Il diritto all’affettività non si spegne dietro le sbarre, nemmeno quando si tratta del regime detentivo più severo previsto dall’ordinamento penitenziario italiano. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con una decisione destinata a fare giurisprudenza, confermando che un boss mafioso, recluso al 41-bis da oltre 25 anni, ha diritto a un colloquio visivo con una donna con cui ha intrattenuto una relazione epistolare dal 2008, trasformata nel tempo in un legame sentimentale.
Nonostante il carcere duro limiti drasticamente i contatti con l’esterno, riservando i colloqui visivi esclusivamente ai familiari, la Suprema Corte ha accolto il principio secondo cui l’affettività è un diritto soggettivo che può estendersi anche a legami non formalizzati, purché non rappresentino un pericolo concreto per la sicurezza pubblica.
Una lunga relazione nata da parole scritte
Il caso riguarda un detenuto mafioso, arrestato nel 1993 e da oltre due decenni sottoposto al 41-bis. Nel tempo ha intrattenuto uno scambio epistolare con una donna estranea agli ambienti criminali. Un’amicizia nata sulle pagine, evolutasi in affetto profondo. Quando il direttore dell’istituto penitenziario ha negato il colloquio in presenza, il detenuto ha fatto ricorso al Tribunale di sorveglianza, che ha accolto la sua istanza.
Il Ministero della Giustizia ha impugnato quella decisione, ma la Cassazione ha confermato la legittimità dell’ordinanza. I giudici hanno chiarito che il diniego a un colloquio simile deve essere sempre motivato, valutando in modo puntuale e bilanciato il diritto all’affettività del detenuto e le esigenze di sicurezza pubblica.
Affetto sì, ma solo se non mette a rischio la sicurezza
Nel caso specifico, il Tribunale aveva verificato che la donna non era coinvolta in attività criminali né rappresentava un rischio per l’ordine pubblico, pur avendo un precedente penale e intrattenendo rapporti epistolari anche con un altro detenuto al 41-bis. La Direzione Distrettuale Antimafia aveva escluso pericoli concreti, anche alla luce dell’analisi della lunga corrispondenza tra i due.
Il pronunciamento segna un passaggio importante sul fronte dei diritti all’interno degli istituti di pena: la Cassazione ribadisce che anche nei regimi più restrittivi l’umanità del detenuto non può essere ignorata.
Un altro precedente sul diritto alla lettura
Lo stesso detenuto, in passato, era finito alla ribalta per il diniego – da parte della stessa direzione carceraria – alla lettura del romanzo Il nome della rosa di Umberto Eco. Anche in quel caso, la decisione aveva sollevato polemiche: il libro era stato vietato non per il contenuto, ma per via della rilegatura in copertina rigida, considerata inadatta per motivi di sicurezza.
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