Esprimere un giudizio negativo sul proprio datore di lavoro attraverso una piattaforma online non è di per sé motivo di licenziamento. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 5331/2025, chiarendo che il diritto di critica è garantito dalla Costituzione e dallo Statuto dei lavoratori, purché non si trasformi in una denigrazione gratuita.
Il caso
Un’azienda aveva creato un profilo pubblico su una piattaforma online, accessibile non solo ai dipendenti ma anche a fornitori, clienti e aziende concorrenti. Tra le funzionalità vi era la possibilità di pubblicare recensioni e assegnare un punteggio da uno a cinque. Un dipendente aveva espresso un giudizio critico accompagnato da un punteggio molto basso, suscitando la reazione del datore di lavoro, che aveva proceduto al licenziamento.
Il lavoratore ha impugnato il provvedimento e, in primo grado, il tribunale gli ha dato ragione. Tuttavia, in appello, la sentenza è stata ribaltata, riconoscendo la legittimità del licenziamento per giusta causa. La vicenda è poi giunta in Cassazione, che ha nuovamente ribaltato il verdetto, affermando che la critica, se espressa in modo misurato e basata su fatti veri, non può essere censurata.
I principi della decisione
Secondo la Suprema Corte, il diritto di critica deve essere distinto dalla denigrazione: esprimere un giudizio negativo o manifestare dissenso non equivale a un attacco gratuito o a un comportamento diffamatorio. La Cassazione ha sottolineato che:
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Il diritto di critica è costituzionalmente garantito (art. 21 Cost.) ed è ribadito dallo Statuto dei lavoratori (art. 1).
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Non è rilevante che il messaggio sia visibile al di fuori dell’azienda, purché rientri nei limiti di una critica legittima.
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Il linguaggio deve essere misurato e i fatti riportati devono essere veri, evitando insulti o attacchi personali.
In questo contesto, il dipendente ha esercitato un diritto fondamentale, senza travalicare i confini della legittima manifestazione del pensiero.
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