Come sconfiggere i call center e il telemarketing selvaggio?

Chiamano a qualsiasi ora. Dall’altra parte del telefono sentiamo una voce meccanica o una persona fisica che recita una filastrocca di servizi e di offerte. Ormai è da molti anni che in Italia si tenta di sconfiggere il telemarketing selvaggio, ma sembra che non ci sia nulla da fare, anzi, diventa sempre più aggressivo.

Siamo quasi sempre noi a fornire il nostro consenso, inconsapevolmente, a questa scocciatura. Ogni volta che ci registriamo ad un sito web, ogni volta che forniamo dei dati per i quali seguirà il loro inserimento in un gestionale (parrucchiere, Poste Italiane, fornitore di bevande, estetista, WhatsApp, sostanzialmente tutte le entità che usano software di terzi) anche se indicato il diniego all’utilizzo dei dati o la divulgazione a terzi, gli stessi verranno presi ed utilizzati ugualmente.

Nonostante il mancato consenso, i dati vengono fagocitati dalla rete mondiale, talvolta anche senza consapevolezza dell’operatore che li sta inserendo (estetista, ristorante, ecc.).

Il fallimento del Registro Pubblico delle Opposizioni

Ci hanno detto che abbiamo a disposizione delle armi affinché queste telefonate non arrivino più, come, per esempio, il Registro Pubblico delle Opposizioni (RPO). È un servizio gratuito che viene fornito dal Ministero dello Sviluppo Economico e che consente ai cittadini di richiedere il blocco delle chiamate da parte dei call center.

Il Registro Pubblico delle Opposizioni è attivo già dal 2010, ma dallo scorso luglio, grazie al Dpr 26/2022 è stato esteso anche ai numeri di cellulare. Teoricamente, le chiamate di telemarketing dovrebbero essere interrotte entro 15 giorni dall’iscrizione al registro.

Con l’iscrizione si annullano in maniera automatica tutti i consensi che sono stati rilasciati in precedenza, tranne quelli con i gestori delle utenze telefoniche. Restano validi, invece, quelli che vengono attivati dopo l’iscrizione al registro.

I call center e gli operatori devono consultare ogni mese il RPO; lo devono fare anche prima di svolgere qualsiasi nuova campagna pubblicitaria telefonica. Il problema è che il Registro Pubblico delle Opposizioni proprio non funziona, anche perché la maggior parte di queste chiamate sono a capo di società estere che non sanno nemmeno cosa sia un registro opposizioni.

Hiya e Truecaller

Si potrebbe pensare, dunque, di appoggiarsi alle app che identificano e bloccano le chiamate spam, come Hiya e Truecaller. Purtroppo, recentemente si è scoperto che proprio queste app rubano i dati degli utenti, per rivenderli a terzi. Quest’ultimi, sulla base di tali dati, studiano la miglior strategia per raggiungere un utente senza trovare “resistenze”.

Servicematica Security mette in guardia da queste società che vendono ad aziende e privati la possibilità di chiamare i consumatori senza poter essere segnalati o bloccati.

Il consumatore, all’oscuro di queste dinamiche, vedrà i propri dati venduti a terzi, che li utilizzeranno per ricerche di mercato e per il telemarketing.

Il Garante della Privacy non è in grado di bloccare tutte queste minacce, nonostante sia nato anche per questo scopo, quindi dobbiamo provare a difenderci autonomamente.

Vi sarà stato anche suggerito di bloccare manualmente il numero dal quale si riceve la chiamata, inserendolo nella blacklist del telefono. Dunque, ogni volta che richiamerà verrà considerato come spam e bloccato immediatamente dal nostro smartphone.

Ma è una tecnica che non funziona, visto che i call center ci richiameranno con altri numeri. Il dott. Piero Menetto, componente del team di Cyber Security Servicematica, spiega come la maggior parte delle telefonate avvenga con dei numeri camuffati, ovvero con la tecnica dello spoofing, che rende piuttosto difficile per noi comprendere chi c’è dietro una chiamata e molto semplice per le aziende falsificare continuamente il loro numero, utilizzandone uno virtuale.

Sembra che attualmente non esistano armi per sconfiggere del tutto i call center e il telemarketing selvaggio, ma…possiamo provare a difenderci!

Come possiamo difenderci dai call center?

