La detenzione di una modesta quantità di stupefacente, anche se suddivisa in più dosi e trovata in contesti notoriamente legati al traffico di droga, non basta da sola a dimostrare l’intento di spaccio. A stabilirlo è la Terza sezione penale della Corte di Cassazione, che con la sentenza n. 21859 depositata il 10 giugno 2025 ha annullato senza rinvio la condanna di un uomo arrestato a Palermo.
L’imputato era stato fermato in tarda serata, in una zona cittadina conosciuta per lo spaccio, mentre portava con sé sette bustine di cocaina per un totale di 0,88 grammi lordi. La Corte d’appello aveva ritenuto che il quantitativo, la suddivisione in dosi, l’orario e il luogo, insieme ai suoi precedenti penali, fossero elementi sufficienti a dimostrare che la droga fosse destinata alla cessione.
Di diverso avviso la Cassazione, che ha giudicato quella ricostruzione “manifestamente illogica”. Secondo i giudici di legittimità, la prova della destinazione allo spaccio deve poggiare su elementi indiziari concreti e univoci, come quantità rilevanti, modalità di confezionamento tipiche del commercio, strumenti per il taglio o la pesatura, o l’effettivo contatto con terzi. Nessuno di questi elementi, sottolinea la Corte, risultava nel caso di specie: il quantitativo sequestrato corrispondeva a meno di tre dosi e, durante l’appostamento, l’imputato non aveva avuto alcun contatto con potenziali acquirenti.
La sentenza ricorda che il semplice frazionamento della droga e la presenza in una piazza di spaccio non sono di per sé indicativi di attività illecita di cessione, specie se non supportati da ulteriori riscontri oggettivi e soggettivi.
Per questi motivi, la Suprema Corte ha annullato la condanna senza rinvio, dichiarando che il fatto non sussiste in mancanza della prova della destinazione a terzi dello stupefacente.
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