L’Ufficio studi della CGIA comunica che nel caso i dazi imposti dall’Amministrazione Trump dovessero rimanere gli stessi di oggi[1] costerebbero al nostro Paese 3,5 miliardi di euro circa di mancate esportazioni. Se, invece, le tariffe doganali dovessero essere innalzate al 20 per cento, il danno economico ammonterebbe fino a 12 miliardi di euro. Sono stime che sono state riprese dalle elaborazioni fatte qualche mese fa dall’Ocse; importi che non includevano l’impatto economico di eventuali tariffe che potrebbero essere applicate su singoli prodotti merceologici.
L’Italia è un Paese con una forte vocazione all’export verso gli USA (nel 2024 la dimensione economica è stata pari a 64,7 miliardi di euro) e in attesa che il Presidente Trump ufficializzi l’intensità dei dazi, le cifre richiamate più sopra dovranno “misurarsi” con i seguenti interrogativi:
a) i consumatori e le imprese statunitensi sostituiranno i beni finali e intermedi italiani con quelli autoctoni o di altri Paesi, oppure continueranno ad acquistare prodotti Made in Italy ?
b) A seguito delle nuove barriere doganali, le imprese esportatrici italiane riusciranno a non aumentare i prezzi di vendita negli USA, contenendo i margini di profitto?
Sono domande a cui non è per nulla facile dare una risposta. Tuttavia, la Banca d’Italia ricorda che il 43 per cento delle nostre esportazioni verso gli Stati Uniti sono costituite da prodotti di qualità alta e un altro 49 per cento di qualità media[2]. Pertanto, sono prodotti che, verosimilmente, sono diretti ad acquirenti (persone fisiche o imprese) ad elevato reddito che potrebbero rimanere indifferenti ad un aumento del prezzo causato dall’introduzione di nuove barriere doganali. In merito al secondo interrogativo, invece, i ricercatori di via Nazionale segnalano che il potenziale calo della domanda statunitense legato all’incremento dei prezzi dei prodotti finali potrebbe essere assorbito dalle nostre imprese attraverso una contrazione dei propri margini di profitto. A tal proposito va segnalato che le aziende italiane che esportano negli USA presentano una incidenza delle vendite in questo mercato “solo” del 5,5 per cento del fatturato totale, mentre il margine operativo lordo[3] è mediamente pari al 10 per cento dei ricavi. In altre parole, sono poco esposte verso il mercato statunitense ed una eventuale “chiusura” di questo mercato inciderebbe relativamente poco. Inoltre, queste realtà produttive hanno mediamente buoni margini per ridurre il prezzo finale dei propri beni da vendere negli States, compensando, almeno in parte, gli aumenti provocati dall’introduzione delle barriere doganali. Ovvio che potrebbero verificarsi delle situazioni molto più gravi di quelle appena descritte, se le politiche protezionistiche di Trump dovessero provocare una forte svalutazione del dollaro, innescare delle contromisure in grado di provocare una caduta della domanda globale e dei mercati finanziari. Non solo. Come ha ricordato nelle sue considerazioni finali il 31 maggio scorso il governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta: “…il rischio più profondo è un altro: che il commercio, da motore di integrazione e dialogo, si trasformi in una fonte di divisione, alimentando l’instabilità politica e mettendo a repentaglio la pace”.
- Le nostre imprese che esportano in USA sono 44mila
Il Paese a stelle e strisce rappresenta il secondo mercato di sbocco per le esportazioni italiane, con un valore annuale che nel 2024 ha toccato i 64,7 miliardi di euro, pari al 9 per cento circa dell’intero export nazionale. In particolare, le categorie merceologiche maggiormente esportate negli USA includono i prodotti chimici/farmaceutici, gli autoveicoli, le navi/imbarcazioni e le macchine di impiego generale. Tali voci incidono per oltre il 40 per cento delle vendite totali nel mercato statunitense. Il numero degli operatori commerciali italiani attivi negli Stati Uniti è relativamente contenuto, ammontando a poco meno di 44mila unità; a questo dato si devono aggiungere le imprese dell’indotto non contabilizzate nelle statistiche Istat[4].
