In Italia la vera impunità non si consuma nei tribunali, ma dopo le sentenze. Ogni anno, milioni di euro di pene pecuniarie vengono inflitte a chi ha violato il Codice penale — ma la maggior parte resta solo sulla carta. E quando le sanzioni non vengono pagate, il conto, economico e sociale, finisce per ricadere sull’intera comunità.
Da anni le cifre denunciano un sistema inefficace: tra il 2019 e il 2022, a fronte di condanne per un valore di oltre 3 miliardi di euro, lo Stato è riuscito a incassare appena il 3% di quanto dovuto. Una media drammatica, che fotografa una macchina burocratica lenta e inefficiente, dove le multe e le ammende diventano spesso crediti inesigibili.
Il problema nasce dalla farraginosità del sistema di riscossione: dalla sentenza definitiva alla cartella esattoriale passano anni, e in questo lasso di tempo molti condannati dissipano patrimoni o risultano irreperibili. Tanto che perfino la Corte costituzionale ha sottolineato come in Italia la pena pecuniaria non rappresenti un’alternativa credibile alla detenzione.
Qualcosa è cambiato con la riforma Cartabia, in vigore dall’ottobre 2022 per i reati commessi dopo il 30 dicembre dello stesso anno. Il nuovo modello, più snello e diretto, prevede che il pubblico ministero intimi al condannato il pagamento entro 90 giorni tramite PagoPA. In caso di mancato versamento, la pena viene convertita in lavori di pubblica utilità o semilibertà. I primi dati mostrano segnali incoraggianti: su oltre 60 milioni di euro da riscuotere, l’incasso si è attestato al 13,5%. Meglio di prima, ma ancora lontano da standard europei.
Il sistema, però, rischia di incepparsi per mancanza di personale e strutture adeguate. I magistrati di sorveglianza incaricati di convertire le pene non pagate in misure alternative sono pochi e gli istituti penitenziari non sempre hanno spazi disponibili per ospitare chi sconta la semilibertà. Anche le strutture per i lavori di pubblica utilità risultano insufficienti.
La situazione è ancor più critica per alcuni reati come il contrabbando, dove la maggior parte degli imputati è straniera e spesso irreperibile. Nonostante il nuovo metodo, tra il 2019 e il 2023 sono stati incassati appena 183.800 euro su 4,8 miliardi di multe inflitte per questi reati.
E c’è poi il nodo delle spese processuali. Tra perizie, consulenze e intercettazioni, lo Stato ha sostenuto oltre un miliardo di euro di spese tra il 2019 e il 2023, riuscendo a recuperarne appena il 7,3%. Una somma trattata come un normale credito ordinario, riscossa anni dopo attraverso pignoramenti parziali e in gran parte destinata a restare inevasa.
Una possibile soluzione, secondo chi lavora nel settore, sarebbe prevedere importi forfettari e immediatamente esigibili già nelle sentenze, accelerando così tempi e riscossioni. Perché uno Stato non può permettersi di fermarsi alla condanna: se non riesce a incassare il dovuto, a perdere non è solo la giustizia, ma l’intero Paese.
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