La diffamazione in chat non è aggravata, come invece avviene nel caso dei social e dei siti internet.
L’offesa non sembra essere arrecata con la pubblicità: i social e il web, sono assimilati alla stampa, in quanto l’espressione ingiuriosa potrebbe raggiungere un numero di persone indeterminato.
Il gruppo WhatsApp, invece, per natura, risulta destinato ad un numero ristretto di persone. Lo scambio di comunicazioni, dunque, rimane riservato, o comunque non dà il via ad una diffusione incontrollata, come invece avviene nei social.
Questo è quanto affermato dalla Corte di Cassazione, con la sentenza del 14 settembre n. 37618/2023.
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Risulta definitivo il non luogo a procedere nei confronti di un carabiniere, condannato a 5 mesi e 5 giorni di reclusione, oltre alla responsabilità civile. Al carabiniere è stata originariamente imputata una diffamazione continuata pluriaggravata, per aver inviato dei messaggi offensivi ad alcuni militari all’interno del loro gruppo WhatsApp.
Bocciato anche il ricorso del pm, che va a contestare l’esclusione dell’aggravante mentre invocava la giurisprudenza dei social e delle mail. Si esclude, infatti, che utilizzare la chat integri l’offesa recata mediante pubblicità.
Questo perché gli strumenti dedicati alla comunicazione digitale non sono per niente uguali, né tantomeno funzionano allo stesso modo. Il principio è valido nei confronti di tutti, che siano militari o civili, poiché sul codice penale militare di pace ci si basa sull’art. 595 c.p.
WhatsApp ha agevolato la comunicazione, tuttavia, il messaggio viene raggiunto soltanto dagli iscritti alla chat, che potranno comunque condividerlo, senza che la comunicazione perda la sua connotazione di riservatezza.
Diverso, invece, è il caso di Facebook, social dove le persone possono condividere i contenuti. Il libero accesso al sito web corrisponde alla scelta di leggere un giornale. Si tratta di un principio di tassatività, vigente in ambito penale, e dunque sufficiente per poter escludere che WhatsApp possa essere comparato ad un social ed esser ritenuto un mezzo di pubblicità.
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