28 Luglio 2025 - GIUSTIZIA | Novità giurisprudenziali

Offese sul lavoro, la Cassazione dice sì al licenziamento per giusta causa

Una frase ingiuriosa rivolta al superiore, pronunciata in presenza di colleghi, può giustificare il recesso immediato dal rapporto di lavoro. La Suprema Corte conferma: il contesto, la gravità dell’offesa e i precedenti disciplinari pesano sulla fiducia tra datore e dipendente

ROMA – Offendere il proprio superiore, specie se lo si fa in modo plateale e in presenza di colleghi, può costare il posto di lavoro. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, sezione lavoro, che con l’ordinanza n. 21103 del 24 luglio 2025 ha confermato il licenziamento per giusta causa di una psicologa che aveva rivolto l’epiteto “leccaculo” al proprio responsabile durante una discussione sul piano ferie.

Una frase pesante, definita dai giudici “volgare, ingiuriosa e lesiva del rapporto fiduciario”, pronunciata in un momento di tensione ma in assenza di una vera provocazione. Decisivo, nella valutazione della Corte, anche il fatto che l’espressione sia stata proferita davanti a un’altra collega, rendendo pubblica l’offesa e aggravandone la portata disciplinare.

La dinamica: insubordinazione e contesto aggravante

Il diverbio si è consumato durante una riunione interna presso una struttura che si occupa di assistenza a persone con disabilità, in seguito alla richiesta da parte del superiore di rivedere il piano ferie già approvato. La psicologa ha reagito verbalmente, usando un linguaggio definito dalla Corte “chiaramente offensivo”, senza che vi fossero elementi di tensione tali da giustificare l’uscita.

Per la Cassazione, il comportamento configura non solo una grave insubordinazione, ma anche una lesione irrimediabile del vincolo fiduciario su cui si fonda il rapporto di lavoro. Un elemento centrale, soprattutto nei settori dove la professionalità è legata alla relazione, alla comunicazione e alla gestione delle dinamiche interpersonali.

Il precedente disciplinare: “inclinazione all’ingiuria”

A pesare nella decisione finale non è solo l’episodio in sé, ma anche il precedente disciplinare della lavoratrice: in passato, la psicologa era stata sanzionata per aver insultato il padre di un paziente. Un comportamento che, pur non configurando una recidiva automatica, è stato valutato come indice di una “inclinazione all’insulto e all’ingiuria”. Per i giudici, si tratta di un elemento rilevante per definire la personalità della dipendente e la sua idoneità a mantenere l’equilibrio relazionale richiesto dal ruolo.

Le valutazioni della Corte

Con questa ordinanza, la Cassazione ha ribaltato la decisione del Tribunale di primo grado, che aveva annullato il licenziamento giudicandolo sproporzionato. La Corte d’Appello, invece, aveva già confermato il provvedimento espulsivo, sostenendo che la gravità dell’insulto – sia per il contenuto che per le circostanze – supera la soglia della semplice contestazione disciplinare e giustifica l’interruzione immediata del rapporto di lavoro.

I giudici hanno inoltre precisato che la clausola del contratto collettivo che menziona “litigi, risse e ingiurie” non richiede la reiterazione degli episodi per legittimare il licenziamento: anche un solo episodio, se particolarmente grave e lesivo, può giustificare il recesso per giusta causa.

Implicazioni più ampie

Il caso assume rilievo anche oltre il singolo episodio, perché riafferma un principio importante nel diritto del lavoro: nei rapporti professionali, il rispetto e la correttezza nei confronti del datore di lavoro non sono solo doveri morali, ma obblighi giuridici. E la perdita di fiducia, se fondata su comportamenti gravemente inappropriati, non può essere riparata o mitigata da attenuanti soggettive.


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