10 Settembre 2020

Diffamazione sui social: non si può pubblicare tutto ciò che si pensa...

Diffamazione sui social: non si può pubblicare tutto ciò che si pensa…

Il reato di diffamazione consiste nell’offendere o screditare la reputazione di una persona comunicando le proprie opinioni negative ad altri soggetti.

Esiste anche il reato di diffamazione aggravata, contemplato dall’art 595 c.p. comma 3 che si configura quando «l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico».

La differenza tra diffamazione e diffamazione aggravata dipende dunque dal mezzo scelto e dalla vastità del “pubblico” raggiunto. Infatti, c’è una notevole differenza tra un’offesa condivisa all’interno di un gruppo di amici e colleghi e un’offesa pubblicata su un sito web o su un giornale.

E Facebook o Twitter, in quale punto di questa ipotetica linea di gravità si pongono? Come funziona la diffamazione sui social?

Secondo la Cassazione (sentenza n. 30737/2019) «la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, cod. pen., sotto il profilo dell’offesa arrecata con qualsiasi altro mezzo di pubblicità diverso dalla stampa, poiché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone e tuttavia non può dirsi posta in essere col mezzo della stampa, non essendo i social network destinati ad un’attività di informazione professionale diretta al pubblico».

Rispetto alla stampa (o alla tv), i social hanno la potenzialità di amplificare la portata di un’opinione personale grazie alla più alta velocità con cui i messaggi vengono condivisi fra gli utenti, ma hanno una portata minore, poiché i messaggi tendono a circolare maggiormente all’interno di nicchie di pubblico precise.

Tutto ciò non significa affatto che il danno che potrebbe derivarne sia minore, soprattutto se si considera che si tratta di luoghi virtuali nei quali non è presente alcun controllo specifico e che molti utenti, protetti dall’anonimato, credono che vi si possa pubblicare qualsiasi cosa.

3 CASI DI DIFFAMAZIONE SUI SOCIAL

Sentenza n. 574/2019, Tribunale di Campobasso.
Una donna pubblica sul proprio profilo Facebook un post in cui accusa l’ex compagno di non provvedere al sostentamento economico del figlio, facendolo apparire agli occhi degli altri utenti come un cattivo padre. Inoltre, rincara la dose paragonando l’ex all’attuale compagno, a suo parere molto più abile nel ricoprire il ruolo paterno.
Il Tribunale ritiene che quanto affermato dalla donna, oltre a non essere in linea con la situazione reale, rechi danno alla
persona offesa anche perché si tratta di una condotta «potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone».

Sentenza n. 17944/2019, Cassazione.
Un uomo pubblica su Facebook una sua intervista nella quale, senza fare alcun nome, offende l’onore e il decoro di due soggetti, dichiarando che questi occupano le attuali posizioni non per i loro meriti professionali, ma per la capacità di aver fornito ai “potenti di turno” “signorine più o meno compiacenti”.
Secondo la Cassazione, il reato di diffamazione si configura anche se non vi è «indicazione nominativa del soggetto la cui reputazione è lesa, se lo stesso sia ugualmente individuabile sia pure da parte di un numero limitato di persone, e che, qualora l’espressione lesiva dell’altrui reputazione sia riferibile, ancorché in assenza di indicazioni nominative, a persone individuabili e individuate per la loro attività, esse possono ragionevolmente sentirsi destinatarie di detta espressione».

Sentenza n. 49506/2017, Cassazione.
Un operaio offende il proprio capo area pubblicando su Facebook post in cui riferisce di atteggiamenti autoritari di questo nei confronti dei sottoposti.
Secondo l’operaio i contenuti non presentano elementi offensivi, ma per la Cassazione «le frasi, riportate nel testo del provvedimento impugnato, fanno un chiaro riferimento al ruolo del [capo area], peraltro citato, sia pure per perifrasi, con un contenuto immediatamente offensivo, in quanto evocativo di una gestione autoritaria, ironicamente portata alle estreme conseguenze, in un apparente gioco delle parti».

NON SEMPRE È DIFFAMAZIONE

Poco tempo fa, un utente di Twitter ha definito Fedez e Chiara Ferragni come «idioti palloni gonfiati».
La coppia ha mosso querela per diffamazione, ma la Procura della Repubblica di Roma ha chiesto l’archiviazione poiché «la generalità degli utenti non dà peso alle notizie che legge» sui social e poiché sui social le «espressioni denigratorie» «godono di scarsa considerazione e credibilità» e risulterebbero quindi «non idonee a ledere la reputazione».

Questa decisione si colloca controcorrente rispetto a quelle citate in precedenza. La Procura, infatti, ritiene che i contenuti offensivi pubblicati sui social non cadano inevitabilmente all’interno dei confini del reato di diffamazione a causa della presunta mancanza di autorevolezza che differenzia i social dal mezzo stampa tradizionale.

Quello che possiamo dedurne è che sono proprio le differenze tra il mondo del web e i mezzi tradizionali a imporre nuove riflessioni sul concetto di immagine e di reputazione. Ne consegue che anche il perimetro del reato di diffamazione è, oggi, più mobile di quanto fosse in passato.

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