Il recente intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha segnato un punto di svolta nella narrazione pubblica sulla difesa. Ribadendo che una democrazia ha bisogno di sicurezza per poter vivere e prosperare, il Capo dello Stato ha implicitamente affermato un principio tanto semplice quanto potente: la spesa per la sicurezza non è una voce contrapposta al welfare, ma una sua componente strutturale.
Nel solco di questa riflessione, si apre un dibattito importante che coinvolge economia, politica industriale, relazioni internazionali e visione sociale. Può la spesa militare produrre effetti benefici per l’intera collettività? E, se sì, come combinarla con la spesa sociale senza generare conflitto o sacrifici?
Uno degli approcci più innovativi in tal senso arriva dal mondo della ricerca economica e geopolitica, dove si analizza la spesa per la difesa come fattore di attivazione di capitale pubblico, crescita occupazionale e progresso tecnologico. È quanto sottolinea anche l’economista Carlo Pelanda, che torna oggi a sviluppare una linea di studio avviata già vent’anni fa insieme a Paolo Savona, sulla definizione del “bene pubblico” come asset in grado di tenere insieme utilità sociale e produttività economica.
La chiave di volta è comprendere come la spesa militare – se ben orientata – non generi solo apparati difensivi, ma produca innovazione, posti di lavoro specializzati, nuove competenze e infrastrutture civili. I primi dati, ad esempio, provenienti dal programma congiunto anglo-statunitense-australiano sui sottomarini nucleari mostrano già effetti virtuosi: ampliamento di porti, rafforzamento delle università ingegneristiche, crescita occupazionale qualificata. Elementi che vanno oltre l’ambito bellico, toccando il tessuto economico e sociale del Paese.
Questo schema non è nuovo: già durante la Seconda Guerra Mondiale, il riarmo statunitense contribuì in modo determinante a superare gli effetti della grande depressione, laddove il New Deal non era bastato. Allo stesso modo, il complesso militare-industriale USA ha generato nel dopoguerra una spinta continua alla ricerca scientifica e all’innovazione tecnologica, con effetti ricaduti largamente sull’economia civile.
Pelanda propone allora di distinguere tra spesa militare “orizzontale” e “verticale”: la prima, orientata a stipendi, funzioni e organizzazione del personale, genera benefici diretti in termini di reddito e stabilità sociale, e può essere letta come una forma di welfare “qualificante”. La seconda, legata alla ricerca, ai contratti industriali e allo sviluppo tecnologico, alimenta la crescita del PIL e consente allo Stato di rafforzare la spesa pubblica con risorse aggiuntive, senza aumentare il debito in modo insostenibile.
In questo modo, la spesa per la difesa smette di essere una voce “in concorrenza” con quella per la sanità, la scuola o l’assistenza, e diventa invece una componente funzionale alla resilienza sociale ed economica. È quanto sta già avvenendo in alcuni Paesi baltici, dove la pressione geopolitica ha imposto un rapido rafforzamento della sicurezza interna, con impatti che hanno coinvolto anche il mercato del lavoro, la formazione e le tecnologie emergenti.
Il nodo, dunque, non è tanto se aumentare la spesa per la difesa, ma come farlo: con una visione sistemica, trasparente e orientata agli interessi collettivi. Non per alimentare la logica della guerra, ma per ridurre la vulnerabilità democratica e costruire un modello di sicurezza che sostenga la crescita e la coesione sociale.
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