Da mesi, giornalisti e cronisti giudiziari si stanno lamentando dell’applicazione di alcune norme della riforma della giustizia Cartabia. In particolar modo si riferiscono ai rapporti tra gli organi di informazione e le procure della Repubblica.
Queste norme sono state inserite all’interno della riforma con lo scopo di recepire una direttiva europea, che da cinque anni richiedeva il rafforzamento dell’istituto della presunzione di innocenza per le persone indagate nei procedimenti penali. Dunque, si parla di attenuare le conseguenze materiali e psicologiche di chi è sottoposto ad indagine, considerandolo innocente in assenza di una condanna definitiva.
Secondo i giornalisti, tali norme limiterebbero il diritto di cronaca, dando eccessivo potere discrezionale alle procure e andando anche contro i principi a cui sono ispirate.
Quali notizie rendere note alla stampa
Con la riforma, le decisioni su quali notizie debbano o meno essere rese note alla stampa sono state affidate alla discrezione dei capi delle procure della Repubblica. Alcune procure si attengono in maniera scrupolosa alle norme, altre semplicemente le aggirano o addirittura le ignorano.
Finora, molte notizie coperte da segreto d’indagine, arrivavano ai mezzi d’informazione con molta più facilità, causando conseguenze sensibili sulle vite degli indagati – alcune volte, anche sullo svolgimento delle indagini.
La presunzione d’innocenza
La direttiva UE sul “rafforzamento della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali” risale al 9 marzo 2016.
Al punto 16 viene stabilito che «la presunzione di innocenza sarebbe violata se dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche o decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza presentassero l’indagato o l’imputato come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata. Tali dichiarazioni o decisioni giudiziarie non dovrebbero rispecchiare l’idea che una persona sia colpevole».
Dunque, l’abitudine dei media e delle procure di presentare la persona oggetto di indagine come probabile colpevole dovrebbe essere attenuata, dal momento che contraddice la presunzione d’innocenza.
I giuristi incaricati dalla ministra Cartabia di scrivere la riforma hanno ascoltato la raccomandazione dell’UE e hanno deciso di includere nei testi delle norme la regolazione della trasmissione ai media delle notizie sui procedimenti penali.
Il rapporto tra procure e stampa
L’opaco rapporto tra le procure e la stampa italiana è un problema noto. Esiste un sistema in cui gli interessi reciproci hanno portato alcune procure alla diffusione regolare delle informazioni ai giornalisti.
Questo tipo di rapporto con la stampa ai procuratori conviene: danno loro attenzioni e notorietà. Ai giornalisti interessa, invece, avere le notizie da pubblicare per primi.
Ma questo meccanismo ha portato ad abusi e storture. Spesso sui giornali vengano pubblicate intercettazioni che dovrebbero restare segrete, oppure vengono diffuse tesi d’accusa con toni ben poco dubitativi – tesi che magari vengono smentite alla fine del processo.
In passato, ci sono stati episodi in cui l’emissione degli avvisi di garanzia è stata segnalata sui giornali prima di consegnarli ai diretti interessati. Per i giornalisti, ma anche per qualche magistrato, le norme della riforma Cartabia non impediscono veramente che casi simili possano ripetersi.
Quello che fanno è rendere più complicato il lavoro del giornalista lasciando la responsabilità ai procuratori di stabilire cosa è rilevante far conoscere all’opinione pubblica e cosa no. Questa valutazione, secondo i critici, dovrebbe spettare all’etica dei giornali.
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Norme che dovrebbero già essere seguite
La riforma Cartabia stabilisce alcune delle norme che dovrebbero essere, teoricamente, già seguite. Del tipo: «E’ fatto divieto alle autorità pubbliche di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza definitiva».
Chiede, però, che «le informazioni sui procedimenti giudiziari siano fornite esclusivamente tramite comunicati ufficiali oppure nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenza stampa». Inoltre, «la diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita solo quando strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico».
