L’Italia continua a perdere terreno sul fronte dell’occupazione giovanile qualificata. A fotografare questa situazione è una serie di dati e analisi che raccontano di un mercato del lavoro frammentato, precario e incapace di rispondere alle esigenze delle nuove generazioni, soprattutto di quelle che hanno investito anni in formazione universitaria e specializzazioni.
Il fenomeno della cosiddetta over-qualification — ossia l’impiego in lavori inferiori alle proprie competenze — è ormai strutturale. In Italia riguarda circa il 20% degli occupati, quasi quattro punti sopra la media Ocse. E il paradosso è che a ottenere più facilmente un lavoro continuativo e ben pagato sono spesso i meno qualificati, mentre laureati e diplomati si ritrovano troppo spesso in occupazioni precarie e poco coerenti con il loro percorso formativo.
Un quadro aggravato dalla struttura produttiva del Paese, costituita per oltre il 90% da piccole imprese, spesso incapaci di offrire percorsi di carriera strutturati o condizioni contrattuali competitive. Secondo recenti rilevazioni, ben il 77% degli imprenditori artigiani e di piccole aziende ammette di non riuscire a soddisfare le aspettative dei giovani collaboratori.
Se a questo si aggiunge la percezione diffusa di un mercato del lavoro italiano segnato da precarietà (25,7%), sfruttamento (23,2%) e lavoro irregolare (12,7%), il risultato è una generazione disillusa e pronta a cercare fortuna altrove. Circa il 58% dei giovani tra i 18 e i 34 anni considera il trasferimento all’estero come unica possibilità per costruire una carriera soddisfacente, percentuale che sfiora il 50% anche tra gli over 65, segno di una consapevolezza trasversale sulla difficoltà di fare impresa e lavorare dignitosamente in patria.
Un’emorragia di risorse umane qualificatissime che impoverisce il tessuto produttivo nazionale e rischia di compromettere le prospettive di sviluppo economico e sociale del Paese, già gravato dal calo demografico e da una struttura imprenditoriale spesso refrattaria all’innovazione.
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