5 Agosto 2025 - SOCIETA' | L'analisi

Ceto medio cercasi: il declino di un’illusione collettiva

Non una classe, ma un arcipelago di condizioni economiche e culturali eterogenee. Il dibattito sul declino del “ceto medio” impone di interrogarsi sulle vere fratture sociali e sulle responsabilità della politica

Il dibattito sul declino del ceto medio è tornato prepotentemente alla ribalta. Ma di quale ceto medio stiamo parlando? La domanda è tutt’altro che retorica, e va ben oltre la cronaca politica o l’interpretazione statistica. È una questione culturale, sociale, economica, e soprattutto semantica: più che di una classe unitaria, si tratta di un mosaico complesso, che riunisce sotto la stessa etichetta realtà profondamente diverse.

Già negli anni Settanta, Paolo Sylos Labini aveva contribuito a rompere lo schema tradizionale di lettura delle classi sociali, mostrando l’emergere di “ceti medi” plurali — una piccola borghesia diffusa, legata al commercio, all’artigianato, all’agricoltura, spesso alimentata da politiche clientelari. Una realtà che non poteva più essere spiegata solo attraverso i paradigmi marxisti della lotta di classe.

Tra colli bianchi e insalata mista

A smentire ogni idea di omogeneità è stata la stessa sociologia. Charles Wright Mills, già nel 1951, aveva messo a fuoco l’ambiguità dei cosiddetti “colletti bianchi”, mentre Arnaldo Bagnasco definiva la classe media come una “insalata mista di occupazioni”: lavoratori autonomi, piccoli imprenditori, impiegati pubblici e privati. Solo quando si vuole descrivere un insieme accomunato da stili di vita, modelli di consumo e una certa visione del mondo, si può forse parlare di ceto, e non più di classe.

Ma anche questo concetto è oggi sotto pressione. Non solo per via delle trasformazioni del mercato del lavoro e della crisi della mobilità sociale, ma anche per l’allargarsi della forbice interna: tra i ceti medio-alti e quelli medio-bassi, tra chi si è adattato alla globalizzazione e chi è rimasto ai margini della “città del lavoro”.

Il welfare in affanno e la parabola delle illusioni

La discussione sulla tenuta del ceto medio porta inevitabilmente a quella sul welfare, pilastro della coesione sociale. Quando Thomas Marshall, nel secondo dopoguerra, teorizzava una progressiva convergenza tra libertà ed eguaglianza grazie allo sviluppo del welfare state, immaginava un percorso che, alla prova dei fatti, si è dimostrato fragile. Le protezioni sociali, a differenza dei diritti civili e politici, dipendono in larga misura dalle risorse economiche, e dunque dal mercato. Risorse che, a un certo punto, non sono più state garantite con la leva fiscale ma solo attraverso l’indebitamento.

Da decenni i sistemi di welfare, non solo in Italia, vivono una crisi strutturale, schiacciati tra l’invecchiamento demografico, le nuove forme di lavoro e la crescente precarietà. In Italia, più che altrove, il tema è stato rinviato. Non affrontato. Rimandato.

L’arte del rinvio: un carattere nazionale?

È qui che riemerge un tratto tipico del costume politico italiano: l’istituzione del rinvio. Lo osservava già Piero Calamandrei, quando sottolineava la tendenza nazionale a evitare scelte nette, a procrastinare, a convivere con l’ambiguità. Un costume a cui replicava, in chiave ironica e pragmatica, Giulio Andreotti con la celebre frase: “È meglio tirare a campare che tirare le cuoia”.

Eppure questa filosofia, che ha garantito stabilità apparente per decenni, oggi mostra i suoi limiti. La mancanza di visione strategica e di responsabilità intergenerazionale ha lasciato dietro di sé una lunga scia di contraddizioni irrisolte.

Né antenati né posteri: solo contemporanei

A chiudere il cerchio è il monito, disincantato ma attualissimo, di Giuseppe Prezzolini: in Italia, diceva, “non ci sono né antenati né posteri: ci sono solo contemporanei”. Un’idea di presente perpetuo che esonera dalla memoria e disinnesca il dovere verso il futuro. In questo orizzonte corto, la crisi del ceto medio è molto più di un fatto economico: è una crisi di identità collettiva, di fiducia, di cittadinanza.

Finché la politica continuerà a trattare i problemi strutturali con strumenti provvisori, non sarà possibile ricostruire il patto sociale che ha retto l’Italia repubblicana. E allora, più che domandarsi se il ceto medio stia declinando, bisognerebbe chiedersi se qualcuno sia ancora disposto a difenderne le fondamenta.


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