Il comma 3 ter vieta alle procure di nominare queste operazioni con «denominazioni lesive della presunzione d’innocenza». Dunque, non sentiremo più inchieste come “Mani pulite” o “Angeli e demoni” – nomi utilizzati dalle procure al fine di trasmettere l’idea di colpevolezza degli indagati e al tempo stesso la nobiltà delle indagini.
Indizi
In sostanza, il nome degli interessati non deve essere fornito, e non devono nemmeno venire specificati i luoghi degli arresti o altre informazioni utili al fine di individuare gli arrestati.
Di solito il giornalista e il direttore del giornale provano ad avere informazioni dal procuratore capo (che non dovrebbe fornirle). Succede, però, che un’agente di polizia giudiziaria o un’altra persona che viene coinvolta nelle indagini fornisca indizi per risalire all’identità delle persone coinvolte.
Abitudini difficili da cambiare
La riforma ha un compito molto difficile: deve conciliare il diritto di cronaca, unitamente alla libertà di stampa con il diritto di difendere la reputazione delle persone fino al momento in cui non venga accertata la loro colpevolezza.
Non si tratta soltanto di una discussione teorica: andare a cambiare delle abitudini radicate nei giornali e nelle procure è molto complicato. Il rischio è che le nuove norme vengano aggirate, in quanto le redazioni non ritengono necessario adottare un approccio differente alla cronaca giudiziaria.
In tal senso, la pressione del mercato è molto forte. Le notizie che riguardano le indagini e gli arrestati attraggono un grande numero di lettori. Rinunciare a tutto ciò, per un giornale significa perdere questi lettori, a favore, invece, di chi dovesse continuare a lottare al fine di ottenere un certo tipo di informazione.
Qualche opinione
Francesco Floris, giornalista di LaPresse, dice che «bisognerebbe trovare un equilibrio tra il giusto garantismo e la possibilità di fornire notizie ai lettori. Senza contare che il capo di una procura, con queste norme, si trova a svolgere un lavoro che non gli appartiene e a dover rispondere, nel corso magari di un’operazione importante, a continue telefonate di giornalisti mentre si sta occupando di cose delicate».
Ma non sono soltanto i giornalisti a giudicare negativamente le norme della riforma Cartabia. Anche il procuratore di Milano facente funzione Riccardo Targetti ha dichiarato: «Non penso debbano essere i magistrati a dover valutare cosa sia d’interesse pubblico, è un compito dei giornalisti. Come magistrato la giudico una legge piuttosto difficile da applicare. Come cittadino la giudico male, non mi è piaciuta per niente. Mi sembra che questa legge introduca il concetto di velina di regime».
Anche Nino Di Matteo, magistrato che da anni si occupa di mafia con delle posizioni talvolta discusse, non ha accolto a braccia aperte le nuove norme. «Le direttive introducono una sostanziale impossibilità per l’autorità pubblica, non soltanto per i magistrati, di informare su quanto non è più coperto dal segreto. Possono informare soltanto le parti private, possono informare i parenti, com’è avvenuto per Riina e Provenzano, su quello che secondo loro è emerso dalle indagini. Non lo potrà fare più il procuratore della Repubblica, il questore o l’ufficiale dei carabinieri».
Problema non risolto
Coloro che si ritengono favorevoli alle nuove norme sostengono che in questo modo si potrà mettere fine al mercato nero delle notizie (le informazioni passate sottobanco ai giornalisti). Ma non è detto che il mercato nero in questo modo non possa diventare ancora più nero e sottobanco.
Un giornalista non si accontenterà mai delle informazioni che sono contenute in un comunicato o che vengono fornite durante una conferenza stampa. Sarà incentivato a cercare di scoprire in maniera sempre più agguerrita tutto quello che non gli è stato comunicato in via ufficiale.
Raffaele Cantone, procuratore di Perugia, all’entrata in vigore della legge aveva detto: «Norme così rigorose potranno limitare il diritto degli operatori dell’informazione all’accesso di notizie, e, persino, per una non voluta eterogenesi dei fini, incentivare la ricerca di esse attraverso canali diversi, non ufficiali o persino non legittimi».
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