Non è fantascienza, è già realtà: l’intelligenza artificiale sta entrando negli studi legali. E non solo come strumento a supporto dell’avvocato, ma anche come giudice silenzioso del suo operato. Immaginate un cliente che, ricevuto l’atto giudiziario dal suo legale, decide di sottoporlo al vaglio di un programma di IA. In pochi istanti, la macchina emette il suo verdetto: l’atto è nel complesso sufficiente, ma alcune parti potrebbero essere migliorate. Un feedback sintetico e freddo, privo di sfumature, ma sufficiente a mettere in discussione la professionalità dell’avvocato.
Questa situazione non è solo ipotetica. Sta già accadendo. E porta con sé una serie di riflessioni su un rapporto professionale che rischia di trasformarsi radicalmente.
Una relazione che cambia
L’avvocato non è più solo in studio. Al suo fianco, anche se invisibile, potrebbe esserci una macchina pronta a valutare ogni riga del suo lavoro. Ma il punto è: il legale lo sa? Non necessariamente. Il cliente potrebbe usare un programma di intelligenza artificiale per giudicare l’operato del proprio avvocato senza mai rivelarglielo, insinuando un terzo elemento nel rapporto fiduciario che tradizionalmente lega le due parti.
E se invece il cliente lo dichiarasse apertamente? In tal caso, l’avvocato si troverebbe davanti a un bivio: accettare di confrontarsi con il giudizio della macchina o rifiutare il mandato, vedendo vacillare la fiducia che è alla base di ogni consulenza legale.
Ma rinunciare al mandato non risolverebbe il problema. Altri clienti potrebbero fare lo stesso, in silenzio. E comunque, l’IA non ha obblighi deontologici né tantomeno responsabilità etiche: emette un giudizio tecnico, algoritmico, privo di contesto.
Il rapporto a tre: cliente, avvocato e IA
Quando l’intelligenza artificiale entra in gioco, il rapporto tra cliente e avvocato diventa inevitabilmente a tre. La macchina è come un terzo incomodo, una presenza silente che media il legame fiduciario. E può persino influenzare la scrittura degli atti stessi: il cliente, forte del parere della macchina, potrebbe pretendere modifiche o addirittura decidere di fare a meno del legale, cercando qualcuno disposto a limitarsi a firmare un testo prodotto dall’IA.
Questo scenario apre interrogativi etici e deontologici non da poco. L’avvocato ha il dovere di indipendenza e deve fare proprio ogni atto che sottoscrive. Ma come verificare se un professionista ha realmente aderito ai contenuti di un atto o si è limitato a firmarlo per compiacere un cliente “assistito” dall’IA?
Quando la macchina scrive come un avvocato
L’IA è già in grado di redigere pareri, memorie difensive, osservazioni procedimentali. Testi che potrebbero sembrare scritti da un giurista in carne e ossa. La tentazione di farne uso è forte, specie per abbattere i costi e velocizzare il lavoro. Ma questa scorciatoia porta con sé rischi enormi: una produzione sovrabbondante e priva di sostanza, basata su testi generati in serie e privi di quella profondità analitica che solo l’esperienza e l’intuizione di un avvocato possono garantire.
Impedire l’uso dell’intelligenza artificiale è illusorio. La tecnologia avanza e sarebbe ingenuo pensare di fermarla con divieti formali. La vera sfida è saperla governare, senza diventarne schiavi.
Le conseguenze per la professione forense
All’interno degli studi legali, gli effetti dell’intelligenza artificiale sono dirompenti. Se prima un giovane praticante iniziava facendo ricerche giurisprudenziali per poi passare alla redazione di atti, ora il suo ruolo rischia di essere occupato da un algoritmo. Forse potrà distinguersi diventando un esperto nell’uso di queste nuove tecnologie, ma dovrà affrontare un confronto economico spietato: la macchina lavora più velocemente, impara continuamente e non ha bisogno di pause.
Il rapporto con il cliente cambia di conseguenza. Quest’ultimo deve sapere se l’avvocato sta utilizzando strumenti di IA per redigere gli atti, sollevando anche il delicato tema della privacy e dei dati sensibili che passano attraverso questi programmi. Ma come garantire trasparenza su questi aspetti? E soprattutto, come verificare eventuali illeciti, che non riguardano solo la deontologia ma anche il diritto penale?
Verso una nuova deontologia professionale
L’uso dell’intelligenza artificiale pone interrogativi che vanno ben oltre l’aspetto tecnologico: riguarda l’essenza stessa della professione forense. Qual è il ruolo dell’avvocato in un mondo in cui una macchina può scrivere atti legali credibili? E come salvaguardare quel legame di fiducia con il cliente, messo in discussione dalla presenza di un “terzo incomodo” che non sbaglia mai (almeno in apparenza)?
L’avvocato dovrà ridefinire il proprio valore aggiunto, puntando su ciò che una macchina non può offrire: l’empatia, l’intuizione strategica, la capacità di negoziazione. Perché la giustizia non è solo una questione di algoritmi. È fatta di persone, di emozioni, di storie da raccontare.
E questo, almeno per ora, resta un compito tutto umano.
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