Il divieto di arresto in flagranza per chi è incapace di intendere e volere si applica solo se tale condizione è evidente al momento dell’intervento delle forze dell’ordine. Se, invece, la patologia psichiatrica emerge successivamente attraverso documentazione medica o altre informazioni, il giudice per le indagini preliminari (Gip) non può tenerne conto in sede di convalida. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 3760, depositata il 29 gennaio 2025, dichiarando inammissibile il ricorso di un uomo arrestato per maltrattamenti in famiglia e lesioni aggravate.
L’avvocato dell’imputato aveva chiesto l’annullamento della convalida, sostenendo che il suo assistito fosse “palesemente incapace di intendere e volere” a causa di gravi patologie psichiatriche già accertate in un altro procedimento, dove gli era stata applicata la misura di sicurezza della libertà vigilata con obbligo di cura. Inoltre, secondo la difesa, sia i Carabinieri che la Polizia di Torre del Greco erano a conoscenza della sua compromissione psichiatrica.
La VI Sezione penale della Cassazione ha però respinto il ricorso, ribadendo che, secondo l’orientamento consolidato, il divieto di arresto si applica solo se l’incapacità è immediatamente rilevabile dagli agenti sulla base delle circostanze concrete. Se la non imputabilità emerge solo in sede di convalida, attraverso perizie o documenti sanitari successivi, il giudice non può considerarla per annullare l’arresto.
Nel caso in esame, il verbale di arresto non riportava segni evidenti di patologie psichiatriche, ma solo una forte reattività dell’imputato e l’uso di sostanze stupefacenti. Il dubbio sulla sua capacità di intendere e volere è sorto solo in un secondo momento, in udienza, e il Gip ha quindi ritenuto corretto disporre una perizia per accertarne le condizioni al momento del reato.
Infine, la Cassazione ha precisato che eventuali precedenti perizie non sono determinanti in altri procedimenti, poiché il vizio totale o parziale di mente deve essere valutato caso per caso e in relazione al singolo reato contestato. Come stabilito dalle Sezioni Unite nella sentenza Raso (n. 9163/2005), deve esistere un nesso causale tra il disturbo mentale e il fatto di reato, e un accertamento in un procedimento non può avere automaticamente valore in un altro.
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