A Taranto la vicenda dell’ex Ilva si è trasformata in un caso emblematico di contraddizioni e calcoli politici. Da un lato si chiede a gran voce di spegnere per sempre gli altiforni, in nome della salute pubblica e della lotta all’inquinamento. Dall’altro, nessuno sembra disposto a rinunciare ai flussi di denaro provenienti dallo Stato: cassa integrazione a oltranza, prepensionamenti mirati, bonus e fondi straordinari.
In tredici anni di passaggi da tribunali a consigli comunali, l’Italia ha visto sfumare un patrimonio industriale ed economico stimato fra i 40 e i 50 miliardi di euro. Nel frattempo, la classe dirigente locale ha giocato su due tavoli: paladini dell’ambiente davanti alle telecamere, negoziatori di aiuti e garanzie di reddito dietro le quinte.
Il risultato è una città che, complice una narrazione di emergenza permanente, sembra aver istituzionalizzato il diritto al salario indipendentemente dalla produzione. La Regione Puglia, pur denunciando l’impatto ambientale dell’impianto, ha firmato progetti di “riconversione” industriale che suscitano più di una perplessità.
Se davvero l’acciaieria è incompatibile con la salute pubblica — ipotesi sostenuta da studi e dati, ma non priva di autorevoli contestazioni — la scelta dovrebbe essere netta: chiudere e costruire, con risorse e competenze proprie, un nuovo modello di sviluppo.
Ma fino a quando prevarrà la logica del compromesso, Taranto resterà sospesa in un limbo in cui salute, lavoro e futuro si neutralizzano a vicenda, mentre il conto lo pagano sempre gli stessi: i contribuenti.
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