È un nuovo terreno di scontro quello che si è aperto tra il Parlamento e la magistratura associata, con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della legge 31 marzo 2025, n. 47 – meglio nota come “legge Zanettin” – che modifica la disciplina in materia di durata delle operazioni di intercettazione. La norma, approvata definitivamente alla Camera il 19 marzo scorso, entrerà in vigore il prossimo 24 aprile, ma già alimenta un acceso dibattito tra garantismo e efficientismo nel processo penale.
La legge introduce un limite massimo di 45 giorni alla durata complessiva delle intercettazioni nel regime ordinario, prorogabile solo se l’assoluta indispensabilità della misura è giustificata da «elementi specifici e concreti», oggetto di «espressa motivazione» da parte del Pubblico Ministero e sottoposti al vaglio del Giudice.
Un passaggio che, secondo la Giunta Unione Nazionale Camere Penali e l’Osservatorio Doppio Binario e Giusto Processo, rappresenta un tentativo chiaro di riequilibrare il sistema investigativo, ponendo un argine all’uso distorto delle intercettazioni e restituendo centralità al Giudice nel controllo della legalità e proporzionalità della misura.
Ma la reazione della magistratura associata è stata tutt’altro che conciliante. Il timore, dichiarato, è che il nuovo termine possa limitare l’efficacia delle indagini preliminari, generando un sistema troppo rigido e asimmetrico rispetto ai tempi lunghi concessi per l’intera fase investigativa.
Una posizione che, agli occhi dei firmatari della nota, tradisce «un’insofferenza verso ogni forma di controllo effettivo del Giudice sull’operato del Pubblico Ministero». È proprio questo, sottolineano, il nodo cruciale: «la novità vera è la richiesta di una reale motivazione, un onere rafforzato che eviti automatismi e garantisca la terzietà del Giudice».
Il nuovo art. 267, comma 3, c.p.p., diventa così uno snodo centrale del bilanciamento tra l’efficacia investigativa e i diritti fondamentali. Non solo dell’indagato, ma anche – e soprattutto – dei terzi estranei ai fatti oggetto d’indagine, sempre più spesso coinvolti da captazioni invasive.
Sul piano sistemico, la legge viene letta come una risposta alle censure della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, nel 2023, aveva condannato l’Italia per la mancanza di adeguate garanzie rispetto alla privacy di soggetti estranei alle indagini.
Tuttavia, la Giunta solleva anche perplessità su alcuni aspetti della riforma: mancano disposizioni transitorie che chiariscano l’applicazione ai procedimenti già in corso, e restano incertezze sull’ambito temporale entro cui debbano emergere gli elementi giustificativi della proroga.
E poi c’è il rischio opposto: che, mentre si limita il regime ordinario, si continui ad ampliare senza freni quello speciale previsto dall’art. 13 del D.L. n. 152/1991, già esteso a una vasta gamma di reati anche solo “assimilati” alla criminalità organizzata o al terrorismo. Una deriva che alimenta il timore delle “intercettazioni eterne” e di una normativa d’eccezione diventata la regola.
Non è un caso che, dopo che la Corte di Cassazione nel 2022 aveva ristretto l’ambito di applicazione del regime speciale, il legislatore sia prontamente intervenuto con una norma di interpretazione autentica per “riaprire gli argini”.
Secondo la Giunta, serve tornare allo spirito originario delle intercettazioni: uno strumento di ricerca della prova, non un mezzo generalizzato di investigazione preventiva. E l’efficacia delle nuove norme dipenderà in gran parte dalla capacità del Giudice di esercitare pienamente il proprio ruolo di garante, senza “appiattimenti” sulle richieste del P.M., come accaduto in passato anche con le misure cautelari.
In definitiva, la legge Zanettin tenta di ripristinare un equilibrio costituzionale troppo spesso sacrificato in nome dell’efficienza investigativa. Ma per realizzare davvero un processo giusto serve una svolta culturale nella giurisdizione: «un Giudice terzo – si legge nella nota – che non condivida gli scopi del P.M., ma li sorvegli, in nome dei diritti di tutti i cittadini».
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