L’unica difesa che abbiamo per smascherare questi pirati selvaggi è quella di verificare il numero che ci sta chiamando.

Come fare?

L’azione da intraprendere è quella di non accettare la chiamata in entrata e richiamare subito il numero chiamante.

Può sembrare un’azione folle, ma se analizzata attentamente non è poi così spiacevole o impercorribile. Se ci pensate bene, sarebbe limitata a quei numeri non registrati in rubrica, e nel caso fosse un cliente, verrebbe ricontattato immediatamente.

Per capire se il numero che ci sta chiamando arriva da un call center, dunque, quello che possiamo fare è mettere giù e richiamare. Se quando richiamiamo il numero risulta inesistente, avremo la certezza di aver a che fare con un call center, poiché si tratta di un numero finto/virtuale.

Il gruppo Servicematica Cybersecurity ha testato questa tecnica su un campione di 100 persone per un periodo di 6 mesi ed i risultati ottenuti sono stati ottimi.

Nel lungo termine le chiamate diminuiscono, viene meno il loro scopo di contattarci, e sarà sicuramente un forte segnale per questi pirati. Da non sottovalutare anche la soddisfazione di averli bloccati.


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La riforma del sistema giudiziario è una priorità per 3 italiani su 4. Questo è quanto emerso da un sondaggio realizzato da Quorum/YouTrend per Sky TG24.

Secondo il 72% degli intervistati, infatti, questa riforma è qualcosa di prioritario, anche se soltanto per il 20% di questi è una priorità assoluta. L’urgenza della riforma è avvertita principalmente dagli elettori della maggioranza, mentre le opposizioni la vedono come una cosa meno prioritaria.

Secondo il 40% degli italiani intervistati, all’interno della magistratura è presente una corrente che tenta di ostacolare il governo Meloni, mentre il 41% non è d’accordo con questa affermazione. Secondo il 56%, invece, è molto difficile riformare il mondo della Giustizia, poiché la magistratura potrebbe ritorcersi contro la politica.

Gli italiani, in materia di riforma della giustizia, sostengono soltanto la separazione delle carriere. Tra i vari elementi della riforma, questo, infatti, è l’unico che mette d’accordo la maggior parte degli intervistati, ovvero il 65%.

Nel complesso, il 45% degli italiani è d’accordo con la riforma della giustizia, mentre il 34% ha un giudizio negativo in merito.

Per quanto concerne il lavoro dei magistrati, invece, il 69% degli italiani intervistati è convinto che il sistema dovrebbe essere più rigido. Per il 42% degli intervistati, per valutare l’operato della magistratura ci dovrebbe essere una commissione nominata dal Csm.

fonte: Sky TG24


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Rinviato al 1° gennaio 2025 l’entrata in vigore definitiva del processo penale telematico.

Francesco Greco, il presidente del Consiglio Nazionale Forense, sin dal principio ha richiesto al Ministero della Giustizia una soluzione di buon senso, tenendo in considerazione determinati limiti oggettivi, come, per esempio, l’infrastruttura telematica, che talvolta non permette di portare a termine la procedura di deposito, così come la formazione dei magistrati e del personale delle cancellerie.

Le richieste avanzate dal Cnf, dall’Ocf, dall’Unione delle Camere penali italiane e dall’Aiga sono state accolte positivamente, a seguito di un confronto per esporre le principali preoccupazioni degli avvocati.

L’utilizzo esclusivo del deposito telematico degli atti penali a partire dal 1° gennaio 2024 avrebbe comportato troppi rischi. Dunque, resta la possibilità per un altro anno del deposito in cancelleria degli atti in formato cartaceo e con PEC.

Francesco Greco sottolinea quanto lavoro di squadra si sia fatto nel corso degli ultimi mesi: «Il risultato conseguito è frutto della collaborazione con le altre componenti dell’avvocatura e della disponibilità mostrata dal ministero della Giustizia, nella persona del viceministro Sisto. Una soluzione saggia per dare piena attuazione al processo penale, che, però, non può essere lasciato al caso, all’improvvisazione, ma necessita di andare avanti per gradi in modo da approdare definitivamente al ppt senza rischi».

