Un lavoratore licenziato per aver denunciato irregolarità aziendali durante il periodo pandemico è stato reintegrato grazie a una decisione della Corte di Cassazione, che con l’ordinanza n. 10864/2025 ha ribadito il principio per cui chi segnala comportamenti contrari al codice etico e alle normative vigenti non può essere oggetto di provvedimenti disciplinari, nemmeno se la segnalazione assume toni critici verso il vertice aziendale.
La vicenda è iniziata quando un dipendente di un’azienda lombarda si è opposto alle modalità organizzative adottate dall’impresa durante l’emergenza sanitaria, ritenendole non conformi ai protocolli anti-Covid previsti per la tutela della salute dei lavoratori. Non limitandosi a una semplice protesta, il lavoratore ha formalizzato la sua segnalazione, richiamando espressamente il codice etico aziendale e le tutele previste dal decreto legislativo 24/2023 in materia di whistleblowing.
La reazione dell’azienda, però, è stata immediata: contestazione disciplinare e successivo licenziamento, motivato dal carattere polemico e critico della segnalazione, considerata un’insubordinazione nei confronti dell’amministratore delegato.
La Corte d’Appello di Milano, in una prima fase, aveva dato ragione all’azienda. Tuttavia, il lavoratore ha deciso di rivolgersi alla Cassazione che ha ribaltato il verdetto. I giudici di legittimità hanno sottolineato come la segnalazione del dipendente fosse finalizzata esclusivamente a richiedere il rispetto delle procedure di sicurezza e quindi ispirata da un legittimo interesse alla tutela della propria salute e di quella dei colleghi.
Secondo la Suprema Corte, si è trattato di un corretto esercizio del diritto di critica e non di un attacco gratuito all’operato dei vertici aziendali. Di conseguenza, il licenziamento è stato considerato ritorsivo e illegittimo, e al lavoratore dovranno essere riconosciute le tutele previste per i whistleblower, compresa la reintegrazione nel posto di lavoro.
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