Confrontate con le attività economiche appartenenti alla medesima classe dimensionale per numero di addetti, le Pmi[1] italiane si distinguono positivamente e si affermano come leader all’interno del contesto europeo. Analizzando parametri quali il numero di imprese, l’occupazione generata, il fatturato e il valore aggiunto prodotto, le aziende italiane con meno di 250 dipendenti risultano prevalere in tutte le categorie. Particolarmente significativo è il dato relativo al livello di produttività[2], che supera quello delle imprese tedesche, riconosciute da sempre come le migliori nel settore manifatturiero europeo. A segnalarlo è l’Ufficio studi della CGIA.
- In Italia tante Pmi
Gli ultimi dati disponibili[3] ci dicono che le Pmi italiane sono poco più di 4,7 milioni, pari al 99,9 per cento del totale e danno lavoro a 14,2 milioni di addetti, vale a dire il 76,4 per cento del totale nazionale. Il confronto con le grandi imprese[4] mette in evidenza l’ ”inconsistenza” numerica di queste ultime. Sempre nello stesso anno, le aziende di grandi dimensioni ammontano a 4.619 (lo 0,1 per cento del totale), ma occupano oltre 4,4 milioni di addetti (il 23,6 per cento del totale) (vedi Tab. 1). In termini di fatturato, invece, le Pmi generano il 64 per cento del totale nazionale e circa la stessa quota di valore aggiunto (65 per cento). Per contro, le grandi imprese fatturano “solo” il 36 per cento del dato nazionale e il 35 per cento del valore aggiunto.
- Leader in UE
Quando il confronto si sposta su scala europea, le performance delle nostre Pmi sono le migliori. Se a livello numerico la quota è in linea con quella dei principali Paesi competitor, il contributo in termini occupazionali e di valore aggiunto (Pil) delle nostre realtà è nettamente superiore. Se focalizziamo la comparazione solo con la Germania, le nostre Pmi danno lavoro al 74,6 per cento degli addetti totali, contro il 55,2 delle pari categoria tedesche. In termini di fatturato le Pmi italiane ne producono il 62,9 per cento del totale, contro il 35,8 dei tedeschi. Infine, in termini di valore aggiunto, il contributo delle nostre Pmi è del 61,7 per cento del totale, quello delle concorrenti tedesche è del 46 per cento (vedi Tab. 2). Insomma, a grandi linee abbiamo la stessa quota di Pmi dei nostri principali competitor europei, ma loro possono contare su grandi imprese di dimensioni e con risultati economici che noi non abbiamo.
- Siamo più produttivi dei tedeschi
Le Pmi italiane in senso stretto (10-249 addetti) sono addirittura più produttive[5] di quelle tedesche di 4.229 euro per occupato (+6,6 per cento) (vedi Tab. 3). Purtroppo, scontiamo un forte gap di produttività nei confronti di Berlino nelle micro attività (0-9 addetti) del 33 per cento. Come noto, la produttività dipende direttamente dalla dimensione aziendale e quindi, al crescere del numero degli occupati si verificano importi di valore aggiunto per addetto crescenti. Pertanto, se fossimo in grado di investire di più in innovazione, in ricerca e in sviluppo anche nelle realtà produttive con meno di 10 addetti, il sorpasso nei confronti dei tedeschi sarebbe completo su tutta la classe dimensionale tra 0 e 250 addetti. Va altresì ricordato che, in linea generale, il nostro sistema economico presenta un ottimo livello di produttività nel settore manifatturiero, ma sconta ancora dei grossi ritardi nei servizi e nel terziario.