«L’avvocatura», prosegue, «non è contro il processo penale telematico. Si tratta di uno strumento tecnologico con il quale gli avvocati devono confrontarsi, ma pretendiamo che ci siano le giuste garanzie di efficienza. Il portale presenta tuttora aspetti problematici, per questo abbiamo chiesto la possibilità di prevedere un ulteriore periodo di rodaggio, fino al 31 dicembre 2024, per consentire agli avvocati di depositare gli atti anche tramite posta certificata».

Per Francesco Paolo Sisto, viceministro della Giustizia, «L’obiettivo è consentire la definitiva digitalizzazione. Il portale, a fine corsa, sarà l’unico luogo in cui gli atti potranno essere depositati. Questo percorso viene accompagnato, fino a quando non avremo la certezza che il portale sarà perfettamente funzionante, da alcune forme alternative da intendersi di soccorso all’utilizzo del portale stesso. Non dimentichiamo, infine, che vanno implementati i percorsi formativi sia per i cancellieri che per gli avvocati. Abbiamo provato a far partire la digitalizzazione dal basso, anziché dall’alto. È stato questo lo spirito che ci ha animato, rendendo l’avvocatura pienamente partecipe».


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«La collaborazione tra Csm e Ministro è la chiave per restituire al Paese una giustizia sempre più vicina ai bisogni della collettività». Esordisce così il Guardasigilli Nordio durante il plenum straordinario. La riunione si è tenuta oggi, 30 novembre 2023, ed è stata presieduta da Sergio Mattarella.

Sottolinea il ministro Nordio: «La mia presenza oggi oltre ad essere l’occasione di un doveroso omaggio all’alta Istituzione che mi accoglie, intende riaffermare uno dei principi costituzionali che auspico possa connotare ogni segmento del mio servizio: la leale collaborazione».

Tale concetto dovrà essere inteso in quanto principio che «orienta gli attori del sistema ordinamentale verso un raccordo, di pensiero e di azione, per il raggiungimento degli obiettivi comuni».

Prosegue il Guardasigilli: «Troppo importante per chi vi parla è contribuire a rinsaldare il rapporto di fiducia della collettività nei confronti della magistratura, uno dei pilastri dello stato di diritto. È questa una delle direttrici essenziali del disegno riformatore portato avanti dal Governo».

Tutte le riforme in materia di giustizia non intaccheranno in alcun modo la libertà e l’indipendenza del mondo della magistratura. Sono temi che rappresentano «una grande conquista che sarà ribadita dalle riforme, ma la vera indipendenza è dentro di noi».

Aggiunge: «A questo mondo non vi è nulla di eterno tranne le parole del Signore. Il resto è mutevole. E così è anche la Costituzione», che, se dovesse subire modifiche, «mai e poi mai vi sarebbe una soggezione anche minima del pm al potere esecutivo».

Durante il plenum Nordio parla anche di processo penale telematico, che dal prossimo gennaio «sarà una realtà: la affronteremo insieme, a cadenze serrate ma con opportuna gradualità che porta a sintesi le esigenze e le soluzioni rappresentate così dall’Avvocatura come dagli uffici giudiziari».


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Stretta sulle intercettazioni: d’ora in avanti sarà vietato ascoltare le conversazioni tra legale e indagato, «salvo che l’autorità giudiziaria abbia fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato».

Non potrà più avvenire nemmeno il sequestro indiscriminato dei vari dispositivi elettronici, quali smartphone, pc e tablet. Inoltre, si mette un freno all’utilizzo del trojan, ovvero lo strumento informatico che consente ai pm di conoscere qualsiasi cosa relativa all’indagato.

Il governo, dichiara Carlo Nordio ai microfoni del Corriere, si muoverà molto rapidamente, per poter assicurare la «parità tra accusa e difesa» e «l’inviolabilità delle comunicazioni» che avvengono tra il difensore e l’assistito.

Si tratta di una tutela già prevista dal Codice Penale, ma anche da varie sentenze da parte della Cassazione, della Cedu e dell’Ue, che, tuttavia, è stata snobbata nella pratica.

Da queste premesse parte la proposta di legge del senatore di FI Pierantonio Zanettin. Tranne i casi nei quali il pm abbia un motivo fondato di credere che le telefonate tra avvocato e indagato compongano «il corpo del reato», sarà vietato il sequestro e qualsiasi «forma di controllo».

Se intercettate, le telefonate con gli avvocati, non potranno «in alcun caso essere trascritte nemmeno sommariamente, sono immediatamente distrutte». Se i giudici non si adegueranno commetteranno un «illecito disciplinare».

