4 Febbraio 2020

prove valide

Google e WhatsApp sono considerate prove legali valide

Le nuove tecnologie si fanno strada anche nel settore della giustizia. E così, ora Google e WhatsApp sono considerate prove legali valide a tutti gli effetti per confermare la colpevolezza di un soggetto.

Qui di seguito due casi giuridici esemplari di questa novità. 

MESSAGGI SMS E WHATSAPP

Il primo caso che introduce WhatsApp tra le prove legali valide ha per protagonisti due giovani accusati di detenere stupefacenti destinati a terzi.

Tra le prove raccolte e usate per dimostrare la loro colpevolezza, anche la riproduzione delle schermate delle loro conversazioni via messaggi sms e WhatsApp.

La difesa ha sostenuto che le schermate non potessero essere considerate prove utilizzabili in quanto acquisite contra legem (mediante violenza sulle cose e in violazione del diritto alla segretezza della corrispondenza di cui all’art. 15 Cost.) e non a seguito del sequestro come indicato dal codice d procedura penale (dall’art. 354, comma 2).

La Cassazione ha però confermato la decisione del giudice partendo dall’idea che i dati informatici (sms, messaggi WhatsApp, email) ricavati dalla memoria di uno smartphone sono da considerarsi documenti ai sensi dell’art. 234 c.p.p. e acquisibili con una qualunque modalità, inclusa la riproduzione fotografica.

Nella sentenza si legge che “i messaggi WhatsApp così come gli sms conservati nella memoria di un apparecchio cellulare hanno natura di documenti ai sensi dell’art. 234 c.p.p., di tal che la relativa attività acquisitiva non soggiace alle regole stabilite per la corrispondenza, né tantomeno alla disciplina delle intercettazioni telefoniche, con l’ulteriore conseguenza che detti testi devono ritenersi legittimamente acquisiti e utilizzabili ai fini della decisione ove ottenuti mediante riproduzione fotografica a cura degli inquirenti”.

FOTO SU GOOGLE STREET VIEW

Il secondo caso è di materia tributaria.
Un comune avvia accertamenti verso una società dotata di un’auto con livrea pubblicitaria e che, apparentemente, ha omesso il pagamento dell’imposta di pubblicità dal 2009 al 2014.

La causa si conclude a favore del Comune e tra le prove utilizzate compaiono anche le fotografie dell’auto tratte dall’applicazione Google Street View.

La società fa però ricorso sostenendo che tali fotografie tratte non hanno valenza probatoria poiché non vi è certezza sulla data dello scatto.

Il ricorso viene considerato inammissibile e, con l’Ordinanza 308 del 10 gennaio 2020, la Cassazione condanna la società.
Alla base della decisione il fatto che quest’ultima non è stata in grado di dimostrare in modo chiaro ed esplicito che i contenuti delle foto erano difformi dalla realtà.

Infatti, nell’ordinanza si legge che “la fotografia costituisce prova precostituita della sua conformità alle cose e ai luoghi rappresentati, sicché chi voglia inficiarne l’efficacia probatoria non può limitarsi a contestare i fatti che la parte che l’ha prodotta intende con essa provare, ma ha l’onere di disconoscere tale conformità”. Per essere efficace, il disconoscimento “deve essere chiaro, circostanziato ed esplicito, dovendosi concretizzare nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta”.

[fonti: www.studiocataldi.it; www.informazionefiscale.it]

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