- Non abbiamo più le grandi imprese
Nonostante le nostre PMI rappresentino un punto di riferimento in Europa, il sistema produttivo italiano registra ancora numerose criticità. Spesso queste imprese risultano sottocapitalizzate e con limitata liquidità, incontrando difficoltà nell’accesso al mercato dei capitali e mostrando scarsa propensione a instaurare collaborazioni con il mondo della ricerca e dell’università. Tuttavia, riteniamo che la problematica più rilevante che affligge l’intero sistema produttivo nazionale sia la carenza di grandi aziende, una situazione sconosciuta fino a circa quarant’anni fa. Sino alla prima metà degli anni ’80 del secolo scorso, infatti, l’Italia si posizionava tra i leader europei e talvolta mondiali nei settori della chimica, della plastica, della gomma, della siderurgia, dell’alluminio, dell’informatica, dell’auto e della farmaceutica[6], grazie al ruolo e al peso giocato da molte grandi imprese sia pubbliche che private (Montedison, Montefibre, Moplen, Pirelli, Fiat, Italsider, Alumix, Olivetti, Stet, Angelini, etc.). Oggi, a distanza di quattro decenni, abbiamo perso terreno e leadership in quasi tutti questi comparti; un declino non imputabile al caso o a eventi fortuiti, ma riconducibile a una selezione naturale operata dal mercato. È indiscutibile che lo scandalo di Tangentopoli abbia rappresentato un significativo punto di svolta; inoltre, gli effetti geo-politici derivanti dalla caduta del Muro di Berlino, dalle privatizzazioni avvenute nel nostro Paese nei primi anni ’90 e dalla globalizzazione “scoppiata” all’inizio di questo secolo, hanno contribuito a escludere dal mercato o a determinare profonde ristrutturazioni tutte le grandi aziende menzionate precedentemente, molte delle quali erano controllate dallo Stato.
- E’ grazie alle Pmi che siamo nel G20
Ogni qual volta si critica il nostro Paese per i bassi livelli retributivi, la scarsa produttività, la poca propensione alla ricerca e all’innovazione, la responsabilità ricade sul fatto che in Italia abbiamo troppe Pmi. In realtà, le cose stanno diversamente. A nostro avviso, i punti di debolezza appena richiamati sono in larga parte ascrivibili a una specificità che i nostri competitor non presentano. In Italia non abbiamo le grandi imprese. O meglio, non le abbiamo più, visto che fino alla fine degli anni ’80 del secolo scorso potevamo contare su dei player che nei rispettivi settori produttivi in cui operavano, giocavano alla pari con i migliori concorrenti di tutto il mondo. Ora, se siamo ancora nel G20, ovvero nel forum dei paesi più industrializzati del mondo, lo dobbiamo all’efficienza della nostra Pubblica Amministrazione, alle pochissime grandi imprese rimaste o allo straordinario lavoro svolto dalle nostre Pmi? Crediamo che nessuno possa contraddirci: lo dobbiamo ai tantissimi piccoli e piccolissimi imprenditori e alle loro maestranze che grazie alla capacità di combinare qualità, buon gusto, artigianalità e design, realizzano dei prodotti che sono caratterizzati da una forte identità che evoca emozioni e fiducia nei consumatori di tutto il mondo.
- Nel Sud le Pmi sono uno straordinario serbatoio occupazionale
Come abbiamo avuto modo di segnalare all’inizio di questa analisi, le nostre Pmi sono uno straordinario serbatoio occupazionale, in particolar modo nel Mezzogiorno (vedi Tab. 4) che è la ripartizione geografica del Paese che, a differenza delle altre, dispone di poche grandi imprese, quasi nessuna multinazionale e un numero contenutissimo di grandi banche e di assicurazioni. Ebbene, sul totale occupati di ciascuna provincia[7], a Vibo Valentia l’incidenza di coloro che lavorano nelle micro e Pmi è al 100 per cento. Seguono Isernia con il 98,5, Trapani e Agrigento entrambe con il 98,3, Campobasso con il 98,2, Cosenza e Verbanio-Cusio-Ossola con il 98. Le realtà dove l’incidenza sul totale occupati per provincia sono più contenute riguardano Torino, dove le MPmi danno lavoro “solo” al 63,9 per cento dei dipendenti, Roma con il 63,5 e, infine, Milano con il 51 (vedi Tab. 5).
[1] La raccomandazione 2003/361 della Commissione definisce come Piccole e medie imprese (Pmi) le aziende che hanno fino a 250 dipendenti, un fatturato fino a 50 milioni di euro e un totale di bilancio fino a 43 milioni di euro.
[2] Delle Pmi in senso stretto (10-249 addetti).
[3] Anno 2023.
[4] Impresa con 250 o più effettivi oppure ogni impresa, anche con meno di 250 effettivi, con un fatturato superiore a 50 milioni di euro e un bilancio superiore ai 43 milioni di euro.
[5] Valore aggiunto per occupato, in euro.
[6] Oggi, in parte, in questo settore manteniamo ancora una leadership importante
[7] Questi dati non includono il settore dell’agricoltura e della Pubblica Amministrazione
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