non potrà annullarla semplicemente sulla base della nullità insanabile della notifica. Questo perché la notifica non costituisce un requisito di validità intrinseca dell’atto impositivo. In tali circostanze, il giudice sarà tenuto a procedere con un esame del merito dell’impugnazione, valutando quindi la fondatezza della pretesa tributaria.


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Mantenimento dei figli, le spese straordinarie pesano anche sul piano penale

ROMA — Non solo l’assegno di mantenimento: anche le spese straordinarie per i figli, se previste da un provvedimento del giudice o da un accordo tra coniugi, devono essere onorate dal genitore obbligato. In caso contrario, si rischia una condanna penale. A stabilirlo è la sesta sezione della Corte di Cassazione, che ha chiarito i confini applicativi del reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o scioglimento del matrimonio (articolo 570-bis del codice penale).

Spese straordinarie non più secondarie
La Suprema Corte ha sottolineato che queste spese non possono essere considerate accessorie o facoltative, ma rappresentano parte integrante dei mezzi di mantenimento dei figli. Si tratta di oneri destinati a coprire esigenze che, per natura, si collocano al di fuori dell’ordinario: interventi medici imprevisti, spese scolastiche o sportive straordinarie, viaggi di studio, attività formative o esigenze abitative particolari.

Il mancato pagamento di tali importi, ha spiegato la Corte, integra autonomamente il reato previsto dall’art. 570-bis, a prescindere dalla corresponsione regolare dell’assegno di mantenimento ordinario. La ratio è quella di garantire una tutela piena e concreta ai figli, che non si esaurisce nelle necessità quotidiane ma comprende anche bisogni eccezionali e imponderabili, in linea con quanto già sancito dalla giurisprudenza civile.

Un dovere che va oltre il vitto e l’alloggio
I giudici di legittimità hanno richiamato il principio per cui il mantenimento della prole, sancito dall’articolo 147 del codice civile, non si riduce alla mera fornitura di alimenti, ma si estende agli aspetti scolastici, sanitari, abitativi, sportivi e sociali. Da qui la necessità che anche le spese straordinarie trovino adeguata tutela, non solo in sede civile ma anche penale, quando il genitore obbligato si sottrae a questi impegni.


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Difensori d’ufficio, le spese di recupero del compenso spettano allo Stato

ROMA — Chi paga le spese che un avvocato sostiene per ottenere il pagamento del proprio onorario quando difende un imputato su nomina dello Stato? A sciogliere il dubbio è intervenuta la Corte di Cassazione, con una recente ordinanza destinata a fare scuola per tutti i professionisti che operano nei processi penali come difensori d’ufficio.

Il caso nasce da un procedimento seguito dal Tribunale di Milano, dove un avvocato, nominato d’ufficio, aveva ottenuto il riconoscimento di un compenso pari a 430 euro. Tuttavia, il giudice aveva respinto la sua richiesta di rimborso per le spese sostenute nel tentativo di recuperare quella somma: imposte di bollo, notifiche e altri oneri procedurali. Da qui il ricorso in Cassazione, con due questioni: da un lato, la rivendicazione che quei costi dovessero gravare sull’Erario; dall’altro, la contestazione della decisione di compensare le spese di giudizio tra le parti.

Le spese vive per il recupero vanno rimborsate
Sul primo punto, la Suprema Corte ha accolto il ricorso dell’avvocato, ribadendo che le spese necessarie per incassare il compenso di un incarico d’ufficio non possono essere a carico del professionista. È lo Stato, infatti, a dover coprire questi costi accessori, trattandosi di un’attività di pubblica utilità che tutela un diritto fondamentale. Altrimenti, ha sottolineato la Corte, si creerebbe un ostacolo ingiustificato all’effettivo riconoscimento del compenso spettante al difensore.

Una posizione che conferma l’orientamento già espresso in passato dalla giurisprudenza di legittimità, richiamando precedenti come la sentenza n. 22579/2019.

Compensazione delle spese processuali legittima
Diversa, invece, la valutazione sul secondo motivo di ricorso. L’avvocato aveva contestato la decisione del giudice di primo grado di compensare le spese processuali, ritenendola ingiusta visto che la sua domanda era stata parzialmente accolta. Ma la Cassazione ha ritenuto corretta la scelta del Tribunale: il ricorso era infatti articolato su più questioni, alcune accolte e altre respinte, e in simili casi il codice di procedura civile consente di disporre la compensazione delle spese, senza obbligo di condanna di una parte a favore dell’altra.


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Avvocati, meno rischi per gli errori lievi: un primo via libera alla riforma della responsabilità professionale

ROMA — Un primo sì in commissione Giustizia al Senato per la proposta di legge che punta a ridisegnare i confini della responsabilità professionale degli avvocati. Il testo, firmato da Pierantonio Zanettin (Forza Italia) e sostenuto dall’associazione Italia Stato di Diritto, prevede che i legali rispondano dei danni causati ai clienti solo in caso di dolo o colpa grave, escludendo invece qualsiasi responsabilità civile quando il danno derivi da colpa lieve o dall’attività di interpretazione di norme giuridiche.

