Dopo trent’anni di silenzio, l’Italia riapre le sue miniere, o meglio, ne esplora il potenziale. La corsa mondiale alle materie prime strategiche per le tecnologie verdi e digitali — dalle batterie elettriche ai semiconduttori, fino ai dispositivi per l’aerospazio — impone di muoversi. Così, il Comitato interministeriale per la Transizione ecologica ha dato il via libera al Programma nazionale di esplorazione mineraria generale (Pne), un progetto che punta a capire se e dove il sottosuolo italiano possa offrire risorse utili alla nuova economia industriale.
Un investimento di 3,5 milioni di euro finanzierà la prima fase: 14 progetti distribuiti in dieci regioni italiane, dalla Lombardia alla Sardegna, con il coinvolgimento di 400 specialisti e 15 unità operative coordinate dal Servizio geologico d’Italia (Ispra). Le esplorazioni dovrebbero partire a settembre e si concentreranno su materiali essenziali come litio, grafite, rame, antimonio, tungsteno, titanio, terre rare e fluorite.
Per ottenere risultati, il programma userà tecnologie avanzate: dalla radiografia muonica, che sfrutta i raggi cosmici per “leggere” le rocce, all’intelligenza artificiale per elaborare dati e aggiornare il database minerario nazionale Gemma.
Ma le criticità non mancano. Tre i punti deboli individuati dagli analisti:
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la limitata conformazione territoriale, che secondo Maurizio Mazziero, analista finanziario e co-autore del libro La mappa del tesoro, permetterà all’Italia di eccellere solo su materiali specifici come fluorite e feldspati, con qualche produzione rilevante su litio, antimonio e titanio;
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l’assenza di una filiera industriale per l’estrazione, raffinazione e lavorazione dei materiali. «Se estraiamo antimonio e poi dobbiamo raffinarlo in Cina per poi riacquistarlo — osserva Mazziero — non avremo risolto nulla in termini di autonomia»;
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i fondi insufficienti: il programma ha una durata prevista di cinque anni, ma al momento è finanziato solo per il primo. Alla fine del primo anno verranno valutati i risultati e decisi eventuali proseguimenti.
Anche i tempi rappresentano un ostacolo. Dall’individuazione di un giacimento al primo grammo estratto possono passare tra i 12 e i 16 anni, un orizzonte temporale incompatibile con le urgenze imposte dalla transizione energetica e dalla competizione geopolitica.
A rallentare il progetto c’è poi la cronica carenza di ingegneri minerari. «Negli anni ’90 — racconta a La Stampa Mariachiara Zanetti, vicerettrice del Politecnico di Torino — in Italia c’erano cinque scuole di Ingegneria mineraria, oggi ne sopravvive una sola, con 15 iscritti al primo anno e il 60% stranieri, che il più delle volte tornano nei Paesi d’origine dopo la laurea».
Per colmare il vuoto professionale, Ispra ha attivato Summer School e corsi di formazione e-learning, ma servirà tempo, e soprattutto una visione di lungo periodo che finora è mancata.
Nel frattempo, la Cina continua a dominare il mercato globale dei minerali critici, forte di investimenti iniziati oltre 25 anni fa. Oggi Pechino controlla buona parte della raffinazione mondiale di terre rare, litio e cobalto, e ha intensificato le acquisizioni minerarie all’estero: nel 2023 sono state dieci le operazioni sopra i 100 milioni di dollari.
«Se l’Italia vuole davvero competere deve investire subito nella filiera industriale e nella formazione, e comprendere che le miniere non sono più solo buchi nel terreno, ma parte di una strategia energetica e industriale moderna e sostenibile», conclude Zanetti.
Il ritorno alle miniere, dunque, non sarà immediato né privo di ostacoli, ma rappresenta un passo necessario in un contesto internazionale dove il controllo delle materie prime sta rapidamente diventando questione di potere geopolitico, oltre che industriale. E dove, se non si agisce in fretta, la finestra temporale per recuperare terreno potrebbe presto richiudersi.
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