È scontro aperto a Palazzo Madama sulla riforma della separazione delle carriere tra magistratura requirente e giudicante. Dopo il via libera incassato alla Camera lo scorso gennaio, il testo è approdato al Senato, dove la discussione nelle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia è entrata subito nel vivo. E da oggi si inizia a votare sugli oltre mille emendamenti presentati, la stragrande maggioranza dei quali di segno ostruzionistico.
A sottolineare il clima teso è stato Alberto Balboni, senatore di Fratelli d’Italia e presidente della Prima Commissione, che ha denunciato un atteggiamento di blocco sistematico da parte delle opposizioni. “Così ci vorrebbero sei mesi solo per arrivare al mandato al relatore — ha dichiarato — l’obiettivo è chiaramente portare la maggioranza in Aula senza relatore e poi gridare allo scandalo”. Da qui l’appello a ridurre drasticamente il numero di proposte di modifica e favorire un confronto di merito.
Ma il muro delle opposizioni resta compatto. “Perché dovremmo ritirarli?”, ha replicato senza giri di parole il senatore dem Alfredo Bazoli, che nelle scorse settimane aveva già denunciato in commissione l’impostazione “plebiscitaria” della maggioranza e del ministro Nordio, accusati di voler blindare il testo senza lasciare spazio a correzioni. “È un metodo che preclude il ruolo del Parlamento e rischia di diventare un pericoloso precedente”, ha ribadito Bazoli.
Dietro il braccio di ferro si gioca anche una partita politica di lungo periodo: procrastinare l’approvazione definitiva della riforma significa avvicinare il più possibile il referendum confermativo alle prossime elezioni politiche, offrendo così maggior visibilità alla campagna dell’Associazione Nazionale Magistrati e di altre realtà contrarie al provvedimento.
Intanto, sul fronte dei tempi tecnici, il costituzionalista Giovanni Guzzetta ha chiarito che l’articolo 138 della Costituzione consente due letture: o il conteggio dei tre mesi tra una lettura e l’altra parte dall’approvazione in prima Camera — e in tal caso la riforma sarebbe già potuta tornare a Montecitorio da metà aprile — oppure si calcola dalla seconda lettura, ipotesi oggi meno accreditata. In ogni caso, tra passaggi parlamentari, tempi di pubblicazione, raccolta firme e indizione referendaria, difficilmente si potrà arrivare al voto popolare prima del 2026, nonostante le ambizioni iniziali del ministro Nordio.
La partita è dunque tutt’altro che chiusa, e il rischio concreto è che il Senato si trasformi nelle prossime settimane in un campo di battaglia politica e procedurale, dove il dibattito di merito rischia di essere soffocato dal confronto muscolare fra maggioranza e opposizioni.
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