A metà gennaio il TAR del Lazio ha emesso una sentenza che in molti definiscono storica poiché, per la prima volta, viene ufficialmente riconosciuto che i dati personali hanno un valore commerciale.
FACEBOOK NON È GRATIS: SI PAGA IN DATI PERSONALI
A fine 2018 AGCM accusa Facebook di indurre in modo ingannevole gli utenti a registrarsi, senza informarli “adeguatamente e immediatamente, in fase di attivazione dell’account, dell’attività di raccolta, con intento commerciale, dei dati da loro forniti, e, più in generale, delle finalità remunerative che sottendono la fornitura del servizio di social network, enfatizzandone la sola gratuità”.
Facebook è stata inoltre accusata di esercitare un “indebito condizionamento nei confronti dei consumatori” i cui dati vengono trasmessi “senza espresso e preventivo consenso […] da Facebook a siti web e app di terzi, e viceversa, per finalità commerciali“.
Queste condotte si pongono in contrasto con le disposizioni indicate nel Codice di Consumo articoli 21, 22, 24 e 25.
Risultato: due multe per un totale di 10 milioni di euro.
Il TAR ha riconosciuto la fondatezza della prima accusa, ma ha rigettato la seconda, considerandola priva di fondamento poiché Facebook chiede un consenso all’uso dei dati in fase di registrazione.
PERCHÈ LA SENTENZA DEL TAR DEL LAZIO È IMPORTANTE
Avete mai sentito l’espressione “se non lo paghi, il prodotto sei tu”?
Facebook è l’esempio più lampante di servizio pagato non in denaro, ma in informazioni personali.
Quando ci iscriviamo, non dobbiamo versare alcuna iscrizione, ma tutti i nostri dati e i contenuti che condividiamo vengono raccolti e ‘rivenduti’ alle aziende che decidono di fare pubblicità tramite il social. Pubblicità che, proprio grazie alle informazioni che abbiamo innocentemente condiviso, è altamente targettizzata e, quindi, più efficace.
La sentenza del TAR del Lazio riconosce che i dati possono “costituire un asset disponibile in senso negoziale, suscettibile di sfruttamento economico e, quindi, idoneo ad assurgere alla funzione di controprestazione in senso tecnico di un contratto”.
La sentenza porta aria di cambiamento in tutte quelle aziende che, soprattutto nel mercato digitale, fanno massiccio uso di dati degli utenti.
Lo fa in duplice modo.
Da un lato, introduce l’idea che i dati personali (non tutti, ma alcune categorie) possono essere sfruttati commercialmente e che, di conseguenza, richiedano un compenso.
Dall’altro, avverte le aziende e i professionisti intenzionati a utilizzare i dati per finalità commerciali della necessità di informare in modo chiaro gli utenti sull’uso dei loro dati e delle informazioni che condividono.
C’è chi, come Guido Scorza, avvocato esperto di diritti digitali, non vede tanto positivamente la sentenza: «l’affermazione di un principio forte che minaccia di erodere la natura di diritto fondamentale della privacy e far passare l’idea che la nostra identità personale sia – o sia anche – una merce di scambio eguale a ogni altra, barattabile sul mercato e utilizzabile per fare shopping. Guai se questo principio passasse davvero e passasse in questi termini. A quel punto non avrebbe vinto nessuno ma avremmo perso tutti». Aggiunge che «si è persa una bella occasione per dire di no alla “società dell’accetta e continua” […] servono regole nuove che non consentano più equivoci almeno sui diritti fondamentali di un utente, di un consumatore, di un cittadino.»
Facebook ha eliminato la frase “ è gratis e lo sarà per sempre” dalla home page ma non ha pubblicato alcuna dichiarazione rettificata e dunque, secondo l’AGCM continua a non informare adeguatamente gli utenti sulla raccolta e l’utilizzo a scopo commerciale dei dati.
Nel frattempo, anche la Corte d’Appello di Berlino ha sentenziato che i termini di utilizzo e le impostazioni privacy di Facebook sono contrarie alle norme di tutela dei dati dei consumatori.
Tra le varie violazioni, l’utilizzo da parte del social delle foto degli utenti a scopi commerciali, l’invio di dati verso li Usa, il consenso anticipato su eventuali modifiche al regolamento sui trattamento dei dati personali e la presenza di spunte preselezionate nella sezione privacy che permettono altre attività di raccolta dati senza un esplicito consenso da parte dell’utente.
Desideri un sito o una presenza social per entrare in contatto con potenziali clienti? Vuoi muoverti nel rispetto del GDPR e del codice deontologico? Contattaci.
———-
LEGGI ANCHE:
Google, le forze dell’ordine dovranno pagare per ottenere dati
È possibile fare web marketing rispettando il codice deontologico?