Tale riforma sarà completamente «a tutela del diritto di difesa». In questo momento in cui cresce la tensione tra le toghe e il governo, si tenta di evitare uno scontro frontale con i giudici scrivendo un nuovo testo mirato, tecnico. Troviamo anche un intervento circa la durata delle intercettazioni, ponendo un limite alle proroghe che richiede il Pm.

Questa nuova disciplina, anticipata da una proposta di legge firmata da Forza Italia, metterà il pm nelle condizioni di fermarsi ad una sola proroga per quanto concerne le captazioni telefoniche nel caso in cui «nel corso degli ultimi due periodi di intercettazione precedenti, comunque autorizzati, non siano emersi elementi investigativi utili alle indagini».

Presente anche una nuova norma che assimila il sequestro di pc, smartphone e tablet alle intercettazioni. Il pm, dunque, sarà autorizzato ad estrarre soltanto le informazioni essenziali per le indagini, e dovrà anche procedere alla «duplicazione integrale» dei dispositivi su ulteriori supporti informatici, consentendo all’indagato di verificare se sono presenti manomissioni.


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A Palazzo Chigi si punta all’introduzione dei test psico-attitudinali per entrare in magistratura. Ci potrebbe volere del tempo, certo, ma intanto l’ipotesi è stata messa sul tavolo, nonostante non sia stata inserita nel due decreti legislativi varati dal Cdm per proseguire con la Riforma della Giustizia.

L’opposizione richiede che il ministro riferisca al più presto in Aula alla Camera, e anche l’Anm esorta a non «lasciare che le sue parole cadano nel vago».

I test psico-attitudinali esistono già per le forze dell’ordine, e vengono effettuati con cadenza periodica. Il governo vorrebbe estendere questi test a quei pubblici ufficiali che hanno alti incarichi di responsabilità, dai quali «dipende la libertà dei cittadini, come appunto i magistrati: è una questione di buonsenso».

Non si è ancora trovato lo spazio per l’introduzione della questione all’interno dei due decreti legislativi. In uno viene rivisto il sistema per la valutazione dei magistrati, mentre nell’altro troviamo una stretta riguardo il collocamento fuori ruolo delle toghe, portando il limite a 7 anni.

Di certo non è la prima volta che si discute sul tema, visto che anche in magistratura è avvenuto un confronto sui sistemi che devono essere affiancati al concorso. Tuttavia, ha creato non poche tensioni tra la politica e le toghe.


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Una sentenza della Corte di Giustizia Ue ha stabilito che negli uffici pubblici sarà legale vietare ai dipendenti di indossare qualsiasi segno esplicito di appartenenza religiosa, come, per esempio, il velo che indossano le donne musulmane.

Nella sentenza si legge che gli uffici pubblici devono creare un ambiente neutro, e che questo tipo di divieti dovranno essere rispettati da tutti i dipendenti allo stesso modo, al fine di non risultare discriminatori.

La Corte stabilisce la legittimità della scelta opposta, ovvero di evitare l’imposizione ai funzionari degli uffici pubblici qualsiasi tipo di limitazione ai simboli di fede religiosa che vengono indossati.

La sentenza arriva in risposta alla richiesta di presentazione di un parere da parte di un tribunale belga, poiché un’impiegata pubblica di religione musulmana aveva fatto ricorso in quanto pensava di essere stata discriminata dal datore di lavoro che le aveva imposto di non indossare il velo in ufficio.

La Corte di Giustizia Ue deve garantire il rispetto delle norme europee all’interno dell’Ue. Dunque, tale sentenza vale in tutti gli uffici pubblici di tutto il territorio Ue.


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Troppo ricchi per l’accesso al gratuito patrocinio e troppo poveri per intentare un’azione legale.

Fanno fatica ad arrivare alla fine del mese, non vanno in vacanza e rimandano l’apparecchio ai denti dei figli. Queste famiglie non possono assolutamente permettersi le parcelle dell’avvocato.

Circa 3 milioni di famiglie italiane vivono con un’entrata mensile di 1.100 euro, e almeno 600.000 di queste rinunciano alla difesa, anche se subiscono gravi torti.