- A rischio l’export delle regioni del sud
I dazi voluti dall’amministrazione Trump potrebbero penalizzare, in particolare, le esportazioni del Mezzogiorno. A differenza del resto del Paese, infatti, la quasi totalità delle regioni del Sud presenta una bassa diversificazione dei prodotti venduti nei mercati esteri. Pertanto, se dopo l’acciaio, l’alluminio e i loro derivati, gli autoveicoli e la componentistica auto gli USA – e, a catena, altri Paesi del mondo – decidessero di innalzare le barriere commerciali anche ad altri beni, gli effetti negativi per il nostro sistema produttivo potrebbero abbattersi maggiormente nei territori dove la dimensione economica dell’export è fortemente condizionata da pochi settori merceologici.
L’analisi realizzata dall’Ufficio studi della CGIA si fonda sulla misurazione dell’indice di diversificazione di prodotto dell’export per regione; parametro che pesa il valore economico delle esportazioni dei primi 10 gruppi merceologici sul totale regionale delle vendite all’estero. Laddove l’indice di diversificazione è meno elevato, tanto più l’export regionale è differenziato, risultando così meno sensibile a eventuali sconvolgimenti nel commercio internazionale. Diversamente, tanto più è elevata l’incidenza del valore dei primi 10 prodotti esportati sulle vendite all’estero complessive, quel territorio risulta essere più esposto alle potenziali congiunture negative del commercio internazionale.
- Le più a rischio sono Sardegna, Molise e Sicilia
La regione che a livello nazionale presenta l’indice di diversificazione peggiore è la Sardegna (95,6 per cento), dove domina l’export dei prodotti derivanti della raffinazione del petrolio. Seguono il Molise (86,9 per cento) – caratterizzato da un peso particolarmente elevato della vendita dei prodotti chimici/materie plastiche e gomma, autoveicoli e prodotti da forno – e la Sicilia (85 per cento), che presenta una forte vocazione nella raffinazione dei prodotti petroliferi. Tra le realtà territoriali del Mezzogiorno, solo la Puglia presenta un livello di diversificazione elevato (49,8 per cento). Un dato che la colloca al terzo posto a livello nazionale tra le regioni potenzialmente meno a rischio da un’eventuale estensione dei dazi ad altri prodotti merceologici.
- Le meno coinvolte parrebbero la Lombardia e il Veneto
Ad eccezione della Puglia, le aree geografiche teoricamente meno in pericolo sono tutte del Nord. La Lombardia (con un indice del 43 per cento) è ipoteticamente la meno a “rischio”. Seguono il Veneto (46,8), la Puglia (49,8), il Trentino Alto Adige (51,1), l’Emilia Romagna (53,9) e il Piemonte (54,8).
- Milano, Firenze, Modena, Bologna e Torino producono un terzo delle merci italiane vendute in USA
La Città Metropolitana di Milano è l’area geografica del Paese che esporta di più verso gli Stati Uniti: nel 2024 le vendite hanno toccato i 6,35 miliardi di euro. Seguono Firenze con 6,17, Modena con 3,1, Bologna con 2,6 e Torino con 2,5. Tutte assieme queste cinque realtà territoriali esportano quasi un terzo del totale nazionale delle merci destinate negli USA.
[1] Su acciaio, alluminio e derivati i dazi sono al 50 per cento. Sulle auto, i ricambi e la componentistica auto sono al 25 per cento. Su tutti gli altri prodotti che hanno subito la “sospensione”, probabilmente fino al prossimo 1 agosto, la tariffa doganale è al 10 per cento.
[2] Bollettino Economico, Numero 2/2025 Aprile
[3] E’ il valore della produzione al netto degli acquisti netti di materie prime, dei costi per servizi e godimento di beni terzi e del costo del lavoro, a cui va aggiunta la variazione delle scorte di materie prime.
[4] Commercio estero e attività internazionali delle imprese, Edizione 2024, 15 luglio 2024.
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