5 Febbraio 2020

laureati in giurisprudenza

Sempre meno laureati in giurisprudenza. Che succede?

Cari Avvocati, non starete mica diventando una specie in via d’estinzione?

Anvur, agenzia pubblicitaria controllata dal Miur, ha condotto un’indagine i cui risultati dicono questo: in poco più di 10 anni, dal 2006 al 2018, gli iscritti alle facoltà di Giurisprudenza e di Scienze Giuridiche sono quasi dimezzati, da 29.000 a 18.000.
Nel 2008/09 gli immatricolati a queste facoltà erano il 10,5% del totale. Oggi sono il 6,9%.

Cosa sta succedendo?

Semplice: laurearsi in Giurisprudenza non è più così attraente.

Il perché dipende da soprattutto da 2 fattori:

  1. il percorso di studio.
    Strutturato in un unico ciclo di 5 anni e, forse, poco adeguato a rispondere alle nuove esigenze: niente inglese, niente informatica, specializzazioni nelle nuove frontiere del diritto solo una volta giunti al master. Tutto ciò si traduce in una mancanza di competenze subito spendibili sul mercato del lavoro. E gli studenti ne sono consapevoli;
  2. gli sbocchi lavorativi.
    L’entrata nel mercato del lavoro dei laureati in giurisprudenza avviene tardi: il primo impiego arriva a 22,5 mesi dalla laurea, il doppio del tempo rispetto agli altri laureati di secondo livello.
    Questo ritardo dipende soprattutto dal percorso di abilitazione che richiede 18 mesi di praticantato (non sempre sostenibili durante gli studi) e, poi, l’esame.

Secondo un report di AlmaLaurea per il Sole 24 Ore del Lunedì,  i laureati di secondo livello del 2013 che a cinque anni dal titolo hanno dichiarato di svolgere la professione sono prevalentemente donne (59,0%) e vengono da famiglie di laureati (38,5% contro il 30,6% complessivo).

I laureati in giurisprudenza lavorano prevalentemente nel privato (98,9% rispetto al 74,2%) o come liberi professionisti (89,3% anziché 21,1%), soprattutto nella consulenza legale.

SOLUZIONI?

Prima di tutto, rinnovare il percorso di studi dando maggiore spazio alle competenze richieste dal mercato.

Antonio De Angelis, presidente dei giovani avvocati di Aiga, si esprime così: «si potrebbero rendere facoltativi alcuni esami “storici”, come istituzioni di diritto romano o filosofia del diritto per lasciar posto a temi come l’inglese legale o, più urgente di tutti, il diritto delle nuove tecnologie».

Un’altro cambiamento che sarebbe importante portare avanti, solo a fronte delle migliorie al percorso di studi, riguarda la percezione della spendibilità del proprio titolo: chi l’ha detto che il laureato in Giurisprudenza debba solo puntare a diventare avvocato o a partecipare a concorsi pubblici, sbocchi lavorativi ormai saturi?
Perché non puntare su ciò che le grandi aziende chiedono, ovvero esperti in diritto commerciale, societario, marchi e brevetti?

[Fonti: money.it , Sole24Ore]

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