È legittima l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio. A sancirlo, in via definitiva, è la Corte costituzionale, che con la sentenza n. 95/2025, depositata il 3 luglio 2025, ha rigettato le questioni di legittimità costituzionale sollevate da ben quattordici giudici italiani, tra cui la Corte di cassazione. Il cuore del dibattito ruotava attorno alla compatibilità della cancellazione del delitto con gli obblighi internazionali assunti dall’Italia, in particolare quelli derivanti dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione — nota come Convenzione di Mérida.
La Corte ha chiarito che l’obbligo di utilizzare la lingua italiana negli atti processuali, previsto dall’articolo 122 c.p.c., non riguarda gli atti prodromici al processo — come le procure alle liti — e ha sottolineato come nessuna norma della Convenzione di Mérida imponga agli Stati firmatari di tipizzare espressamente l’abuso d’ufficio come reato nel proprio ordinamento penale. La stessa convenzione, infatti, prevede solo obblighi generali di prevenzione e repressione della corruzione, lasciando ampia discrezionalità agli Stati sulle specifiche figure di reato da configurare.
Ammissibili, invece, sono state considerate le questioni proposte dai giudici rimettenti in riferimento all’articolo 117, primo comma, della Costituzione, che vincola il legislatore nazionale al rispetto degli obblighi internazionali. Ma, entrando nel merito, la Corte ha escluso che l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio rappresenti una violazione di tali obblighi, poiché né la Convenzione di Mérida né altri trattati ratificati dall’Italia impongono l’obbligo di configurare come reato simili condotte.
Rigettate anche le censure fondate sugli articoli 3 e 97 della Costituzione, con cui i giudici rimettenti denunciavano un presunto squilibrio nella tutela penale e un vuoto normativo nella protezione dei principi di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione. In linea con una consolidata giurisprudenza, la Consulta ha ribadito l’inammissibilità di questioni volte a ottenere un intervento “in malam partem”, ossia a espandere la punibilità, ricordando che la materia penale è riservata alla discrezionalità del legislatore.
Nelle motivazioni, la Corte ha inoltre evidenziato come valutare se i vuoti di tutela lasciati dall’abrogazione siano bilanciati dai benefici della riforma sia una questione di esclusiva responsabilità politica del legislatore, non sottoponibile al sindacato di legittimità costituzionale, se non in presenza di specifiche violazioni di norme costituzionali o obblighi internazionali, che nel caso di specie non sono state ravvisate.
Con questa pronuncia, la Consulta chiude così uno dei capitoli più controversi della recente riforma della giustizia penale varata con la legge n. 114 del 2024, confermando che la scelta di eliminare l’abuso d’ufficio dall’ordinamento resta legittima sul piano costituzionale e internazionale, e ribadendo il limite invalicabile tra il controllo di costituzionalità e la funzione legislativa.
Resta ora alla politica — come la stessa Corte sottolinea — il compito di valutare se, e come, garantire in modo diverso la tutela penale dell’imparzialità e del buon andamento amministrativo senza ricorrere a fattispecie vaghe o di difficile applicazione.
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