Un datore di lavoro può trasferire un dipendente in un’altra sede per incompatibilità ambientale, a patto che tale decisione non sia una ritorsione per denunce di mobbing o altre contestazioni. È quanto emerge dalla sentenza n. 95 del 10 febbraio 2028 del Tribunale del Lavoro di Milano, che si è pronunciato su un caso sollevato da una dipendente di un istituto di credito.
La lavoratrice sosteneva di essere stata trasferita come ritorsione per aver denunciato in precedenza azioni vessatorie e persecutorie da parte dei superiori. Inoltre, lamentava un peggioramento della propria salute a seguito di tali comportamenti e chiedeva il riconoscimento di un inquadramento superiore, oltre al risarcimento dei danni subiti.
Il giudice, tuttavia, ha ritenuto legittimo il trasferimento, accogliendo la tesi difensiva dell’istituto di credito, secondo cui lo spostamento era una misura necessaria per risolvere una situazione di incompatibilità ambientale accertata. La sentenza sottolinea che, anche prescindendo dalla fondatezza delle accuse di mobbing – successivamente respinte – il mutamento di sede era giustificato dalla necessità di eliminare le tensioni sul luogo di lavoro, tutelando sia la salute della dipendente che il buon funzionamento dell’ufficio e l’integrità degli altri colleghi.
In questo contesto, il trasferimento non è stato considerato un atto ritorsivo, ma una decisione organizzativa volta a garantire un ambiente di lavoro più sereno. Il giudice ha richiamato l’articolo 2087 del Codice Civile, che impone al datore di lavoro l’obbligo di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei dipendenti, anche attraverso interventi come il trasferimento in caso di comprovata incompatibilità ambientale.
La pronuncia del Tribunale di Milano conferma dunque che il trasferimento per motivi organizzativi è legittimo, purché non nasconda intenti punitivi o discriminatori.
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