Se l’uomo ha fornito il proprio consenso alla procreazione medicalmente assistita, questo non potrà in alcun modo essere revocato dopo la fecondazione.
La Corte costituzionale è stata chiamata a valutare la legittimità dell’irrevocabilità del consenso fornito dall’uomo in seguito alla fecondazione dell’ovulo. Con la sentenza 161/2023 la questione è stata ritenuta non fondata, citando l’art. 6, comma 3, ultimo periodo della legge 40/2004.
Tale norma rende possibile la richiesta dell’impianto dell’embrione non soltanto a distanza di tempo, ma a anche se viene meno il progetto della coppia. Nello specifico, una donna aveva richiesto l’impianto di un embrione crioconservato, ma nel frattempo si era separata dal coniuge.
Quest’ultimo si era opposto, andando a ritirare il proprio consenso prestato in precedenza, ritenendo di non essere soggetto all’obbligo di divenire padre. Il giudice ha dunque sollevato la questione della costituzionalità in relazione alla norma che va a stabilire l’irrevocabilità del consenso.
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Riconoscendo che la norma «si è venuta a collocare al limite di quelle che sono state definite “scelte tragiche”, in quanto caratterizzate dall’impossibilità di soddisfare tutti i confliggenti interessi coinvolti nella fattispecie», questa sentenza sottolinea come l’irrevocabilità del consenso sembra essere funzionale, salvaguardando gli interessi preminenti.
Per la donna, accedere alla PMA comporta «il grave onere di mettere a disposizione la propria corporalità, con un importante rivestimento fisico ed emotivo in funzione della genitorialità che coinvolge rischi, aspettative e sofferenze, e che ha un punto di svolta nel momento in cui si vengono a formare uno o più embrioni».
Il corpo e la mente dalla donna, dunque, sono interessanti da un legame indissolubile, che termina nella speranza di generare un figlio, dopo l’impianto dell’embrione nell’utero. «A questo investimento, fisico ed emotivo, che ha determinato il sorgere di una concreta aspettativa di maternità, la donna si è prestata in virtù dell’affidamento in lei determinato dal consenso dell’uomo al comune progetto genitoriale».
«Se è pur vero», inoltre, «che dopo la fecondazione la disciplina dell’irrevocabilità del consenso si configura come un punto di non ritorno, che può risultare freddamente indifferente al decorso del tempo e alle vicende della coppia, è anche vero che la centralità che lo stesso consenso assume nella PMA, comunque garantita dalla legge, fa sì che l’uomo sia in ogni caso consapevole della possibilità di diventare padre; ciò che rende difficile inferire, nella fattispecie censurata dal giudice a quo, una radicale rottura della corrispondenza tra libertà e responsabilità».
Nella sentenza si conclude che «ove si considerino la tutela della salute fisica e psichica della madre, e anche la dignità dell’embrione», è ragionevole la compressione della libertà di autodeterminazione dell’uomo rispetto alla prospettiva della paternità.
La ricerca di un diverso punto di equilibrio tra le varie esigenze in gioco spetta soltanto al legislatore.
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