Il Ministro della Giustizia Carlo Nordio è stato chiarissimo. Prima l’avvocato in Costituzione, poi — eventualmente — l’aggiornamento dell’ordinamento forense. Una presa di posizione netta, espressa nel corso del dibattito di Siracusa organizzato dal Consiglio nazionale forense e dalle istituzioni forensi siciliane, che segna un punto politico importante nel dibattito sulla modernizzazione della professione forense.
Secondo Nordio, infatti, la riforma dell’ordinamento forense, pure da più parti attesa e sollecitata, resta subordinata al riconoscimento costituzionale della funzione difensiva quale pilastro della giurisdizione. “Credo ci sia spazio in questa legislatura per introdurre l’avvocato in Costituzione, purché vi sia convergenza politica. Se questo avvenisse, tutto il resto procederebbe di conseguenza”, ha dichiarato il Guardasigilli. E a questo punto il tema vero è proprio questo: i tempi e la volontà politica.
Oggi sono quattro i disegni di legge costituzionale depositati in Parlamento, due alla Camera e due al Senato, divisi equamente tra maggioranza e opposizione. Tutti intervengono sull’articolo 111 della Costituzione per inserire esplicitamente la figura dell’avvocato, ma nessuno ha ancora visto partire l’iter parlamentare. E sappiamo bene che il procedimento di revisione costituzionale previsto dall’articolo 138 della Carta è lungo, complesso e politicamente impegnativo: doppia lettura in entrambe le Camere a distanza di tre mesi, maggioranze qualificate o, in mancanza, referendum confermativo. E siamo già a metà legislatura.
Eppure, la storia recente ci dice che, se c’è la volontà politica, anche le riforme ordinamentali complesse si possono realizzare in tempi ragionevoli. Basti ricordare che nel giugno 2005 la riforma dell’ordinamento dei dottori commercialisti e degli esperti contabili fu completata — legge delega e decreto legislativo attuativo — in appena un anno e nove mesi. Una riforma profonda, che ridisegnò competenze, accesso, formazione, incompatibilità e governance della professione.
Ora, la legislatura in corso terminerà tra due anni e cinque mesi. Il tempo tecnico per costruire e approvare una nuova legge sull’ordinamento forense, parallelamente o successivamente alla riforma costituzionale, c’è tutto. E c’è anche un’occasione politica e simbolica che l’avvocatura istituzionale non dovrebbe perdere di vista: il Congresso Nazionale Forense di Torino del 2026. Portare una riforma compiuta o, quanto meno, un testo già avviato in Parlamento, rappresenterebbe un segnale concreto di capacità progettuale e politica della categoria, oltre che una risposta alla crescente domanda di modernizzazione proveniente da dentro e fuori la professione.
Del resto, non è certo una novità che l’inserimento dell’avvocato in Costituzione sia una storica battaglia dell’avvocatura istituzionale, rilanciata con forza già ai tempi della presidenza Mascherin al Consiglio nazionale forense. Un obiettivo di alto profilo simbolico e giuridico, che tuttavia non può e non deve diventare un alibi per rinviare all’infinito la necessaria revisione dell’ordinamento professionale, ormai anacronistico in molte delle sue parti.
Il punto vero non è dunque se fare la riforma, ma quando e come avviarla. La presa di posizione del Ministro è legittima e comprensibile sotto il profilo istituzionale. Ma la responsabilità politica della professione è anche quella di non lasciare che la riforma resti nel limbo di una priorità “subordinata”. Se davvero la volontà politica c’è, i precedenti dimostrano che i tempi possono essere compatibili con il calendario parlamentare e congressuale. Tocca ora all’avvocatura fare la propria parte e chiedere con determinazione che il tema torni al centro dell’agenda politica e legislativa.
Il tempo c’è. La storia lo insegna. La posta in gioco — il futuro della professione forense — merita di essere affrontata con coraggio e visione.
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