Il segreto professionale è uno dei capisaldi della professione forense (e non solo) ed è chiaramente indicato nell’art. 13 del Codice Deontologico.
Tale articolo stabilisce che “l’avvocato è tenuto, nell’interesse del cliente e della parte assistita, alla rigorosa osservanza del segreto professionale e al massimo riserbo su fatti e circostanze in qualsiasi modo apprese nell’attività di rappresentanza e assistenza in giudizio, nonché nello svolgimento dell’attività di consulenza legale e di assistenza stragiudiziale e comunque per ragioni professionali.”
Da ciò si intuisce che la riservatezza è un dovere e che ricade non solo sul rapporto coi propri assistiti, ma anche su quello con gli ex clienti e con chi si rivolge all’avvocato per un consulto, anche senza un mandato accettato.
L’importanza di questo principio è facile da intuire: solo in un contesto di riservatezza è possibile che si crei fiducia tra avvocato e assistito.
Ma come si combina questo diritto/dovere alla segretezza con le esigenze richieste da mezzi di prova come le testimonianze o le intercettazioni?
SEGRETO PROFESSIONALE E TESTIMONIANZE
L’esenzione dalla testimonianza è ben chiarito nell’art. 200 del Codice di Procedura Penale, in cui vengono anche indicati su quali soggetti ricada. Tra questi figurano:
– i ministri di confessioni religiose i cui statuti non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano;
– i medici e i chirurgi, i farmacisti, le ostetriche e altri professionisti del settore sanitario;
– gli investigatori privati autorizzati, i consulenti tecnici, i notai e gli avvocati.
A regolamentare tale esenzione per gli avvocati interviene l’art. 58 del Codice Deontologico Forense (esteso anche ai praticanti) indicando che “per quanto possibile, l’avvocato deve astenersi dal deporre come testimone su circostanze apprese nell’esercizio della propria attività professionale e inerenti al mandato ricevuto. L’avvocato non deve mai impegnare di fronte al giudice la propria parola sulla verità dei fatti esposti in giudizio.”
Si deduce che l’esenzione ha quindi dei limiti. Infatti, essa ricade solo su fatti e informazioni raccolte durante il proprio ministero difensivo e non si estende affatto, come molti comuni cittadini potrebbero credere, a qualsiasi tipo di intervento.
Inoltre, possiede una certa facoltatività.
Sempre l’art.58 dice che “qualora l’avvocato intenda presentarsi come testimone dovrà rinunciare al mandato e non potrà riassumerlo”
L’obbligo alla rinuncia del mandato in caso di testimonianza è giustificato dalla necessità di non confondere il ruolo di difensore con quello di testimone, ruoli che presentano profonde differenze e non possono certamente sovrapporsi.
Potremmo quindi dire che l’esenzione dalla testimonianza intercorre solo in presenza di due fattori. Il primo, legato all’effettivo ruolo di difensore ricoperto dall’avvocato, e il secondo, che lega il contenuto della testimonianza a quanto appreso durante il proprio mandato.
SEGRETO PROFESSIONALE E INTERCETTAZIONI
L’art.103 c.p.p. prevede:
- il divieto di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni dei difensori, consulenti tecnici e loro ausiliari e di quelle tra i medesimi e le persone da loro assistite;
- il divieto di utilizzazione di tali intercettazioni;
- il divieto di trascrizione “quando le comunicazioni e conversazioni sono comunque intercettate”.
Il divieto di intercettare le comunicazioni tra avvocato e assistito rientra nella tutela del segreto professionale e del rapporto di fiducia fra i due soggetti.
La difficoltà nel rispettare tale divieto si nasconde nel fatto che non è sempre possibile sapere a priori se l’intercettato stia parlando con il proprio avvocato.
Questo discernimento è possibile solo a posteriori, dopo aver raccolto e ascoltato l’intercettazione.
E cosa succede se il contenuto dell’intercettazione riguarda attività illegali?
Così come per l’esenzione dalla testimonianza, anche il divieto di intercettazione (e il suo uso) ha dei limiti.
In tal senso, emblematico è il caso di un commercialista intercettato mentre suggeriva a un cliente di aprire un conto corrente estero e far figurare la propria attività in un Paese extra Ue al fine di eludere la tassazione italiana.
Il contenuto illecito dell’intercettazione ha permesso l’uso della stessa e ha decretato la condanna del professionista.
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