La reputazione è un capitale intangibile, ma sempre più concreto, sia per le aziende pubbliche che per quelle private. E oggi i tribunali lo riconoscono apertamente, soprattutto quando a minacciarla sono comportamenti “virali” sui social network. Scatti pubblicati durante la pausa pranzo, stories ironiche, video goliardici e persino like su commenti offensivi possono costare caro: il licenziamento è spesso ritenuto legittimo.
A Roma, una commessa è stata licenziata per aver pubblicato su TikTok un video in cui si lamentava – con tanto di emoji buffa – del fatto che fosse solo mercoledì. Era in pausa, ma per il Tribunale (sentenza n. 6854/2023) il tono usato danneggiava l’immagine dell’azienda. A Messina, invece, un lavoratore ha perso il posto per aver pubblicato su Facebook un video in cui accusava il datore di lavoro di soprusi, apprezzando pubblicamente commenti denigratori altrui (sentenza n. 2275/2024).
I giudici ricordano che i social network, per quanto personali, sono da considerare “luoghi aperti al pubblico”, anche se l’account ha pochi contatti. La dimensione pubblica dei contenuti condivisi è determinante: il tono ironico o scherzoso non giustifica il danno alla reputazione del datore di lavoro. Per contro, le conversazioni su chat private restano tutelate dal diritto alla riservatezza. La Cassazione (sentenza n. 5334/2025) ha stabilito che non si può licenziare un dipendente solo perché ha condiviso su WhatsApp commenti critici, a meno che non li abbia resi pubblici.
Ma non si tratta solo di parole. Anche i contenuti visivi possono diventare un boomerang. A Napoli, una lavoratrice è stata licenziata per aver fotografato – e condiviso – un’auto industriale ancora non in commercio, immortalata durante l’orario di lavoro. La Corte d’Appello (sentenza n. 3470/2024) ha annullato il licenziamento solo per carenza di prova del danno e per la mancata comunicazione del divieto di uso del cellulare.
Ancora più gravi sono gli episodi legati a offese razziste, comportamenti contrari all’etica o immagini inappropriate. A Sassari, un infermiere ha perso il lavoro per essersi travestito da personaggio horror durante l’orario di servizio, scattandosi foto con le colleghe e postandole online (sentenza n. 387/2021). Il Tribunale ha sottolineato il messaggio diseducativo e l’incompatibilità con il ruolo ricoperto.
Nemmeno la vita privata è al riparo: il dipendente che pratica sport contrari alle prescrizioni mediche aziendali e pubblica i video sui social viola il dovere di diligenza e può essere licenziato. È il caso esaminato dalla Corte d’Appello di Roma (sentenza n. 4047/2025), in cui un lavoratore inidoneo a sollevare pesi è stato immortalato in intensi allenamenti in palestra.
Le investigazioni aziendali, sempre più frequenti, fanno leva sulle pubblicazioni online per dimostrare l’infedeltà del dipendente. A Benevento (sentenza n. 1053/2024), il giudice ha confermato che i video pubblici – anche se condivisi per vanità o leggerezza – possono legittimare sanzioni, specie se rivelano comportamenti contrari alle indicazioni mediche.
La giurisprudenza chiarisce anche i confini del diritto di critica: è garantito dalla Costituzione, ma deve rimanere nei limiti della “continenza espressiva”. Commenti e post offensivi, anche se fondati, non possono ledere la dignità e l’immagine dell’azienda. Un lavoratore che pubblica stories su Instagram insultando colleghi o superiori può dunque essere licenziato per giusta causa. E ciò vale anche per i dipendenti pubblici: offese rivolte all’ente di appartenenza, anche se mascherate da “sfoghi” personali, ledono il rapporto fiduciario e giustificano l’allontanamento.
Infine, attenzione anche ai permessi e alle malattie. Il dipendente che posta foto di vacanze o concerti mentre usufruisce di congedi o permessi studio rischia il licenziamento per violazione del vincolo fiduciario. È il caso deciso a Napoli (sentenza n. 658/2025), dove un lavoratore ha provato – invano – a giustificare con fotografie “datate” la propria presenza in Thailandia.
In un mondo sempre più interconnesso, i social sono diventati lo specchio non solo della vita privata, ma anche dell’affidabilità professionale. E la leggerezza, sui social, può costare molto più di un like.
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