Il reato previsto dall’articolo 660 del Codice Penale scatta a causa dell’invasività all’interno della sfera privata del destinatario ai fini di disturbo o di molestia.
Con la sentenza 34171/2023, la Corte di Cassazione precisa che tale reato può essere commesso anche inoltrando mail e PEC. Si tratta di una conclusione frutto di un’interpretazione estensiva della norma, non di analogia, che nel diritto penale è espressamente vietata all’interprete chiamato all’applicazione di un reato.
Tale norma incriminatrice punisce tutti, che siano «in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo».
L’indicazione del mezzo telefono, secondo i giudici, deve essere allargata ad ogni mezzo di comunicazione nel caso in cui venga sottratta la tranquillità privata, componente dell’ordine pubblico, per poter assicurare una tutela concreta alle vittime di disturbo o di molestia.
Qualsiasi tipo di fastidio o di turbamento arrecato mediante l’utilizzo intrusivo di un mezzo di comunicazione all’interno della sfera privata della vittima diviene presupposto della consumazione del reato di molestia o disturbo alla persona.
Non includere la posta elettronica, che ora è praticamente sempre accessibile dallo smartphone, comporterebbe lasciare scoperte situazioni di molestia o di disturbo che avvengono con mezzi differenti rispetto al telefono.
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La Cassazione ha ripercorso gli ampliamenti realizzati da parte della giurisprudenza del reato in questione per tenere conto di come si sono evoluti i mezzi di comunicazione e del superamento, dunque, del dato letterale presente della disposizione penale riferita al telefono.
Si erano già registrati degli orientamenti che prendevano in considerazione il mondo della messaggistica dello smartphone, puntando tutta l’attenzione sulle notifiche, che avvisano la ricezione di un messaggio con un suono.
Un allargamento del genere rientrava nella sincronia della comunicazione, che rappresentava una telefonata classica, che metteva in contatto sia il soggetto attivo del reato che il soggetto passivo, quello che subisce un contatto indesiderato per motivi biasimevoli.
La decisione della Cassazione, invece, mette in rilievo un recente precedente, che ravvisa la lesione del bene giuridico protetto da norme penali nell’intrusività delle comunicazioni ricevute. Dunque, superando la necessità di sincronizzare l’azione lesiva con il fastidio o turbamento arrecato.
Alla base del danno arrecato alla tranquillità privata troviamo la necessità di accedere ad un proprio strumento di comunicazione, appurando la presenza di contatti da parte del disturbatore o molestatore.
Nello specifico, la Cassazione sottolinea anche che la casella di posta elettronica della vittima fosse quella di lavoro, e dunque questa aveva il dovere di consultarla al fine di adempiere ai propri impegni lavorativi.
La Cassazione, alla fine, pensa sia irrilevante la possibilità che l’utente ha di disattivare i segnali di ricezione di una comunicazione o di tutte le comunicazioni ricevute. L’azione del disattivamento, se fondato sul fastidio o sul turbamento provato dal destinatario, prova che il bene protetto è stato attinto, dunque il reato risulta consumato.
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