Redazione 7 Aprile 2025

Violenza familiare, se il pregiudizio di genere entra nelle aule di giustizia

Una riflessione si impone a seguito della pubblicazione delle Linee guida sull’applicazione del delitto di cui all’art. 572 c.p. e su questioni procedimentali e processuali relative ai reati di violenza di genere, domestica e contro le donne, redatte dalla Procura della Repubblica di Tivoli, a firma del Procuratore Francesco Menditto e del Sostituto Procuratore Andrea Calì (vedi “Femminicidio, i proclami giustizialisti spesso nascondono un mondo di interessi”, di Rita Ronchi, pubblicato in “Dentro la notizia, La newsletter del giornale La Voce”, 20 marzo 2025, pag. 13).

Il documento, che si propone di orientare l’azione giudiziaria nei procedimenti familiari, civili e penali, sembra però introdurre una visione fortemente sbilanciata: l’uomo viene rappresentato come colpevole in quanto tale, mentre alla donna è attribuito un ruolo di vittima “per statuto”. Le linee guida suggeriscono una lettura ideologica della violenza familiare, ricondotta a una presunta “natura strutturale” del maschio volta al dominio e all’oppressione del genere femminile. Una concezione che, secondo gli estensori del documento, dovrebbe influenzare la valutazione delle condotte, le strategie investigative e persino l’interpretazione dei rapporti interpersonali.

Il rischio evidenziato da diversi osservatori è che, sulla base di tali presupposti, venga costruito un identikit precostituito della vittima e dell’autore del reato, rendendo superflua l’analisi oggettiva del caso concreto. Ne risente così il principio di terzietà e imparzialità che dovrebbe regolare ogni processo. Anche nei rari passaggi in cui si fa riferimento a donne come potenziali autrici di maltrattamenti, queste vengono comunque inquadrate come figure fragili, mosse da reazioni emotive legate a contesti di sopraffazione. La narrazione dominante resta quella di una “violenza maschile sistemica” che annulla la possibilità di valutare caso per caso, relegando l’uomo a un ruolo intrinsecamente colpevole.

La Procura arriva perfino a contestualizzare il reato di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) come espressione di un progetto relazionale violento e discriminatorio dell’uomo verso l’ex partner, anche in presenza di fasi di concordia o assenza di aggressività documentata.

Il pericolo di una giustizia ideologizzata è evidente: l’equilibrio tra i sessi, invece di essere garantito, rischia di essere compromesso proprio nei luoghi deputati alla tutela dei diritti. La verità processuale potrebbe così lasciare il passo a una verità precostituita, fondata su stereotipi e visioni precarie della realtà. Una tale impostazione, infine, solleva dubbi anche di legittimità costituzionale, per la violazione del principio di uguaglianza tra i cittadini davanti alla legge e per l’inversione dell’onere della prova, che pare colpire selettivamente in base al genere.

Serve forse una nuova riflessione, lontana dalle semplificazioni e più vicina alla complessità delle relazioni familiari e dei conflitti che in esse possono maturare — senza pregiudizi, e con uno sguardo autenticamente giuridico. È cruciale riconoscere che la violenza domestica (ma tutta la violenza in genere) può manifestarsi in diverse forme e coinvolgere chiunque, e che un approccio giudiziario equo deve concentrarsi sui comportamenti individuali e sulle prove concrete, condannando fermamente ogni atto di violenza, a prescindere dal genere di chi lo perpetra.


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