La proposta, ferma da due anni a Palazzo Madama, è tornata al centro del dibattito parlamentare e, dopo il via libera della commissione, potrebbe approdare in Aula entro l’estate. L’obiettivo è quello di equiparare la posizione degli avvocati a quella già prevista per i magistrati, per i quali — in base alla legge n. 117 del 1988 — la responsabilità scatta solo in caso di dolo o colpa grave, escludendo esplicitamente l’attività interpretativa o di valutazione del fatto.

Un intervento atteso dalla categoria
Secondo il presidente del Consiglio Nazionale Forense, Francesco Greco, il provvedimento è necessario per alleggerire il contenzioso e preservare il diritto di difesa. «Negli ultimi anni — osserva Greco — il rischio professionale è aumentato, anche a causa delle numerose norme di inammissibilità e decadenza che ostacolano la decisione di merito. Questo genera frustrazione tra i cittadini e un crescente numero di azioni di responsabilità contro i legali, spesso fondate su colpe lievi o su interpretazioni divergenti della giurisprudenza consolidata».

Dati ufficiali sul fenomeno non ce ne sono, ma le relazioni parlamentari confermano una crescita costante delle cause intentate contro gli avvocati, anche in seguito a ricorsi dichiarati inammissibili dalla Cassazione.

Le reazioni della categoria
Il progetto di legge è accolto con favore anche dall’Unione delle Camere Civili, il cui presidente, Alberto Del Noce, sottolinea: «Abbiamo registrato un aumento significativo delle azioni risarcitorie contro i legali. Anche se le condanne effettive si attestano intorno al 15%, il clima di incertezza ha fatto lievitare i premi assicurativi e limitato la serenità con cui gli avvocati possono esercitare il loro ruolo».

Secondo i sostenitori della riforma, limitare la responsabilità civile ai casi di dolo e colpa grave non significherebbe ridurre la qualità della tutela legale, ma consentirebbe agli avvocati di operare senza il timore di essere puniti per errori veniali o divergenze interpretative. Tuttavia, resterebbero punibili le negligenze evidenti e i comportamenti gravemente colposi.

Le prossime mosse
Ora il testo attende di essere calendarizzato per la discussione in Aula. L’auspicio dei promotori è che possa essere approvato prima della pausa estiva. Nel frattempo, tra le ipotesi al vaglio per ridurre il contenzioso in questo settore c’è anche l’introduzione dell’obbligo di mediazione preventiva, già previsto per la responsabilità sanitaria, come alternativa ai giudizi civili.


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Referendum al palo, il governo pensa a una stretta: soglia più alta per le firme online

ROMA — Le urne semi-deserte e l’affluenza ai minimi storici spingono il governo e la maggioranza a ragionare su un possibile giro di vite per il sistema dei referendum abrogativi. L’ipotesi che circola nelle ultime ore è quella di aumentare il numero minimo di firme richieste, soprattutto per quelle raccolte online, e introdurre una sorta di selezione preventiva dei quesiti da sottoporre al voto popolare.

Una riflessione inevitabile alla luce del flop annunciato delle consultazioni referendarie di queste ore, con il rischio concreto che il quorum resti lontano e i quesiti vengano archiviati senza scalfire il quadro politico. Una prospettiva che il centrodestra osserva con favore, mentre il governo si prepara a gestire le ricadute.

Diversi esponenti della maggioranza, dal vicepremier Tajani al leader della Lega Salvini, hanno già rilanciato la necessità di rivedere i meccanismi di accesso ai referendum, resi più semplici dalla possibilità di raccogliere le firme in digitale grazie a una piattaforma attivata solo di recente. «Uno strumento utile — riconoscono da Forza Italia — ma serve trovare un equilibrio per evitare un’inflazione di quesiti che rischiano di trasformarsi in consultazioni di scarso interesse e bassa partecipazione».

Tra le proposte sul tavolo, quella di alzare la soglia attualmente fissata a 500mila firme, spostandola forse verso quota un milione, e di introdurre una verifica preventiva di ammissibilità e rilevanza dei quesiti, per evitare che le urne vengano riaperte ogni anno per referendum destinati al fallimento.

Il primo banco di prova per queste possibili modifiche sarà l’autunno, con le prossime elezioni regionali e, più avanti, con una verifica sugli effetti reali della raccolta firme online, che ha già evidenziato criticità. Intanto, la premier Meloni osserva il quadro con cautela, consapevole che anche tra gli elettori del centrodestra la voglia di recarsi al seggio si è fatta flebile, mentre la politica continua a interrogarsi sul futuro degli strumenti di democrazia diretta.


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