ROMA — Due pronunce ravvicinate della Corte di Cassazione rimettono ordine nella materia degli abusi edilizi, riaffermando limiti precisi alle sanatorie e chiarendo i casi in cui la demolizione di un’opera illecita non basta a estinguere il reato.
Con la sentenza n. 20665/2025, la Suprema Corte ha bocciato il tentativo di ottenere, a distanza di anni e fuori dai termini fissati dalla legge di condono, una verifica di condonabilità mediante parere legale richiesto al Comune. Una prassi diffusa in alcune amministrazioni locali, che i giudici hanno definito irrilevante e priva di fondamento giuridico. Solo la concessione di un permesso di costruire in sanatoria, richiesto nei tempi previsti dalla normativa, può infatti giustificare la sospensione di un ordine di demolizione. L’eventuale adeguamento dell’opera alle prescrizioni urbanistiche successivamente alla scadenza dei termini di legge non consente di sanare retroattivamente l’abuso.
Demolizione non salva dal reato
In una seconda decisione, la n. 20661/2025, la Cassazione ha accolto il ricorso del Procuratore della Repubblica avverso una sentenza di non luogo a procedere motivata dall’avvenuta demolizione di un manufatto abusivo durante il processo. In quel caso, però, l’intervento edilizio ricadeva in un’area archeologica vincolata, soggetta al Codice dei beni culturali. E secondo l’articolo 181 di tale normativa, il reato paesaggistico può considerarsi estinto soltanto se il responsabile rimette in pristino l’area prima che l’autorità amministrativa ne ordini la rimozione. L’intervento tardivo, dunque, non basta.
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