Per alcuni la giustizia è un lusso, e il diritto inviolabile alla difesa sembra che non possa essere rispettato. Si pensi alle situazioni in cui un lavoratore subisce un grave infortunio sul posto di lavoro, ma non può permettersi di intentare una causa contro il datore, oppure ai pazienti vittime di malasanità che non possono mettersi contro le big del settore.

Per tutte queste persone è attualmente in corso un’opera per modificare la legge, al fine di ridisegnare i parametri previsti dal gratuito patrocinio, rendendo i tribunali veramente «uguali per tutti».

Il nuovo provvedimento è promosso da Chiara Tacchi (Studio Tacchi & Tosini), attualmente in contatto con la Commissione giustizia in Parlamento. «È intollerabile pensare che ci siano persone che non si sentano legittimate a difendere i propri diritti. Vogliamo che la difesa sia accessibile e inclusiva», dichiara Tacchi.

Appoggia il provvedimento anche l’Associazione degli avvocati Pro Bono. Spiega il presidente dell’associazione Giovanni Carotenuto: «Abbiamo già redatto le linee guida per la gestione del pro bono in team misti di avvocati e giuristi d’impresa e ci rifacciamo al modello anglosassone dove gli studi legali che si prestano all’assistenza legale senza parcella sono molti».


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D’ora in poi, per richiedere il certificato anagrafico si potrà andare all’ufficio postale. Questo è quanto stabilito dallo schema di regolamento del servizio, che dovrà essere approvato con un decreto del ministro dell’Interno.

Il decreto, che, con il provvedimento n. 493 del 26 ottobre 2023 ha avuto parere favorevole del Garante Privacy, interesserà soltanto i Comuni con meno di 15mila abitanti.

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Secondo lo schema del decreto, dopo essere passati alla fase operativa, sarà possibile recarsi fisicamente all’ufficio postale per richiedere telematicamente i certificati anagrafici dei cittadini iscritti all’Anagrafe Nazionale Popolazione Residente.

Gli utenti verranno identificati mediante codice fiscale e documento di riconoscimento. Dopo aver verificato l’identità del richiedente, l’operatore postale potrà stampare il certificato anagrafico in .pdf.

Al fine di evitare abusi, gli operatori addetti al rilascio dei certificati dovranno rispettare determinati processi di autenticazione e di identificazione.

Le operazioni di rilascio, sempre al fine di evitare che avvengano degli utilizzi impropri del servizio, verranno registrate e conservate per 36 mesi, garantendo anche la tracciabilità delle varie operazioni effettuate.

Nell’area riservata di Anpr troveremo lo storico dei certificati emessi nel corso dell’ultimo anno, affinché la persona interessata potrà controllare se sono stati richiesti certificati che la riguardano.

I dipendenti di Poste riceveranno un’apposita informativa ai sensi dello Statuto dei Lavoratori, eliminando qualsiasi possibilità di accesso al servizio da remoto. Poste Italiane attiverà dei sistemi di controllo e di gestione dei rischi, per poter mantenere sempre aggiornate le misure di sicurezza per difendersi eventuali attacchi informatici ai sistemi.


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Nelle ultime ore stanno circolando alcune notizie che affermano che dal prossimo 30 novembre 2023 tutte le comunicazioni da parte della PA arriveranno esclusivamente tramite PEC.

In realtà, non spariranno le comunicazioni tradizionali cartacee, e arriverà comunque una notifica presso la propria abitazione.

Dichiara il Presidente di Adiconsum Parma e Piacenza, Aurelio Carlo Vichi: «La normativa dice queste cose però si è persa nei meandri dell’attuazione. In effetti c’era questa disposizione però poi non abbiamo avuto la certezza di un decreto che spiegasse come fare. Da quello che noi abbiamo potuto appurare non c’è questo obbligo. A chi ha già la PEC consigliamo comunque l’iscrizione nel registro previsto nella normativa».

L’Indice Nazionale dei Domicili Digitali (INAD) è accessibile a tutti dallo scorsa estate, e consente alla PA di utilizzare la PEC di tutti i cittadini iscritti all’INAD per inviare comunicazioni che hanno validità legale.

Continua Vichi: «C’è confusione comunque su questo tema. Purtroppo accade spesso che il cittadino vada in difficolta perché non sa come comportarsi. Noi comunque abbiamo fatto questa ricerca e capito che non c’è questo obbligo di avere una PEC per i cittadini».


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